Riusciremo a ricreare una comunità?

Riusciremo a ricreare una comunità?
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di Federica Ranocchia, Fabio Ciancone

Il mondo culturale pullula di festival. Alcuni sono istituzionali, ospitano i ministri e gli assessori, si svolgono in contesti visibili, sono ambiti da chiunque cerchi di farsi strada nel mondo competitivo e asfissiante della “cultura”; altri nascono e si muovono dal basso, dalle realtà di provincia, dalle associazioni dei piccoli paesini. Spesso sono una risposta, in parte politica e in parte estetica, ai primi. 

Quello che sembra mancare, in entrambi i casi, è un dialogo reale con ciò che sta fuori da questi contesti. I grandi saloni non sono molto diversi da centri commerciali, in cui si va a chiacchierare con la persona nota di turno, ci si fa strada per farsi notare da questo o da quell’editore, si tenta con estrema difficoltà di ascoltare conferenze impossibili da seguire senza rumori assordanti di sottofondo e tempi che non lasciano spazio al dibattito o alla riflessione. Gli altri, invece, soffrono della strutturale carenza di visibilità e di mezzi per emergere, per di più faticando a creare logiche differenti dai primi. Le case editrici possono essere grandi o indipendenti, di Roma e Milano o di una cittadina di provincia, ma restano aziende costrette ad andare a caccia di riconoscibilità agli occhi dei loro clienti. Insomma, buona parte dei festival si fa per profitto. 

Esistono, invece, contesti che riescono a sfuggire a queste logiche, ovvero quelli che non nascono dalla cultura per la cultura. Hanno origine da un’esigenza spontanea di dialogo con la società extra-letteraria: nascono per ricreare un tessuto sociale. Se esiste un limite alla diffusione capillare della cultura, mi sento di dire che sta proprio nella totale distruzione di un tessuto sociale che generi rapporti fruttuosi tra chi “fa” cultura e il suo ipotetico pubblico. Dico ipotetico, perché è cosa nota che spesso la cultura si auto-alimenta all’interno di circuiti chiusi, stretti, vorticosi, che non riescono a mettere il naso fuori da contesti molto piccoli, ritagliandosi spazi limitati anche all’interno della stessa città, che generalmente “relega” la cultura a determinati quartieri. Se si fa un gran parlare delle poche centinaia di copie che vendono i libri candidati al Premio Strega, ad esempio, forse è anche per via dell’amara presa di coscienza che uno dei premi letterari più importanti in Italia sia generato da un humus sociale pressoché inesistente.

La letteratura è una cosa difficile da fare da soli, serve uno scrittore, un editore, tanta gente dietro che legge e dà pareri sul libro. Ma se anche negli ambienti tradizionali i libri non li legge quasi nessuno, come si può diffondere un prodotto editoriale che segue delle logiche di opposizione conservando la speranza di essere letto per davvero?
Alberto Prunetti è stato per dieci anni un cuoco, poi è diventato uno scrittore e questo lo ha portato a lavorare per altri dieci anni nel mondo dell’editoria. Prunetti è diventato uno scrittore con Amianto, un libro che racconta la storia di un uomo per niente speciale, la storia di un operaio che è tanti operai, che sopporta la sua condizione precaria come tanti altri fanno fino a morire di lavoro. Il suo esordio nel mondo della letteratura ha caratterizzato profondamente la posizione che occupa anche oggi: la letteratura può non solo avere uno scopo sociale, ma può essere sociale e forse solo così, passando di mano in mano perché la si percepisce come la testimonianza di una storia personale e di quella dei propri compagni, sarà letta per davvero. 

