Da quando Daniele Tinti e Stefano Rapone hanno inventato la rubrica “cacare in discoteca”, è desiderio di molti essere ospite a Tintoria al solo scopo di raccontare la propria storia imbarazzante legata alle feci. Io, piuttosto, avrei bisogno di una seduta dalla psicologa per elaborare il disagio legato alle file per il bagno. Sono una persona impaziente, ma ancora di più mi angoscia che qualcuno sia fuori dalla porta ad aspettare che io esca. Se mentre sono in un bagno pubblico sento bussare mi agito, sudo, divento paranoica, inizio a fare tutte le rituali operazioni igieniche molto velocemente, cercando di ridurre al minimo il tempo necessario a uscire dal bagno.  

La mia storia peggiore legata ai bagni pubblici è ambientata all’Angelo Mai, un circolo ARCI di Roma dove ho mal pensato di fumare un po’ di erba per poi essere presa da un fortissimo bisogno di andare di corpo misto a un attacco d’ansia. Fumare in luoghi pubblici non mi fa sentire a mio agio, perdere il controllo del mio corpo in presenza di persone sconosciute mi genera stati d’ansia, mentre se sono sola o in compagnia esclusiva di persone amiche mi viene semplicemente sonno. 

Dopo una giornata trascorsa in giro, arrivate a sera Lucrezia mi aveva passato una canna e mi sono detta: che sarà mai? Dopo i primi tre tiri andava tutto liscio, quindi ne ho fatti altri due, letali. Il mio corpo si è indebolito tutto insieme e le tensioni nervose normalmente distribuite dalla testa ai piedi si sono concentrate tra lo sterno e il basso ventre, un dolore lancinante. Ho pensato che fosse passeggero, che non era necessario preoccuparsi, quindi ho semplicemente alienato il mio cervello dalla conversazione a cui stavo partecipando in quel momento e mi sono accovacciata sui gradini del cortile esterno del circolo. 

Il bagno era nel cortile, a pochi metri da me. Ho chiesto conferma a chi mi stava intorno che il gabinetto fosse proprio lì, in quel posto da cui proveniva la luce più forte che mi sembrava di aver mai percepito. In controluce vedevo almeno dieci sagome in attesa, presenze che escludevano dalla mia coscienza qualsiasi possibilità di mettermi in fila. Il tempo si dilatava e restringeva a piacere, finché mi sono detta “o mi alzo o me la faccio addosso”. 

Sudavo freddo, barcollavo, ho attraversato almeno un paio di fasi di panico. Mentre ero chiusa dentro sentivo presenze sempre più ingombranti all’esterno. Dopo il primo “occupato!”, urlato sicuramente con tono più forte del necessario, immaginavo decine e decine di persone impazienti che schernivano la mia lentezza e che da un momento all’altro avrebbero potuto prendere a pugni la porta del cesso di servizio. Fuori c’erano soltanto un paio di ragazzi, sono uscita senza guardarli in faccia. 

Vabbè, tutto liscio penserete e invece no, col cazzo, perché gli attacchi di panico non si sono fermati e si sono trasformati in un bisogno atroce di vomitare, misto a colpi di sonno. Mi sono addormentata di fronte a Giulia Caminito, mentre lei dal palco dentro al circolo leggeva un racconto di non ricordo quale autrice siriana (credo fosse siriana, non so, dormivo). Al mio risveglio di nuovo vomito, di nuovo trattenuto in gola. Quella sera avrei dormito a casa di estranei e il pensiero che avrei potuto in qualche modo sporcare il loro letto non faceva che aumentare la mia ansia. Sfuggivo costantemente alla presenza delle mie amiche per non farmi notare, avrei potuto di nuovo andare in bagno ma il solo pensiero di affrontare nuovamente una fila, per di più con la certezza che chi era dopo di me mi avrebbe sentita vomitare, mi devastava. Lucrezia mi ha trovata mentre mi aggiravo per i banchetti dell’evento, mi ha presa sottobraccio e mi ha chiesto: “Andiamo a casa, ti va?”. 

“Sì, faccio un ultimo giro, dammi un attimo”. 

Non avevo scelta, dovevo necessariamente vomitare per riprendermi ma non sapevo dove né come. Ogni angolo di quello spazio nemmeno così piccolo mi sembrava sovraffollato, ogni paio d’occhi puntava me che probabilmente ero bianca cadaverica e di sicuro molto spaventata. Il bagno era sempre lì, ma non volevo neanche immaginare le persone in attesa. 

Esco dal circolo di corsa, punto il parchetto lì di fronte. Una pioggia torrenziale e improvvisa mi colpisce, inizio a correre nel cuore del parco di cui non percepivo le dimensioni ma mi sembrava una foresta. Non so quanto tempo è passato, credo pochissimo, ma mi sono ripresa completamente e senza neanche il bisogno di vomitare. 

Come se nulla fosse torno indietro, intercetto Lucrezia che mi vede fradicia. 

“Che hai combinato?”

“Nulla, ero fuori dalla porta ad aspettarti, perché non mi hai raggiunta?”.

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