In un museo ci sono trentasei stanze. In ogni stanza ci sono sei alla quarta quadri. Quanti quadri ci sono in tutto nel museo?
Se penso che, attualmente, nelle scuole di ogni ordine e grado assegnano ogni tot pagine di libro il cosiddetto “compito di realtà” mi chiedo a quale museo stia pensando l’autrice di questo esercizio. Ma soprattutto, considerata la vastità di problemi da poter formulare per avere come risultato milleduecentonovantasei elementi per ogni spazio – che nel caso sopracitato ammontano a quarantaseimilaseicentocinquantasei in tutto – dai granelli di sabbia o sassolini in una spiaggia, ai ceci nei sacchi di un coltivatore, alle cellule che formano un tot di palmo della mano… mi chiedo perché la fantasia, malata, le abbia suggerito “quadri in stanze”.
La matematica è una bellissima disciplina: il suo linguaggio è preciso, ti accompagna passo per passo, è una lingua che non mente mai, al punto da rivelarti che la noncuranza di chi ne compila i testi è in realtà sintomo che questi non hanno la minima idea del mondo in cui abitano.È accertato, infatti, che musei della portata del Louvre non arrivino a raggiungere, in esposizione, i settemilacinquecento dipinti. Questo vuol dire che, per arrivare alla cifra totale indicata dal problema, dovrebbero esistere almeno sei virgola due Louvre che coprano la carenza di spazi espositivi e, inoltre, che le trentasei sale dovrebbero avere le dimensioni di una portaerei per ospitare più di milleduecento quadri ognuna.
E già qui, il mal di testa…
Il mio rapporto con la matematica, in realtà, è sempre stato pacifico: adoravo la precisione del calcolo, la soddisfazione di veder corrispondere alla cifra ottenuta quella indicata a destra dell’esercizio e il brivido di dover correggere i calcoli sbagliati, accorgendomi dell’errore. È un porto sicuro, dove tutto è esattamente come deve essere, solo monotona ripetizione di regole sempre più complesse, un gradino dopo l’altro.
Eppure, se nella vita mi avessero proposto di risolvere un problema del genere, avrei storto il naso. Perché così come la matematica è precisa nel calcolo, dovrebbe esserlo anche nelle ipotesi; tuttavia, non lo è – e questa è la sua forza – e lo scopri quando sei ancora troppo piccolo e ti piace sentire che un numero diviso zero fa “indeterminato” e vorresti scoprire che numero è, ma nessuno lo sa e quindi rimani con il primo di una serie di quesiti senza risposta e ci pensi e ci ripensi e ogni volta che ti viene in mente un numero e fai la riprova, ovvero il risultato moltiplicato per il divisore, il risultato non è il dividendo, ma sempre zero e non ci puoi credere a questo enorme mistero della vita.
Ma l’indeterminatezza della divisione per zero non è niente a confronto delle trentasei sale di museo che contengono ognuna sei alla quarta quadri. Non avrei mai pensato di trovare problemi da risolvere con le proprietà delle potenze (giuro di non averne mai avuti in consegna per compito a casa o per verifica), ma poi… a che serve? Posso capire l’incognita, il piano cartesiano, le proprietà delle quattro operazioni, ma i problemi con le potenze che mi chiedono di risolvere una situazione reale secondo numeri assurdi, perché? Non conosco nessuno che si metterebbe a pensare: oggi devo proprio comprare due alla terza mele per la torta di compleanno, a cui dovrò aggiungere il triplo della radice quadrata di duecentocinquantasei grammi di farina e quella cubica di un litro di latte, in più lo zucchero… millecinquecento milligrammi. Quante calorie accumulerò se ogni cento grammi di torta cotta se ne acquisiscono cinquantasette e la torta dovrebbe pesare x = zero virgola cinque alla terza decagrammi? Mi è già passata la fame e avrò regalato alla mia amica che soffre di colesterolo alto almeno un giorno in più da vivere.
La matematica richiede, anche, immaginazione ed è utile per portare su un piano di realtà, attraverso il calcolo applicato alla geometria, entità impercettibili: ma perché devo immaginarmi una stanza di più di mille quadri come pretesto per esercitarmi con numeri enormi? O che una persona possa percepire la totalità di biglietti acquistati per un concerto con due alla quarta? Lo capite che con questo scontro tra astrazione e realtà allontanate la gente dalla matematica?
Kant sosteneva che quando la ragione e l’immaginazione si incontrano ne scaturisce il sentimento del sublime che non può essere contenuto in nessuna forma sensibile, ma riguarda solo le idee della ragione che, per l’appunto, non possono essere spiegate – per quanto uno ci provi – attraverso il riferimento a un dato di realtà. Non è un caso che una delle due ramificazioni che il filosofo fa di questo concetto è proprio il “sublime matematico”: quando parliamo di una cosa come assolutamente grande, ovvero come sublime, vuol dire che non vogliamo che per quella cosa venga cercata un’unità di misura al di fuori di essa – nel mondo sensibile. Sostenere che in una stanza sono collocati milleduecentonovantasei quadri equivale a proporre al mio cervello una «aspirazione a progredire all’infinito» su un dato che in natura e al di fuori dell’idea di questo numero non posso riportare perché non so davvero quanti sono milleduecentonovantasei quadri, motivo per cui la mia ragione, su cui si fondano le premesse della matematica, vacilla: non può immaginarsi qualcosa di tanto grande in modo esatto, per cui scaturisce il sublime e non è davvero matematica, ma filosofia.
Tuttavia, se io mi trovassi ad immaginare – in un altro contesto, totalmente a caso, senza l’ingiunzione di un problema di matematica – che in una stanza possano esserci più di mille quadri, la cosa cambia: non c’è calcolo, c’è solo la mia capacità di figurarmi una stanza con un grandissimo numero di quadri e decidere che sono proprio milleduecentonovantasei. E se posso immaginarlo, posso rendermene conto attraverso la ragione. Tutto torna alla sua giusta misura.
Ecco, così mi piace di più. Ma quel problema fa comunque schifo, ed è inutile.
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