Nel 2018 la casa editrice Alegre propone ad Alberto Prunetti di dedicare una collana alla letteratura working class, permettendo a quelle storie di diventare comunità, di ribadire con chiarezza che sono storie di tanti, che sono storie di classe, che si tratta di letteratura sociale.
Dall’incontro di questa esperienza con quella dell’occupazione della fabbrica GKN – grazie al sostegno dell’ARCI Firenze e a una campagna crowfunding – nasce nel 2023 il primo festival internazionale della Letteratura Working Class in Italia, quest’anno alla sua seconda edizione. Il Festival della Letteratura Working Class di Campi Bisenzio si è tenuto il 5-6-7 aprile ed è stato un esempio di festival sociale per vari motivi: è nato dal contesto di occupazione di una fabbrica; è stato organizzato da un collettivo di operai e di persone a loro solidali; ha avuto come culmine un corteo; si è svolto in una piattaforma generale di rivendicazione politica. Ci sono altri elementi non meno importanti che differenziano questa e altre manifestazioni da quelle tradizionali dei circuiti culturali, come l’attenzione particolare ai bisogni comunitari e l’assenza di stand in cui le case editrici potessero mettere in mostra i propri (e solo i propri) prodotti editoriali. Quello di Campi Bisenzio è stato il tentativo di lavorare alla ri-creazione e alla cura di una comunità solidale.

Il concetto di solidarietà è strettamente legato al denaro, al pagare le cose gli uni per gli altri, a prestarsi i soldi. Sarà forse per questo motivo che migliaia di persone sono accorse a supporto di operai e operaie che da mesi non percepiscono gli stipendi. E forse, sempre per lo stesso motivo, uno degli atti pubblici più significativi del Collettivo di fabbrica della GKN, da quando esiste, è stato quello di rivolgere a propria volta una domanda ai giornalisti che, nel 2021, chiedevano conto della loro situazione: “E voi come state?”. 

Prunetti stesso ha definito fondamentale l’apporto della componente conflittuale generata dall’occupazione e dal collettivo di fabbrica per la nascita e il successo del primo Festival: “Gli operai GKN hanno fatto nei primi sei mesi della loro occupazione più di quello che io ho fatto in dieci anni per l’immaginario working class. Perché io lavoro da scrittore, che – spiace dirlo – è comunque un mestiere radicato dell’individualismo borghese. Mentre loro lavorano da operai, in forma collettiva. E questa è la morale della storia: i libri contano se diventano comunità, se si sanno trovare compagni di strada, se camminano sulle labbra delle persone che li leggono. Altrimenti sono solo merci”.

A Campi Bisenzio faceva molto caldo, come in tutta la piana tra Firenze e Prato fin dai primi giorni di aprile. È il territorio in cui si alimenta buona parte dell’industria tessile e meccanica della Toscana, una delle aree a più grande impatto produttivo della regione e del Centro Italia. È un territorio ricoperto di cemento, in cui le case sono state costruite in funzione dei capannoni. Attorno a questa area si fanno la gran parte degli interessi degli speculatori edilizi, come nel caso della stessa GKN, la cui proprietà si rifiuta sistematicamente di partecipare ai tavoli istituzionali sia del governo che delle istituzioni locali e prova a far cedere per sfinimento gli operai che occupano la fabbrica da due anni. Esiste un piano di riqualificazione aziendale, esistono i progetti per riavviare la fabbrica immediatamente, esiste una proposta di legge regionale per creare un consorzio pubblico per la fabbrica. Tutte proposte nate dalla solidarietà di tante persone competenti, che si sono strette attorno alla lotta operaia e vengono sistematicamente ignorate.

L’area, a partire dalla fine del 2020, non ha visto soltanto le rivendicazioni degli operai GKN, ma anche quelle di altre realtà, come la Textprint, la Whirlpool e Mondo Convenienza, scioperi altrettanto strutturati, terminati per aver raggiunto – almeno parzialmente – i propri obiettivi o per mancanza di forze. È un’area in cui la solidarietà fra lavoratori è forte e il tessuto sociale è fertile, a dispetto di chi da anni prova a smontarlo e distruggerlo. 

In quei giorni, si diceva, faceva molto caldo e il clima era sfavorevole all’organizzazione di un festival. La corrente della fabbrica era stata staccata da alcuni criminali che si sono introdotti di notte nei cancelli e hanno danneggiato il quadro elettrico. Guarda caso, pochi giorni prima c’era stato un sopralluogo della proprietà della fabbrica nel sito e non era stato convocato l’elettricista dipendente di GKN ma un esterno. È solo un caso. Anche l’acqua era stata staccata e veniva distribuita tramite un bar appositamente architettato. Il festival si è svolto all’esterno usando dei generatori, poi l’ultimo giorno dei solidali sono arrivati dalla Germania e hanno montato dei pannelli solari. Ora il presidio degli operai GKN si alimenta con i pannelli solari. Durante gli interventi degli ospiti del festival, che parlavano seduti su un furgoncino con il rimorchio, un drone di una società di vigilanza sorvolava sul festival per sorvegliarlo. 

