Del caldo.
Del fatto che quando fa caldo sento il corpo uscire da me e correre verso spiagge dorate e mari azzurri.
Di dover lavorare in estate e non godere più dell’infra-mondo fatato delle vacanze scolastiche, quando cadevo in un oblio totale e se mia cugina mi proponeva di andare in giro per le cartolibrerie a cercare il materiale scolastico e il diario io mi opponevo con energia e aggressività. Avevo completamente dissociato la me stessa estiva dalla me stessa che andava a scuola. O più che altro direi che la mia metà estiva si crogiolava nell’anarchia totale, leggeva quello che voleva, mangiava gelati impunemente – non come ora che il mio corpo è più soggetto alla gravità e ingrassa -. Era una felice continua scoperta del mondo.
Mi ribellavo al sonno pomeridiano imposto dai genitori stanchi, perché allora non ero mai stanca. Ero infaticabilmente attiva. Pensavo con dispiacere alle suore di clausura, che stavano sempre stuggiate nei loro conventi a pregare e curare l’orto – mentre io correvo e mi facevo mordere le dita da lucertole infastidite, che cercavo ingiustamente di acchiappare.
Ora sono stufa di dover produrre con il caldo, che la mia vita non sia più un’impunita spedizione verso i lidi del mondo. Ora vorrei dormire, tradendo la me stessa iperattiva dell’infanzia e proprio sul mio letto d’infanzia, quello su cui dormono i fuori-sede quando tornano a casa.
Una volta da piccola andai nel mio parco preferito e vidi una tartaruga per terra, vicina al laghetto. Nella mia testa bambina non pensai che quella povera tartaruga fosse di terra, e la buttai nel laghetto per salvarla. Non riemerse più.
Con una brutta metafora stonata direi che questa estate da adulta mi fa sentire proprio come la tartaruga, costretta ad annaspare fuori dal mio habitat naturale.