(non) essere ipocondriaca

(non) essere ipocondriaca
Caravaggio, Incredulità di San Tommaso (particolare), 160-1601, Bildergalerie, Potsdam
[Tempo di lettura: 4 pignalenti]

Sono stanca di sentirmi morire ogni giorno. Recentemente ho sviluppato un’ossessione per la mia salute fisica e ritenevo presuntuosamente di essere nel pieno di quelle paturnie psicologiche da maschio etero non totalmente decostruito, la famosa crisi dei trentanni che ti viene spesso preannunciata dai teen movie o dai reel su Tik Tok, ciò che un tempo i mistici erano soliti chiamare “notte nera dell’anima”. Ma a essere presuntuosa era la mia parte razionale e oggi mi ritrovo nell’incubo di un imminente e reale sprofondamento nell’inerte materia in decomposizione. Mi spiego. Durante un weekend romano in compagnia della redazione di Stanca, in attesa di poter pranzare con le abbondanti porzioni di un centro sociale in zona Centocelle, sento arrivare una fitta imponente alla parte destra del torace. Tra l’aurora del fastidio e le tenebre orrorifiche di un imminente infarto – “Il cuore è a destra o a sinistra?” mi chiedevo ossessivamente – passa circa un’oretta. Il fastidio è ormai un dolore lancinante, quindi si decide di chiamare il 118. Sia come sia, vengo dimesso in serata e nel viaggio di ritorno in treno verso Torino, oltre al mio zaino Invicta, porto con me l’idea di aver avuto un attacco di panico. “Non sto bene”, mi dico, mi sento sotto il giogo di un malessere psicologico. 

Dopo una lunga riflessione ho capito che l’ipocondriaco è come un complottista, solo che non si occupa delle trame segrete del potere ma si industria nell’ossessivo monitoraggio degli scricchiolii del proprio corpo. Ma come si sentirebbe un complottista scoprendo di avere ragione? Dopo il mio secondo ricovero in pronto soccorso nel corso di una settimana  credo di poter rispondere. Nei due giorni successivi alla mia visita ospedaliera, ero sempre in compagnia di una “fittarella” che non accennava ad assecondare l’idea di una malattia immaginaria. Contravvenendo al comandamento del “Rimanda ad un secondo momento” sborso un cinquantino per fare delle radiografie. Immaginatemi a casa, rilassato, finalmente ‘risolto’ dopo aver esorcizzato la paura facendo il controllo e convinto di dover andare a ritirare le lastre il giorno dopo. Immaginatemi mentre sento squillare il telefono e leggo sullo schermo il numero della clinica – non era trascorsa neanche mezz’ora. “Salve! Dovrebbe venire a ritirare immediatamente le sue radiografie”. Bam! “Tumore al terzo stadio” urla dentro me una voce disperata. “Maledizione! È successo!” esordisce un profetico disfattismo tra lo stomaco e il cuore. Facciamo scorrere le lancette dell’orologio di qualche ora: ho trascorso la pasqua in ospedale a causa di uno pneumotorace, una roba che a quanto pare non è direttamente correlata alle sigarette e che accade a molte persone spesso senza un perché. Mi viene comunicato che purtroppo il rischio di una recidiva è molto alto e che in quel caso si procederà ad un intervento risolutivo. “Quando succederà?”, ovviamente nessuno può saperlo. Che sfiga.

Da fisio-complottista quale sono, ammetto di aver provato un brivido di piacere quando ho compreso che ciò che mi stava accadendo aveva una precisa natura fisiologica. Solamente sul letto dell’ospedale, con una pompa ad acqua conficcata nel torace, solamente in quel momento, circondato da anziani intubati, solo lì mi sono sentito galleggiare nel terrore. Avere ragione: sublime; avere ragione sul poter morire: tremendo. 

Sia chiaro, non mi è accaduto nulla di tragico, ma la velocità con cui ho dovuto elaborare il fatto di non essere stato vittima di un attacco di panico, come pensavo, ma di una condizione che interessava davvero i miei polmoni mi ha totalmente devastato. Finire a sperare che lo pneumotorace non fosse reale e che la sofferenza fisica cadutami addosso in quel sabato romano fosse davvero frutto di qualche macchinazione del mio cervello, dà la misura di quanto vasta sia questa devastazione.

Per quanto la parte razionale di me cerchi di aggrapparsi alle parole dei medici che parlano di cause congenite, il mio cazzo di grillo parlante moralizzatore, la aliena voce della coscienza che qualcuno mi ha infilato dentro, sbraita senza posa che la colpa è del mio scriteriato rapporto con le sigarette e con il Delta-9-tetraidrocannabinolo. Ad ogni fitta nel costato o nel torace sento il senso di colpa delle centinaia di migliaia di boccate di fumo caldo e denso che ho respirato. I ricordi delle risate di gruppo attorno ad un trifase, quelli delle prime sigarette sul retro di un ristorante, il ricordo nitido di quel primo tiro di cannetta concessomi da due amici in spiaggia durante ferragosto, tutti i cimeli mnestici conservati nell’armadio dei momenti idilliaci diventano ora presagio di una malattia ventura che non è più solo immaginazione ma una concreta possibilità. Sento che essa è la punizione che mi merito, che è giusto e necessario che debba raggiungermi. È questo, dopotutto, il fulcro nascosto dell’ipocondria: il senso di colpa verso se stessi. Nei fatti, il malato immaginario, quello della mia ipocondria perlomeno, danneggia se stesso, vive come una mente disincarnata, il suo rapporto con il corpo ricorda un clochard depresso che vive la propria auto nell’incuria e nella trasandatezza, un clochard che a parole si atteggia a guisa di un ingegnere specializzato della FIAT. La verità è che io del mio corpo me ne sono fregato bellamente e non sono un medico non capisco un cazzo di fisiologia. L’ipocondriaco non riesce a trovare se stesso tra le cause del disordine a cui vuole porre rimedio. 

Il mio cervello di ipocondriaco è scisso in due: è Leonardo Di Caprio in Shutter Island, crede di essere il detective a caccia del serial killer che ha ucciso la moglie ma è in realtà quello stesso psicopatico uxoricida che sta ricercando. È Michelle Williams, la moglie del detective che in preda ad una psicosi ha annegato i propri figli e per questo è stata ammazzata dalla follia del marito. Dentro di me risiede una pulsione inconscia, una Medea che uccide i propri figli, allegorie delle possibilità di un avvenire luminoso contenute nella carne del mio corpo in salute.

Come tutti gli ipocondriaci sto uccidendo per procura il mio veicolo organico terrestre, sono stato a lungo come una testa alata senza corpo, immortale, adolescente, giovane. Quando sono uscito dal pronto soccorso e ho realizzato che avrei dovuto lasciare andare le vestigia di un passato che mi ostinavo a voler tenere con me, in quel momento mi sono risvegliato dal sonno dell’immortalità e devo proprio dirlo: sono stanca di poter davvero morire. 

Condividi: