Mi sono sempre ritenuto una persona equilibrata, paziente, capace di un buon autocontrollo, almeno fin quando non ho iniziato a viaggiare regolarmente su treni e autobus di linea. Dopo essermi trasferito in un’altra città, forzato a spostarmi per le feste comandate o per altre ricorrenze, ogni volta che mettevo piede su un mezzo pubblico si risvegliava in me un impulso alla violenza: i miei movimenti diventavano bruschi e scattosi; la mia voce, normalmente espressiva, assumeva tonalità piatte, secche e spigolose; le conversazioni di circostanza con qualche barista o con i dipendenti dei negozi della stazione, normalmente infarcite di cortesie e frasi fatte, si riducevano ai sintagmi essenziali per completare gli attanti dei verbi, che contemplavano le sole forme assertive dell’indicativo presente e dell’imperativo. Mi sembrava persino di essere più forte: era facilissimo per me sollevare una valigia che mi era d’intralcio, fosse mia o di altri, per sbarazzarmene o per velocizzare le operazioni di salita e discesa dai mezzi.
Il primo episodio di violenza ha coinvolto la passeggera di un autobus diretto a Roma Tiburtina: seduto dietro di lei, le ho chiesto se potesse evitare di reclinare il sedile, poiché occupava molto dello spazio a mia disposizione; dopo essere stato ignorato, decisi di sollevarlo con un pugno ben assestato all’altezza del tavolino reclinabile. Per il principio di conservazione dell’energia il mio cazzotto la fece sobbalzare e, quando ricadde indietro, il sedile era perfettamente dritto. Il resto dell’autobus era incredulo ma nessuno si sentì di protestare per quello che era successo: la maggior parte dei passeggeri avrebbe voluto fare, al mio posto, quello che avevo fatto io. La signora, sommessa, si spostò qualche sedile più avanti.
Sorpreso io stesso dal mio gesto, sentivo un misto di potere e vergogna per una reazione che mi avevano educato a non avere, neanche nei casi dei peggiori inconvenienti. I sorrisi di assenso appena accennati da parte dei presenti, soprattutto di una ragazza carina che mi guardava dal sedile accanto al mio, mi convinsero a ripetere quelle azioni ogni volta che ne avessi sentito l’esigenza. Su una tratta Roma-Firenze, qualche mese dopo, strappai dalle mani del mio vicino l’iPhone X che riproduceva a volume troppo alto l’alternarsi disforico di voci e musichette di certi video su TikTok. Indeciso per una frazione di secondo su cosa farmene di quel cellulare, ma comunque prima che lo stronzo potesse rendersi conto di cosa stesse succedendo, decisi di lanciarlo contro il finestrino del vagone, carrozza 7 posto 9D. I vetri frantumati fecero un bel po’ di casino, costringendo l’addetto alle pulizie a intervenire e il treno a interrompere momentaneamente la corsa per evacuare i passeggeri, che non potevano certamente arrivare a Firenze con il finestrino spaccato e l’aria che entrava rumorosa dalla fessura. Nessuno ascoltava le lamentele dello stronzo, che minacciava denunce e reclami a Trenitalia, minacciava di denunciare me e minacciava anche di darmi due cazzotti in faccia. “Signore, il nostro regolamento vieta espressamente di tenere il volume dei vostri dispositivi elettronici sopra una certa soglia”, rispondeva fredda e inflessibile la capotreno, che si era frapposta fra me, seduto pacatamente al mio posto, e lo stronzo incazzato, in piedi lungo il corridoio a urlare cercando inutilmente il consenso di qualche altro passeggero.
Non andò meglio a quella bambina di quattro o cinque anni seduta due sedili davanti al mio sull’Italo di ritorno da Torino: il suo bambolotto, con cui non poteva fare a meno di giocare e chiacchierare animatamente, subì una decapitazione netta. Il mio gesto era stato talmente secco che la cucitura attorno al collo del pupazzo era appena sfibrata, l’imbottitura bianca fuoriusciva di poco e la testa del finto bebè, caduta per terra e poi forse abbandonata da qualche parte per strada, fissava la bambina di sbieco, con lo stesso sorriso ebete di quando era ancora attaccata al corpo. Lei non osò versare neanche una lacrima, impaurita; sua madre mostrò una certa preoccupazione per le ripercussioni psicologiche che la decapitazione di Bunny avrebbe avuto su sua figlia, ma si limitò ad abbracciarla in silenzio, vergognandosi della poca educazione mostrata dalla piccola Eleonora – così mi pare che si chiamasse.
Dopo qualche tempo, le voci sul mio conto dovevano essersi sparse tra i pendolari e i viaggiatori abituali, persino un talk show politico di Rete 4 dedicò il terzo blocco di una puntata estiva alle mie azioni. Il banner in sovraimpressione recitava: “Il giustiziere dei treni: garanzia o pericolo per i consumatori?”. Il senatore della Lega scaricava le responsabilità sulla presenza di troppi immigrati irregolari; quella del PD diceva che farsi giustizia da soli non è mai la cosa migliore e che bisogna fidarsi delle istituzioni; l’ex presentatore tv, ora opinionista, raccontava dei fatti incresciosi che gli erano capitati con qualche mio emulatore un po’ eccessivo. Io, che guardavo da casa, sapevo di piacere agli anarco-capitalisti, agli stalinisti nostalgici e a qualche fascista, ma in fondo pensavo che dei talk show e della politica non mi importasse niente e che facevo tutto soltanto perché mi stavano sul cazzo gli stronzi.
