«La principale gloria di una donna è che non si parli di lei», scriveva Virginia Woolf nel 1929. Si sa, la modestia è la virtù muliebre per eccellenza. Lo era nel Ventinove, lo è ancora oggi e a tal proposito la cultura occidentale deve molto al cristianesimo. All’opposto la notorietà, i riflettori e l’esposizione pubblica sono scelte strettamente legate alla reputazione morale. La donna famosa può diventare un esempio positivo, l’incarnazione delle virtù appartenenti al suo sesso – modestia, obbedienza e fedeltà. Se devia, la mancata aderenza al modello inquina automaticamente la sua fama, il mito crolla e la donna con esso. L’archetipo patriarcale della brava moglie, della madre sempre brava e perfetta, è una sabbia mobile che non ammette eccezioni: bisogna compiere i propri doveri e non contestare le aspettative della società. Basta un attimo per sprofondare nel vortice della mala fama e, contrariamente a quello che accade agli uomini, non è necessario attendere innumerevoli capi d’accusa per poter essere additata come difficile, pazza, trainwreck. ll tentativo di spezzare queste catene e sfidare le norme di genere, rifiutando certi comportamenti, o fallendo nell’adesione al proprio archetipo, comporta la rottura con il sistema patriarcale e la rovina sociale. Il pubblico insiste su questa caduta, si accanisce, ne diventa ossessionato e si nutre famelico di questa parabola discendente, lasciando che si ripeta continuamente. Ne sa qualcosa Giovanna d’Arco. Ma anche Britney Spears.
Le modalità con cui le donne sono state mediaticamente scrutinate hanno attraversato un percorso tecnologico che ha raggiunto una pervasività inquietante. Jude Ellison Sady Doyle nel suo libro Spezzate. Perché ci piace quando le donne sbagliano (Tlon 2022) spiega come i mezzi di comunicazione vengano impiegati per la costruzione o la distruzione della reputazione e della fama della donna, facendo leva sul giudizio collettivo che loro stessi influenzano. È un circolo vizioso in cui la donna non ha controllo sulla narrazione di sé e una volta varcata la soglia della sfera pubblica si trova in balia di ingegneri dell’immagine, che possono lavorare per lei o contro di lei. Prima era la pubblica diffamazione, adesso sono gli shit-storms online. In qualsivoglia epoca, il laborioso marchingegno di gogna mediatica trova il suo modo di funzionare.
Ha funzionato quando in Francia, nel 1789, era regina Maria Antonietta. Nella sua epoca, Maria Antonietta era Il Sistema, nella sua interezza e nella sua decadenza, simbolo perfetto di tutti i valori dell’ancien régime. Le principali responsabilità della monarca erano di essere una brava regina, madre, moglie, obbedire, di essere devota e modesta. Questo conformismo nei confronti della tradizione, che alzava le aspettative della corte, le inimicò per partito preso una grande fetta della popolazione francese, presto in rivolta. Ma il popolo non costituì il suo unico avversario, nel giro di pochi anni subentrarono anche le tensioni nei circoli interni e più vicini alla regina. Fu criticata per il presunto disinteresse verso il ruolo materno (passarono sette anni, dal giorno del matrimonio, prima di generare un erede e per giunta femmina), e per il suo stile di vita opulento, dedito a gioielli, vestiti e parrucche, che, nel periodo di piena crisi economica della Francia, fece intendere una certa trasgressione nei doveri da regina. Il suo essere straniera non solo le causò molte difficoltà a integrarsi nell’etichetta e nei riti quotidiani di Versailles, ma la rese il centro di innumerevoli accuse di cospirazione a favore della propria terra d’origine. Tutti i pettegolezzi, pubblici o di corte, le si cucirono addosso grazie ad una straordinaria produzione di pamphlet diffamatori e volgare stampa satirica. Come quella celebre frase sulle brioches, che la storica Antonia Fraser ha aiutato a smentire lavorando sulla biografia della regina – che ha poi ispirato il film di Sofia Coppola. Innumerevoli furono le caricature pornografiche utilizzate per destabilizzarla da un punto di vista morale e politico. Era chiamata l’autrichienne, «cagna austriaca», aveva portato la Francia in rosso a causa delle sue mani bucate, aveva dato alla luce figli bastardi, era promiscua, forse lesbica, certamente aveva avuto rapporti con il fratello del re e, si disse durante il suo processo, aveva persino intrattenuto rapporti incestuosi con suo figlio. Travolta da un’aggressività deplorevole e raccapricciante, come molte prima e dopo di lei, Maria Antonietta fu giustiziata mediaticamente molto prima di essere effettivamente ghigliottinata nel 1793. Verso la fine della sua vita, era diventata il capro espiatorio di una monarchia al collasso e di un’istituzione dai valori anacronistici di cui ci si voleva sbarazzare.
