Trrrrrr Ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta
“SPOSTA QUELLO PIÙ IN LÀ”
Grrrrsh Vraaam
“Aaaaaaaaaah”
L’ultimo era il mio urlo interno, che si sprigiona ogni volta che passo di fianco a un cantiere attivo. Il rumore dei macchinari che perforano il manto stradale, le urla degli operai, il raschiare delle ruspe, il terreno che vibra sotto i miei piedi. È un assalto acustico, un’onda d’urto che si infiltra nel corpo e lo mette in allerta.
L’altro giorno stavo camminando lungo l’ennesimo cantiere che hanno aperto in questa stramaledetta città, e un omino vestito di arancione e fasce riflettenti ha deciso di azionare il suo martello pneumatico a meno di un metro di distanza da me. Ho trasalito così violentemente che la tachicardia stava per essere trasformata in un attacco di panico dal mio povero, abusato sistema nervoso.
Devo fare ammenda con la lettrice, che qui si scontrerà con le mie nevrosi. Spero vivamente che non possa empatizzare con il disagio che esprimerò nelle prossime righe – significherebbe che il suo sistema nervoso è ancora integro, beata lei. Ma allora, perché parlarne? Perché lamentarsi è una cosa bellissima. Allevia il fastidio, riorganizza la rabbia, crea una piccola zona franca. E poi – diciamolo – è ancora più efficace se fatto in modo drammatico. Una lamentela ben costruita è una forma di resistenza estetica, una maniera elegante di non soccombere. Quindi sì, riderò anche un po’ delle mie reazioni esagerate. Ma questo non le rende meno vere.
I suoni, per me, hanno una consistenza solida, palpabile, fisica. Li sento sulla pelle e sui denti, e più sono forti, più li vedo come grossi massi che rotolano e mi schiacciano. Non sono solo rumori: sono oggetti invadenti, ingombranti, che si impongono nel mio corpo e nella mia mente. Eppure, questa capacità – o condanna – di “vedere” i suoni non ha prodotto solo disagio. In altri ha generato visioni potenti, persino slanci di ispirazione artistica.
È il caso di Marinetti, che nei fragori della guerra trovò la materia viva per costruire una nuova lingua, un nuovo modo di sentire e scrivere il mondo. Quando Marinetti scrisse la sua famosa Zang Tumb Tuuum, voleva descrivere i suoni prodotti in un altro contesto: la guerra, di cui era grande entusiasta. L’uso creativo dei caratteri tipografici e l’effetto narrativo delle onomatopee dovevano servire come celebrazione di ciò a cui l’artista stava assistendo. Protetto dal suo privilegio, evidentemente.
Perché se senti il tuonare delle bombe e non ti fa paura, vuol dire che sai che quelle bombe non sono per te.
E infatti, era un inviato di guerra: uno spettatore di un conflitto non suo, di una battaglia che non lo avrebbe toccato direttamente – quella di Adrianopoli del 1912. Me lo immagino che guarda esplodere i colpi di artiglieria come un ragazzino delle scuole medie gode nell’accendere la miccia di un grosso petardo. Ecco: quella fascinazione infantile, quasi voyeuristica, per la distruzione.
Per alcuni, i rumori forti sono proprio questo: il suono delle cose che si spezzano, si trasformano, si aprono. E c’è qualcosa di magnetico, lo ammetto, nell’osservare un cantiere in azione. Non vi è mai capitato di fermarvi a guardare? Di rimanere lì, ipnotizzati, a spiare la città che si scortica, che mostra le sue tubature, i suoi strati interni, la sua carne viva sotto l’asfalto? È come vedere le viscere di un organismo normalmente impenetrabile.
Ma da lì a godere del frastuono come di una sinfonia… ecco, lì mi perdo. Queste persone che provano piacere nei rumori forti – che si caricano, che si esaltano, che si sentono “vitali” – per me restano un mistero.
Marinetti vedeva nei rumori delle macchine da guerra una nuova forma di poesia. Per lui, la potenza meccanica, il caos sonoro, il clangore assordante erano il suono stesso della modernità che avanzava. Zang Tumb Tumb non è solo un testo: è un bombardamento visivo e fonico.
E io, quando passo accanto a un cantiere e il mio cuore impazzisce, mi sento dentro quella stessa poesia – ma al contrario. Non invincibile e futurista, bensì vulnerabile e post-panico. Lì dove lui vedeva ritmo, io sento confusione. Dove lui cercava estasi, io trovo iperallerta.
Il cantiere urbano, oggi, è diventato la mia Adrianopoli personale. Solo che io non ho scelto di starci, né di cantarlo. Ogni trapano è un colpo di mortaio, ogni “TAK TAK TAK” è un’esplosione nel mio petto.
Ma non è più solo una questione mia.
Da un anno a questa parte i cantieri sono ovunque, letteralmente, come macchie di varicella. Strade chiuse, marciapiedi divelti, percorsi deviati, macerie a ogni angolo. La mappa si riscrive ogni giorno con il rumore.
Stanno rifacendo tutto per fare spazio ai nuovi binari del tram, un progetto che forse, un giorno, porterà ordine, progresso e sostenibilità ambientale. Ma nel frattempo ha trasformato ogni angolo in un campo di battaglia permanente. Un conflitto a bassa intensità, ma continuo, pervasivo, ineludibile.
Prima potevo pensare che il mio fastidio fosse solo una questione privata, una tara personale. Ora vedo volti esasperati, sento lamentele condivise, avverto un senso di stanchezza collettiva. Non sono più sola nella mia insofferenza.
Marinetti glorificava la distruzione come atto necessario per costruire il futuro; io la subisco quotidianamente senza averlo chiesto. Lui parlava di parole in libertà – io sogno la quiete come spazio di resistenza.
Il rumore, per me, non è progresso.
È invasione.
È perdita di controllo.
È sopraffazione.
Intanto, il sindaco ci invita a mantenere la pazienza, a sopportare questo caos con la promessa che presto tutto sarà finito. Ci parla come un medico che rincuora un paziente sottoposto a una lunga cura, piena di dolore e sacrifici, ma necessaria per guarire.
E se le promesse saranno rispettate, il tram non solo ci farà respirare un’aria meno inquinata, ma ridurrà anche quel rumore che oggi riempie le nostre strade – un mio personalissimo trigger di ansia e disagio: il rombo improvviso di una motocicletta spavalda, la sirena pungente di un’ambulanza che ti passa accanto, il rombo furioso di un’auto che ha fretta di ripartire.
Alla faccia di Marinetti: il vero suono del progresso non è il frastuono, ma il silenzio.