Non so se è peggio un uomo che ti interrompe per parlarti sopra oppure un uomo che si stupisce quando sai qualcosa che sa anche lui, o peggio che lui non sa. In entrambi i casi finisce per zittirti e dire la sua. Molto spesso è una ripetizione di quello che stavi dicendo o una considerazione che poteva tenersi per sé. Gli uomini sono meno brillanti di quanto sembrano. Sono storyteller, non narratori, e basta la minima cosa per farli sentire esperti di qualcosa. In ogni gruppo di maschi, otto su dieci si sentiranno dei geni (dopotutto gliel’ha detto anche mamma). In ogni gruppo di ragazze, otto su dieci penseranno di non essere capaci di fare qualcosa (dopotutto gliel’ha detto la società in cui vive da quando è nata).

L’uomo quando fa mansplaining (sempre, ogni secondo della sua gloriosa vita) occupa lo spazio in maniera prepotente, anche il più mingherlino. Apre le braccia, sporge il mento, alza il tono della voce. Spesso ti tocca il braccio o la spalla per sottolineare il legame – sul momento inesistente – che vorrebbe creare tra te e la sua mente brillante. Faccio un passo indietro. 

Ci sono due modi di fare mansplaining: il primo è quello manifesto, un uomo che non problematizza il suo corpo nello spazio sociale e che non fa riflessione sulla posizione di potere che ricopre. È ingranaggio e per far funzionare al meglio la macchina (e il suo ego) è pronto a calpestare gli altri, soprattutto le donne. Quindi si mette su un podio immaginario in cui guarda tutto dall’alto, spiega, direziona, ha sempre ragione. È insopportabile perché è il frutto banale del patriarcato. 

Il secondo modo invece è il peggiore perché è subdolo. Sono uomini apparentemente gentili, servili, che hanno gli strumenti per farsi le domande e se le sono fatte. Sono arrivati alla risposta sbagliata. Sono quelli che cercano di manipolarti con il sorriso, dicendo grazie dove serve, invitandovi dove devono, rimanendo sempre su una posizione vaga, vacua, opaca. Sono quelli che ti scrivono: “Wow sono stupito dal bel lavoro che hai fatto. Perché non inserisci anche x e y? Poi cambierei titolo e me lo riconsegni tra un paio d’ore, che dici? Ti mando un bacio”. Mi mandi un bacio? Giovanni io qui ho bisogno di un modello di lavoro in cui io non faccio le cose per te (e per la tua idea), ma riesco a sviluppare in santa pace la mia, senza doverti convincere ogni due secondi che sono in grado di fare quello che so fare. 

Ho quindi adottato una tecnica: cerco, per quanto possibile, di aprire comunicazione di lavoro solo con le donne. Un separatismo necessario. Certo, non è detto che vada d’accordo con tutte, non è detto che non ci sia la possibilità di un modello patriarcale perpetrato anche dalle donne. Posso dire che la maggior parte delle volte il problema è l’opposto: c’è una coltre di diffusa insicurezza e di impegno spasmodico nel lavoro. Tutte le donne che conosco lavorano più del dovuto, lavorano meglio e si ritrovano spesso in stanze minuscole in cui uomini meno preparati di loro fanno battute brillanti e presentano libri al posto loro perché sono meno eloquenti. Credo che sia una questione di spazi, di come i corpi occupano i metri quadri delle aule, della modulazione della voce. L’inizio di Lettera a una professoressa scritta dai ragazzi di Barbiana dice: “Del resto la timidezza ha accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strisciavo alle pareti per non esser visto. Sul principio pensavo che fosse una malattia mia o al massimo della mia famiglia. La mamma è di quelle che si intimidiscono davanti a un modulo di telegramma. Il babbo osserva e ascolta, ma non parla. Più tardi ho creduto che la timidezza fosse il male dei montanari. I contadini del piano mi parevano sicuri di sé. Gli operai poi non se ne parla. Ora ho visto che gli operai lasciano ai figli di papà tutti i posti di responsabilità nei partiti e tutti i seggi in parlamento. Dunque son come noi. E la timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non glielo so spiegare io che ci son dentro. Forse non è né viltà né eroismo. È solo mancanza di prepotenza”. 

Delle volte penso sia questo che divide gli uomini dalle donne, una fondamentale mancanza di prepotenza. Un sentimento che andrebbe estirpato dal linguaggio, dallo spazio attraversato, dalle relazioni sociali e famigliari. Decostruire il podio immaginario che la società ha costruito (e si è costruito) per gli uomini e immaginare un ponte, una strada, un fiume, qualcosa che unisce e non mi fa sentire di lunedì mattina scocciata e sconsolata perché l’ennesimo uomo mi sta spiegando, ad alta voce, con la gambe divaricate e un piglio paternale come si fa qualcosa che non solo so fare, ma che è già pronta.