Bolgheri è ciò che fino a qualche anno fa si sarebbe comunemente chiamato paesello e che oggi definiamo perversamente borgo. All’entrata di questo conglomerato di edifici circondati dalle mura di un castello, un tempo di proprietà dei della Gherardesca e da qualche decennio passato alla famiglia Zileri Dal Verme, un cartello rettangolare rossiccio con le scritte bianche giura al visitatore che sta per entrare in uno dei borghi più belli d’Italia. Soltanto chi viene da certe aree provinciali può sapere quanto sia ipocrita – e stranamente spesso ripetuta sulle insegne – questa frase.
Per percorrere l’intera superficie di Bolgheri, dice Google, ci vogliono otto minuti. Si tratta sostanzialmente di un anello, due strade principali collegate nel mezzo da vicoletti stretti; a ovest l’antica porta delle mura, a est l’accesso al cimitero. Entra, lavora, crepa. Io e Lucia decidiamo di mettercene sette cronometro alla mano e, con una corsetta finale, ci riusciamo.
Quello che mi sorprende durante il tragitto è la quantità abnorme di attività commerciali che incontriamo: almeno una per ogni edificio. Vendono soprattutto cibo e vino – Bolgheri è presa d’assalto da americani, russi e borghesi nostrani per le centinaia di ettari di vigneti che la circondano – ma anche fiori, decorazioni, pezzi d’arte dozzinale, idee regalo (non ho mai capito cosa contengano i negozi che vendono idee regalo). Tutto è decorato da fiori dai colori sgargianti, tanto luminosi da sembrare finti, piante da vaso, piante rampicanti, verde ovunque alternato al rosso al giallo al viola e così via. L’atmosfera è confidenziale a tal punto che persino le vie sono intitolate a persone chiamate solo per nome: Via Lucia, Via Ugo, eccetera.
Sempre secondo Google, l’ultimo censimento di Bolgheri nel 2001 ha registrato 157 abitanti ma ad osservare gli edifici è forte l’impressione che ora siano molti meno, che quello sia un luogo inabitabile, perché manca di ogni servizio. Non abbiamo notato neanche un minimarket, un negozio di vestiti per bambini, una macelleria, una farmacia, era tutto vini e regali. Il primo piano di ogni edificio è sventrato per ospitare un bancone, un registratore di cassa e la merce esposta.
Nel pomeriggio di metà maggio in cui io e Lucia siamo passati di lì, a Bolgheri c’erano ben più di 150 persone, la maggior parte delle quali, in camicia a fiori e pantaloncino comodo o in abiti dai toni accesi, bevevano il loro vino e smangiucchiavano la tipica focaccia (i toscani dicono schiacciata o schiaccia), servita con un salume, un formaggio e una crema di qualcosa. Se siete sfortunati, un tizio fastidiosamente sorridente urla “bada come la fuma” mentre ve la prepara.
Uscendo dal paese guardo attonito il cartello che iscriveva Bolgheri nella top list dei borghi nostrani e Lucia, che mi conosce bene, ridacchia prevedendo che ironizzerò su quel posto: “Ecco, ora andrai a casa e posterai questa foto con le tue classiche polemichette di sinistra”, mi dice, mentre già mi venivano in mente alcune delle frasi che ho scritto finora.
Al nostro ritorno dalla gita attraverso a piedi Piazza Duomo a Firenze, che è grande più o meno quanto Bolgheri. Qui non si produce vino, intorno non si estende nessuna coltivazione, non c’è traccia di vegetazione al suo interno. La pietra grigiastra e il marmo bianco riflettono la luce e fanno rimbalzare il calore asfissiante del sole estivo. Nei giorni di ressa, quando i turisti prendono d’assalto la piazza, possono volerci anche 15 minuti a percorrerne l’intera circonferenza a piedi. Per le bici, invece, non c’è spazio fisico e sono abbastanza sicuro che gli autisti dei pochissimi bus che passano di lì abbiano fatto un esame di guida speciale, con delle sagome umane semoventi al posto dei tradizionali birilli, per essere sicuri che poi non avrebbero ucciso nessuno.
Esiste una specie di legge non scritta per cui essere turista rende automaticamente chiunque un imbecille: ad esempio, uno dei segni tangibili di come, nel cervello dei turisti, alcuni meccanismi di base della logica e del buonsenso si inceppino è il bisogno impellente di scattare una fotografia a soggetti iper-riprodotti, facilmente trovabili in rete con una definizione migliore, con colori più nitidi e senza le nostre pose orripilanti a rovinare dei capolavori dell’architettura.
Una delle caratteristiche di ogni foto di un turista, poi, è la totale decontestualizzazione dei soggetti: si pretende che non ci siano auto, non ci sia folla, che non ci siano interferenze tra sé e la facciata del monumento di turno. Ecco, quindi, che il fotografo si sente in diritto di posizionarsi alla distanza che ritiene opportuna dal soggetto per ottenere una perfetta inquadratura (di solito dal basso), lasciando magari che un’altra persona si metta in posa, di traverso, gamba in avanti leggermente piegata, sorriso appena accennato, impedendo formalmente a chiunque di passare in quello spazio e prendendosi tutto il tempo necessario a fare clic sulla macchina. In base a recenti indagini condotte tra i miei amici, ho scoperto essere pratica comune farsi largo tra la folla pronunciando, a denti stretti o ad alta voce, dei sonori porco dio.
Il turista per definizione cammina lentamente intasando le strade, si guarda intorno e tende a sollevare lo sguardo, convinto che in alto troverà la soddisfazione a tutta la bellezza da cartolina che i suoi occhi bramano. L’abitante di una città guarda verso il basso e persino evita di indugiare troppo nell’osservare i monumenti, per distinguersi dalla folla e per non andare a sbattere. Il rumore di fondo di ogni strada e piazza di una città turistica è una litania di esclamazioni enfatiche in stile omaigòd, richiami a figli agitati, incitamenti al partner a darsi una mossa o rimproveri per aver sbagliato strada, in un delirio di urla e schiamazzi che farebbero inorridire chiunque. Non esiste cura per la malattia del turista e, prima o poi, tutti ne siamo stati affetti. Qualcuno, preso da moti di coscienza, prova a trasformarsi in viaggiatore.