Sorridi, sii gentile, se hai sentito qualcosa di strano fai finta di niente, concentrati su quello che stai facendo. Questa tazzina è macchinata di rosso su un lato. “Signorina, buongiorno!”. Gira la testa in direzione della voce, sorridi. Probabilmente è rossetto. “… abbiamo sempre fatto così e mio padre, mio zio hanno vissuto benissimo”. Chiacchiera, hai tempo. Pensaci, rimettendola nel cestello dopo il lavaggio quella tazzina sarà pulita all’interno ma la macchia rimarrà. “Tranquilla che mo’ ce ne andiamo tutti in vacanza! Voi per quanto chiudete?”. Non devi per forza voltarti,“Dal 25 al 31 siamo chiusi”, la cosa migliore da fare in queste situazioni è passare sbrigativamente la pezza sul coccio. “Te lo chiedo così non vengo in quei giorni”. Puoi azionare la lavastoviglie. Fatto. Voltati. “Ma certo, allora, che ti preparo?”. “Un caffè al vetro”.
In un giorno di maggio di due anni fa, parlando con una collega, finii per fare il conto al tempo trascorso nell’ambito della ristorazione. La conversazione verteva sulla stanchezza di fare per lungo tempo un lavoro che non ti piace e per la prima volta nella mia vita mi trovavo a quantificare quello speso nel perimetro di un qualche locale. In questi giorni ricorreva il decimo anniversario della chiusura stagionale del bar dove, poco meno che minorenne, guadagnai per la prima volta dei soldi da spendere senza chiedere il permesso a nessuno.
Dieci anni sono un bel po’ di tempo se l’idea che ti sei fatta della mansione che ogni giorno ti alzi per svolgere è quella di un lavoro temporaneo. Al ché, con estrema naturalezza, i tuoi pensieri hanno iniziato a vagare all’interno dello spazio cognitivo cercando disperatamente delle risposte al dilemma sollevato dal confronto del proprio agire con il tempo. Perché lavoro da così tanto nei bar? O meglio, cos’è per me questo luogo?
Baristi e camerieri sanno perfettamente che è incomprensibile dall’esterno la stratificazione di compiti e input che si crea nella mente durante un turno mediamente intensivo. Dal punto A al punto B il percorso è di circa otto metri, in questo tragitto, mentre porti il vassoio qualcuno ti chiederà dov’è il bagno, qualcun altro un bicchiere d’acqua naturale, dei bambini si staranno spintonando nel mezzo della sala per poi essere rimproverati dai genitori in maniera più o meno composta, dovrai anche evitare il solito vecchio Labrador sonnecchiante disteso che, come un ostacolo delle gare atletiche, sottolineerà un tuo eventuale errore con un, a volte squillante, a volte profondo rantolo. Finalmente lo vedi, il tavolino attorno al quale i meloportitu vestiti di tutto punto domenicale ti stanno aspettando. “Eccola qui la mia cioccolata calda bella densa!”. L’odore di merda è fortissimo, ma non è l’associazione banale con la cioccolata che provoca questa sensazione. “È una cioccolata calda normale, non è bella densa, è un problema?”. Qui lo dico qui lo nego, essere gentile fa parte della mansione, ma non è sempre una buona idea in termini di ottimizzazione. “Beh, se si può fare più densa…”, “Sì, gliela rifaccio da capo”, “Ma no! Basta che la riscalda un altro pochino…” aggiunge la signora decamacchiato con la voce di una balia, “… esatto! La rimetti dentro e la riscaldi ancora!”. Tra le dita già stringi il piattino sotto la tazza e hai un sorriso gentile stampato in faccia, non funzionerà mai, e mentre ricollochi la cioccolata, sola, al centro del vassoio spostando lo sguardo verso il bancone ti accorgi che la concentrazione umana in quegli otto miseri metri ha modificato completamente la conformazione dello spazio. Un “Permesso” educato, un paio di sorrisi. Una signora anziana si è accomodata con il marito e gli sistema piegati sciarpa e cappello sullo schienale della sedia, ti guarda, sorridi. La visuale si offusca. “Oddio scusa!” una donna con un’eccessiva intonazione teatrale ti guarda in pena colpevole di aver invaso il tuo spazio di manovra, “Non è successo niente, non c’è problema”. Si sente il rumore di una porta che si apre e la folla si divide per far passare la persona che aveva chiesto le coordinate del bagno poco prima. Anche tu sei costretta a spostarti e nel farlo ti concedi di nuovo la visuale che contiene l’anziana coppia. “Le posso chiedere se ci porta due caffè qui?” dice la signora indicando con le braccia la zona oscura che circonda il marito che evidentemente vive in un brutto periodo e che lei non può disturbare, “Certo”, rispondi. La signora sorride come la più riconoscente delle nonne “Lui lo vuole bollente bollente, decaffeinato per favore”. Certo. Hai annuito e sei riuscita a varcare la soglia che divide la sala dal bancone con tre falcate veloci. Posi il vassoio sul piano da lavoro e alzando lo sguardo ti rendi conto di essere di fronte a una parete composta da dozzine di occhi che ti scrutano in attesa. “Possiamo chiedere?”. Se c’è una cosa che sai per certo è che non si può essere gentili troppe volte di seguito o non riuscirai a fare mai niente. Ti chiudi nella tua mente, svuoti la cioccolata calda in un bricco per il latte e la riscaldi. La riscaldi molto. “Buongiorno!”, “Buongiorno a voi” dici con lo sguardo fisso sul liquido fumante. “Due cappuccini si possono avere?” e ora devi alzare lo sguardo per individuare l’interlocutore ma non prima di aver passato in rassegna lo sguardo di tutti gli altri clienti come in una carrellata. È in fondo e sorride indicando la fila. “Sì, glieli preparo tra poco”, non c’è molto altro da dire. La cioccolata inizia a emanare un odore di latte bruciato. Ti fermi, dovevi rifarla da capo sin dal principio. Non diventerà mai più densa così. “Signorina mi scusi”. Metti da parte il liquido cancerogeno e prendi l’occorrente per una nuova cioccolata. “Signorina…”. Mentre ti pieghi per prendere il latte noti che il bancone è pieno di tazzine macchiate. “Grazie mille tutto buonissimo!” senti la tua collega ringraziare e augurare una buona giornata. Ti concedi un minuto per sostituire il cestello di stoviglie pulite con quello sporco. “Signorina mi scusi…”. Subito noti che la macchia di rossetto si è tolta ma sulla porcellana c’è un alone rosato. “Signorina!”. Ti volti, una signora ben vestita ti sorride tantissimo. Ti viene naturale fare lo stesso. Continua a guardarti, con lo sguardo stretto nella smorfia sorridente alterna tra te e qualcosa dietro di te. I bicchieri. “Le avevo chiesto un bicchiere d’acqua naturale”.
Mai come in questo contesto di lavoro mi sono servita delle tecniche di respirazione. Inoltre, spesso si riesce a vivere e funzionare nei bar astraendosi dalla realtà contingente, facendo finta di star giocando in un simulatore open world. Lo stato di flusso assorbente del barista è una sorta di particolare esercizio di mindfulness: gli oggetti e lo spazio nel cervello devono essere ordinati e ordinabili per non andare nel panico, le normali reazioni emotive ignorate. Devi far passare il tempo funzionando come un ingranaggio. È così che impari a smettere di pensare a quello che fai e a un tratto ti accorgi che lo fai da dieci anni.