La mia identità era rimasta ignota, ma una telefonata di mia madre, preoccupata per quello che avrebbe potuto capitarmi il giorno in cui mi fossi opposto alle azioni di qualche squilibrato, mi convinse a limitare molto la mia consueta libertà d’azione e ad auto-impormi un certo controllo. Quello che è successo oggi, però, supera ogni limite di sopportazione. Un gruppo di quattro galline newyorkesi chiacchierava animatamente accanto a me, appena al di là delle barriere di controllo dei biglietti di Firenze Santa Maria Novella. Avrei voluto allontanarmi ma il bisogno di sapere da quale binario sarebbe partito il mio treno mi costrinse ad aspettare lì. Mi accesi una sigaretta che iniziai a fumare a pieni polmoni, cercando di origliare la loro conversazione per trovare del buono nelle loro parole, un punto in comune tra i nostri pensieri, una passione condivisa che le avrebbe rese meno insopportabili ai miei occhi.
Il tabellone luminoso della stazione invitò la cinquantina di passeggeri in attesa a dirigersi verso il binario 10 e, inutile dirlo, le galline si dirigevano verso il mio stesso vagone. Con mio disappunto scoprii che non erano sole e che anzi viaggiavano con altri quattro idioti che fino a quel momento erano rimasti in silenzio a scrollare e ascoltare musica. Superfluo specificarlo, dopo essermi seduto al mio posto ero circondato dal gruppo.
Le fila del loro discorso si ruppero per una mezz’oretta, ma il rumore che producevano non diminuiva: dalle cuffiette del tipo biondo e muscoloso seduto appena dietro di me si sentiva chiaramente il ritornello di Poker face di Lady Gaga, l’altro turzo dal lato opposto non si risparmiava nello sbadigliare rumorosamente e nel tirare su col naso il moccio, mentre le unghie laccate della tipa accanto a lui battevano rumorosamente, di un rumore difficile da immaginare razionalmente, sullo schermo del suo telefono. Una battuta di uno di loro fu il pretesto per ravvivare la conversazione.
“Guys, do you know at what time are we gonna be in Rome?”
“I think in about an hour”
“Shall we eat something before we get to the AirB&B?”
“I think there will be some food in the fridge, otherwise we can go around and look for some supermarkets”
“Yeah, I think I also need a shower before going out tonight”
“Guys, do you know if there are some clubs in our neighborhood?”
“We should text our host and ask her, I want to get drunk”
“Me too”
“Yeah, I’m sure there are at least some pubs there, I’ve seen some reels on Instagram”
“Should we book a restaurant for tonight? I want to eat a proper carbonara”.
La conversazione procedeva indolente e priva di senso, il gruppo saltava da un argomento all’altro e progressivamente il tono della loro voce aumentava. Il nervosismo dentro di me stava montando ma nella mia testa c’erano la voce preoccupata di mia madre e l’indecisione su quale delle otto persone dovesse essere l’obiettivo della mia rabbia. Non avrei potuto sceglierne solo una e sarebbe stato difficile trovare una contromisura adeguata a quel chiacchiericcio insensato.
Provai a sbuffare ma l’aria che usciva dal mio naso era a mala pena udibile dal gruppo, che in ogni caso non avrebbe potuto ricondurre il mio fastidio al loro atteggiamento scortese. Così decisi di fissare intensamente e con fare brusco una di loro, sperando di intimorirla e che fosse lei a calmare gli altri: mi ignorò. Era evidente che il mio vicino di posto, sofferente quanto me, aveva capito chi fossi e quasi mi incitava, in silenzio ma con espressioni eloquenti, a intervenire. Quello che mi decisi a fare, tuttavia, fu per me una cosa inaudita.
“Guys, c-can you p-please low the volume of your voices? I’m trying to sleep a little bit”. Attimi di silenzio, il mio vicino era schifato dalla mia moderazione.
“I’m sorry mate, we won’t disturb you anymore”, si affrettò a rispondere il ragazzo che ascoltava Lady Gaga, generando la disapprovazione della sua fidanzata. “Sorry what? We are not doing anything, we are just chatting, it’s our right to do that”, rispose lei. “C’mon Lilly, the guy is right, it’s ok to continue our conversation afterwards”, riprese un’altra, generando una lite interna al gruppo.
Io mi ero già rimesso a sedere, ma era evidente che la situazione fosse ormai fuori controllo. Altre persone intervennero, fin quando il dibattito si era allargato a tutto il vagone. Ogni passeggero sentiva l’esigenza di dire la propria sulla questione se fosse legittimo o meno chiacchierare tra amici su un treno, anche a voce sostenuta. Nacquero piccoli gruppetti di conversazione che si sovrapponevano, a volte le discussioni sfociavano in vere e proprie liti e ormai il rumore era assordante. Un passeggero della carrozza 3 di passaggio, bisognoso di andare in bagno, ascoltò quello che stava succedendo e trasportò il dibattito al proprio vagone e a tutto il treno. Le liti erano furiose, la situazione ingestibile, qualcuno venne addirittura alle mani. Io, dopo pochi minuti, mi ero addormentato serenamente.