Pagare l’affitto

Pagare l’affitto
Launrent Chéhère, The Linen / Le linge - 2012. COPYRIGHT (C) BY LAURENT CHEHERE, ALL RIGHTS RESERVED.
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Sono stanca di pagare l’affitto. 

Vivo da sola da quando ho ventidue anni, me ne sono andata di casa perché ho sempre avuto bisogno di camminare in pace nel mio spazio e di non avere nessuno che mi fruga nei cassetti. Ora quasi rimpiango l’invadenza di mia madre da quando devo pagare l’affitto, in nero, per un buco di 25 mq. 

Non ho una casa di proprietà, non ho una macchina né un motorino (ho una bici per bambini), non mi sono mai comprata niente di valore perché non ho mai avuto più di un tot sul mio conto bancario. Lavoro da quando ho diciotto anni, ho fatto di tutto: la cameriera, la babysitter, la lavapiatti, ho venduto trucchi, ho lavorato in una scuola di cucina, ho fatto l’animatrice alle feste, ho fatto la cassiera alla Rinascente, dove mi hanno fatto pagare un caffè con una banconota da duecento euro. Quella banconota non l’avevo mai vista prima e, per un secondo, mi è sembrata così irreale da sentirmi catapultata a piazzale delle vittorie, la pretenziosissima e ambitissima casella viola del monopoli. A dire la verità neanche i miei genitori hanno una casa, mia mamma ha un mutuo trentennale e mio padre è in affitto, ha altri due figli da mantenere e di certo non ha soldi da dare a me. 

L’affitto, paradossalmente, è l’unica certezza della mia vita.

Questo mi fa pensare al famoso detto: “Esistono solo due certezze nella vita: una è la morte, l’altra sono le tasse” e l’affitto, aggiungerei io. Tra l’altro pensavo che questa fosse una citazione di Febbre da cavallo, m’immaginavo un Gigi Proietti caciarone e invece scopro che lo disse Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori del tanto odiato stato americano, altro che scommesse sui cavalli.

E allora mi inizio a chiedere chissà cosa ne penserebbe Benjamin Franklin, inventore del parafulmini e delle lenti bifocali, della mia stanchezza per l’affitto? Inventerebbe un calcolatore matematico per una distribuzione più equa del denaro oppure un cubo estensore che può trasformarsi in una casa ma essere portato comodamente nella borsetta? O ancora inventerebbe un cappello sferico che, quando si leva dalla testa e si mette a terra, ci si può entrare dentro con i piedi e addobbare a modino? Oppure costruirebbe una scala trasparente ma robusta che porta a una piccola nuvola dove prendersi un tè e edificare un piccolo rifugio? 

Chissà, continuo a immaginare case estendibili o gonfiabili, mentre sono davanti al bancomat a ritirare i 400 euro del mese, prosciugando un’altra volta il mio misero stipendio di 700 euro. Prima che la mia stanchezza si trasformi in rabbia, alzo lo sguardo verso la porzione di cielo azzurro sopra la mia testa. Sembra essersi formata una piccola casetta, trasparente come il vetro, quasi impercettibile, fluttuante e gratuita. Mi guardo intorno, qualcuna la vede, qualcuno no. Cautamente ci avviciniamo sotto alla casetta, mentre scende lentamente un piccola scala a chiocciola: saliamo veloci e incuriositi, senza riuscire a parlare di nulla. La scala e la casa volano sempre di più verso l’alto, allontanandosi dalla terra e dalle case di proprietà. Non ho neanche più paura delle altezze, il cielo sembra una culla. 

Guardo le mani e ho dei rettangoli di carta colorata in filigrana con dei numeri sopra, non riesco più a ricordarmi cosa sono.          

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