Uno dei primi slogan del collettivo ex-GKN è stato “siamo classe dirigente”: è una frase che contiene il senso della lotta per essere visibili, per mettere in campo le proprie idee non come singoli ma come comunità e, per l’appunto, come classe. La chiave per farlo è ribaltare i rapporti di forza tra le classi, cioè pretendere che le esigenze di chi storicamente non detiene i mezzi di produzione e riproduzione della ricchezza possa prendere il potere, decidere per sé e per la propria comunità, collettivamente. 

In tutte le presentazioni, i discorsi, gli interventi, le risposte che venivano date durante il festival si rimarcava un prima e un dopo l’incontro con la comunità working class. L’individualismo ci tiene distanti gli uni dagli altri, lontani dal notare le similitudini che ci rendono parte di una collettività, di una classe. Questa consapevolezza una volta acquisita dona una sensazione di leggerezza e di benessere: non ero il solo, non ero la sola ma siamo tantissimi e vista così c’è più speranza.

“Ci hanno messo il capitalismo sottopelle” ha detto Dario Salvetti del Collettivo di fabbrica poco prima dei ringraziamenti finali; “Hanno strutturato le nostre vite come se ognuno di noi fosse una micro azienda. Per questo odiano il Festival di letteratura working class: perché ci aiuta a toglierci un po’ di capitalismo sotto pelle e a farci pensare a cosa è successo alla nostra classe in questi anni”. 

Se questo sembra l’epilogo di un percorso quasi naturale in un contesto come quello della fabbrica o del terziario, nel mondo culturale si fa molta più fatica a muoversi con chiarezza rischiando sempre di percepire i contesti lavorativi e i rapporti con i colleghi come profondamente ambigui.

Come portare questo discorso nella cultura, nei festival, nel nostro lavoro quotidiano? Riusciamo a fare comunità? La questione è complessa e riguarda probabilmente due ordini di problemi. Il primo è individuale: come si esce dalla costante lotta per essere visibili? Come si fa a scrivere in maniera autentica, se gran parte di quello che si fa nel mondo culturale ha il fine secondo di poter fare poi altro, magari di più importante? Il secondo è materiale, e precede il primo: come si fa a svincolarsi dalle logiche di autopromozione se gran parte del lavoro culturale è pagato malissimo o per niente? Possiamo giudicare male chi si autopromuove, se lo fa per sopravvivere? 

Lavorare nel mondo della cultura e nell’editoria quando si è allo stesso tempo parte della working class, quando non si è ricevuto in eredità un “capitale culturale” lasciapassare per i circuiti più giusti – quelli che ti avrebbero garantito uno stipendio – è per molti quasi come un compromesso passionale. E’ a tal proposito che nasce Redacta, forse una delle presenze al Festival che più incarna questa profonda frattura tra passione e sopravvivenza. Redacta è un’inchiesta sulle condizioni di lavoro nel settore dell’editoria libraria e i problemi che ha riscontrato sono, ancora una volta, problemi legati alla mancanza di una coscienza di classe: frammentazione delle forme contrattuali, scarsa consapevolezza sui propri diritti, isolamento fisico ed emotivo che spesso diventa competizione.

Non è un caso se tra i tanti panel di scrittori e scrittrici operai sia stato inserito uno sul lavoro culturale e sullo sfruttamento, e se in quel contesto sia stato presentato il sondaggio di Redacta mentre, contestualmente, il sindacato lanciava un algoritmo e una guida per ricevere compensi dignitosi. 

Non ci sono risposte semplici ai problemi che regolano le logiche dell’autopromozione nella cultura, al perché non riusciamo a creare contesti reali di solidarietà. Quello che credo sia certo, però, è che possiamo salvarci soltanto ricreando un immaginario collettivo.

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