Lavoro con i turisti, soprattutto stranieri. Questo lavoro non mi piace, la gente che incontro non mi piace. Ogni giorno mi trovo a parlare e agire alimentando un sistema che aborro e penso di aver sviluppato una punta di razzismo. Mi raccontano dei loro viaggi: “We were in Florence, then Pisa for a couple of hours, now we have two days in Rome, then Positano and then Greece! An amazing week in Italy!”. Parlano stringendo un mini ventilatore portatile, in cerca di sollievo dalla calura mediterranea e dall’assenza di aria condizionata, un aggeggio che getteranno via a fine vacanza. Lo ripongono nelle loro tote bag strette sotto le ascelle sudate, borsine in tela con scritto “ciao bella” (mi chiedo, è solo merchandising ispirato al catcalling o è l’anastrofe del canto partigiano? Quale tra questi due è il prodotto più vendibile del Made in Italy?) o con un remake della Creazione di Adamo, michelangiolesca, dove il primo uomo è sostituito da un tenero canetto. Potrei spiegare che la Grecia non è Italia, che Positano è diventata un posto inaccessibile per colpa delle loro vacanze, che in questi due giorni a Roma non riusciranno mai a capire la stratificazione culturale millenaria di questa città. Quello che sputo è: “Wow! In Pisa you can take pictures of yourself holding up the Leaning Tower, so funny! and then, my God, Positano, Sorrento, the Amalfi Coast!!!!!! The best in Italy”.
Ma quando sono io a viaggiare sono davvero meglio di loro? sì. Almeno un po’, dai. Perlomeno per quel barlume di resistenza al capitalismo e al consumo che applico nella vita extra-lavorativa. Eppure mi sembra che la mia capacità di guardare il mondo sia stata completamente hackerata. Quando esploro una città nuova vedo i vicoli come scorci instagrammabili, mi premuro sempre che le cose che faccio siano “autentiche” per trovare davvero una connessione con quel luogo, per conoscerlo o capirlo o almeno poter dire di averci provato.Vorrei evitare tutte le impalcature acchiappa-turisti,ma mi sentopreda della psicosi dell’experience, e non riesco a capire cosa sia giusto e cosa no. Cerco il bandolo di una matassa inestricabile, turisti che chiedono di fare cose non turistiche che, alla fine, indovina un po’, diventano turistiche anche quelle.
Mi sembra che ci siano luoghi dove ormai è impossibile viaggiare evitando tutto ciò che è finto, estrattivo, volto al consumo. Cercando “l’autenticità” di un luogo mi chiedo se ce ne sia davvero una da trovare. L’algoritmo deve aver intercettato quanto l’argomento sia per me diventato un cruccio, ma infierisce anziché darmi risposte utili. Scrollo reel di ragazze statunitensi entusiaste della loro vacanza italiana, della dolce vita e dell’Italian lifestyle, bevono uno spritz e dal vetro del bicchiere filtra una piazzetta, dalla ringhiera in ghisa di un balcone pendono fiori coloratissimi e poi immancabili i panni stesi, possibilmente da una vecchia signora in grembiule che chissà perché ci ostiniamo a usare il sole e il vento anziché una praticissima asciugatrice, un pavimento in pietra antica, un vicoletto, nulla di più italiano. Quando è che, nella mia testa, ho iniziato a pensare alle nostre città con gli occhi di chi se le compra, tipo interi quartieri diventati parchi giochi per chi vuole spendere? Viaggiando mi sento assalita dal senso di colpa come se stessi invadendo la quiete di un luogo, la tranquillità dei residenti, la vivibilità di una città. Poi mi ricordo che il senso di colpa è il trionfo dell’individuo sul collettivo, l’atomizzazione delle lotte, il retaggio cattolico della nostra educazione, e che piuttosto servirebbe più rabbia sociale.
“Excusmeeeee can u take a picture of us?” Vengo richiamata alla realtà. Prima di salutare i miei turisti scatto loro una foto davanti a qualche affresco, immortalando il ritratto di una famiglia dell’Arkansas sorridente davanti a una sanguinosa battaglia del IV secolo, il potere spirituale e quello temporale che si confrontano, gli strascichi di paganesimo che si infrangono, il cristianesimo che dominerà. Loro escono bene, possono postare.
Lascia un commento