Se questa narrazione suona familiare, è perché lo è: si pensi alla monarchia inglese. Prima Lady D e, successivamente, Meghan Markle: le due figure, che erano state accolte come potenziali modernizzatrici della Corona britannica, sono state travolte da un polverone mediatico, divenuto presto tempesta di sabbia. Tra Maria Antonietta e Markle, nella totale differenza tra i contesti storici e tra le due donne, emerge un’interessante somiglianza: le aspettative sociali, la diffamazione pubblica, la propaganda mediatica e le tensioni culturali. Proprio come la regina di Francia duecento anni prima di lei, anche l’americana Meghan Markle avendo sposato il principe Harry ha fatto ufficialmente ingresso in una delle istituzioni europee più antiche tuttora in vita. Se per molti interessati alla vita della Royal Family tutto ciò ha significato una boccata d’aria fresca, la vibe californiana di Markle è entrata da subito in contrasto con le etichette della Corona, al punto da essere considerata un problema e una minaccia per quell’ordine plurisecolare. Tutto materiale eccellente per i tabloids inglesi, affamati di scoop, fake news, e pionieri di nuove metodologie di delegittimazione e diffamazione. Senz’altro, l’estraneità di Markle al sistema monarchico non l’ha protetta dal diluvio di critiche sul suo comportamento, sottoposto ancora una volta a uno spietato scrutinio pubblico: irrispettosa, manipolatrice, destabilizzante.
Maria Antonietta e Meghan Markle, distanti anni luce l’una dall’altra, sono esempi di donne screditate dai media sulla base di pretesti superficiali, vittime di attacchi imprecisi, spesso incoerenti, diffamatori, che hanno segnato la loro immagine. Per citare nuovamente Doyle, se è vero che il mondo dei libelli infamanti è finito, quello dei social network e delle nuove frontiere di una morbosa invasione nel privato non è che appena iniziato. Che la fama sia sempre stata una condizione complessa da gestire è un fatto, ma non si può ignorare come la categorizzazione di genere abbia influenzato le narrazioni. D’altro canto, nessuno ha mai messo in discussione la sessualità di Luigi XVI, o riflettuto sulle ragioni dell’allontanamento di uno degli eredi al trono dalla prigione dorata che è la monarchia britannica. È più facile addossare la responsabilità a una donna che ha fallito o ha cambiato le carte in tavola, che è diventata una minaccia per l’ordine prestabilito. In Spezzate ci viene ricordata Hillary Clinton nel ’98, prima e dopo lo scandalo Lewinsky, ma si può aggiungere anche la premier finlandese Sanna Marin, che solo un paio d’anni fa ha dovuto affrontare gli attacchi di una stampa sconvolta dopo la divulgazione di un video in cui ballava a una festa –la ministra, poco più che trentenne, è stata sottoposta a un test antidroga, mentre veniva criticata per l’inadeguatezza del suo comportamento in quanto primo ministro. In Italia, nel frattempo, un soggetto come Silvio Berlusconi sedeva indisturbato in Parlamento.
Forse il problema non sono i media, che da libello pornografico diventano revenge porn, e riescono in ogni modo a delegittimare il corpo e l’umanità della donna, trasformandosi in macchine per la creazione di odio pubblico. Forse il nocciolo della questione è in un sistema patriarcale che da secoli punisce le donne che non rispettano le regole. La donna che si espone pubblicamente, quando non si conforma alle aspettative imposte, soprattutto se sotto i riflettori della fama, compie una trasgressione che viene percepita come sfida diretta a un sistema che non accetta deviazioni dal proprio ordine. Se parlare di discriminazione della “donna” – come se si potesse riassumere l’esperienza di tutte le donne del mondo – è improprio, dall’altro è innegabile che il processo di degradazione verso figure di spicco nella società mediatica, sia ieri che oggi, abbia la stessa radice e la stessa sostanza del vissuto di donne al di fuori di quel mondo.
Famose o meno, è un meccanismo che tutte subiamo eppure prendere come punto di riferimento l’esperienza di due figure appartenenti all’establishment e non “comuni”, che hanno avuto la strada spianata verso la notorietà proprio per il loro status sociale, dimostra quanto in là si spinga la cultura maschilista. Non è possibile ignorare la categoria di classe in un’ottica di discriminazione di genere e parlando di celebrità è chiaro che quelle chiamate in causa siano donne privilegiate, che non appartengono alle classi subalterne. Proprio in virtù delle loro possibilità, queste donne sono spesso aiutate, come spiega Doyle nel suo lavoro, da un sistema di spin doctors o addetti alle pubbliche relazioni che cercano di limitare il danno. Per le persone “normali” questa rete di supporto manca e l’impatto si dimostra molto più forte e violento, ricordandoci ancora quanto sia urgente una lotta intersezionale.
Ma uno status sociale privilegiato, se donne, non è una protezione sufficiente contro la ferocia e l’aggressività che si riceve con l’esposizione pubblica: il problema persiste perché radicato in un sistema sociale basato su una gerarchia di genere. La celebrità diventa quindi simbolo di una ribellione visibile, un atto pubblico di dissenso che, riflettendo le dinamiche di un sistema che pare muoversi costantemente contro le donne, attira su di sé il peso di un giudizio collettivo inevitabilmente patriarcale.