Se è vero che la storia si ripete due volte, i Maneskin sono, o forse per fortuna sono stati, la farsa del rock. Sopportabili soltanto nel breve periodo che è trascorso dalla vittoria di X Factor alla fama mondiale, tra le tante colpe hanno quella di aver resuscitato un’estetica e un modo di stare al mondo che sembravano finalmente scomparsi. Non sono lontani i tempi in cui “sono una rock star” poteva cantarlo con la giusta dose di ironia soltanto un trap boy che si guarda bene dal prendere in mano una chitarra: ora rivivono i fantasmi degli egomani con le magliette attillate, i capezzoli in vista, i movimenti sinuosi e l’aria da dannato.
La rockstar non è soltanto una figura musicale, è purtroppo uno stile di vita e scolora su tutta una serie di estetiche satellite. La ska, il post punk, l’hardcore, persino il prog rifioriscono e inquinano le orecchie di chi gira per le piazze durante le feste comandate o nei localini con poco budget. Le chitarre elettriche se l’erano prese i fascisti, perché non gliele abbiamo lasciate e non ci siamo tenute piuttosto le politiche sociali?
L’altro giorno mi è capitato di vedere 1971: l’anno in cui la musica ha cambiato tutto, la serie-documentario di Asif Kapadia, James Rogan e Danielle Peck, disponibile su Apple TV, che ricostruisce la storia della musica tra la fine degli anni Sessanta e il ’71 negli USA e in Inghilterra attraverso l’uso esclusivo di immagini, video e interviste d’archivio. La serie è fatta molto bene, con un intreccio sapiente tra fatti artistici e sociali, storia della musica e storia dell’Occidente. Mentre guardavo quelle immagini riflettevo su come la musica rock del tempo nascesse spontanea e consustanziale ai fatti della Storia, mentre la rockstar di oggi sembra essere soltanto una macchietta del passato. Mentre la trap nasce dalle periferie metropolitane e i suoni elettronici manifestano la nostra progressiva fusione con le macchine, niente suona più falso del grido “rock ‘n roll will never die”.
Durante l’Eurovision del 2021 è diventato virale un video in cui sembrava che Damiano David, chinato su un tavolino, stesse pippando. Profluvi di meme e di accuse, a cui una rockstar che si rispetta avrebbe risposto offrendo cocaina ai giornalisti o almeno scrivendo un pezzo sulle proprie dipendenze. Lui invece si è affrettato a smentire, a dire di essere pulito e contro certe cose. Neanche più il coraggio di drogarsi in pubblico. Restii al cambiamento e con un’idea precisa su tutto, le star di oggi pretendono di poter cantare una versione rock di ogni pezzo e di riscrivere una versione rock di ogni filosofia, boriosi e sordi alla tortura a cui ci sottopongono. La rock star pretende inoltre di essere romantica e ogni tanto incide una ballade da condividere nelle storie taggando la persona amata. La struttura di queste storie è sempre la stessa: siamo in macchina, è tendenzialmente notte ad eccezione dei giorni festivi in cui si va in vacanza; con un piano sequenza, il cellulare inquadra prima i due passeggeri seduti davanti mentre cantano, poi zoom in sul display della radio su cui passa il titolo del pezzo, quindi zoom out; la camera inquadra la persona seduta dietro, accanto al regista – spesso la più stonata perché più vicina al microfono del telefono –, infine un banalissimo paesaggio collinare. Non si sa bene il perché, ma a queste persone viene in mente di riprendersi mentre cantano soltanto quando sono in quattro.
La rockstar di oggi urla sul palco ma non si sognerebbe mai di spaccare una chitarra; continua con gli strumming molesti a fine pezzo e con i feedback spacca orecchie, ma guai a suonare un pezzo un quarto di tono sotto. La performance deve essere impeccabile, nessuna eccezione è ammessa.
Come dicevamo, la rockstar non è soltanto una figura musicale ma un modo di stare al mondo e, soprattutto, di occupare lo spazio. Non esiste niente di più odioso di qualcuno che riesca senza paura a sedersi a gambe larghe su un autobus o nel cortile di una casa durante una festa, di chi sente di poter dominare una conversazione, di chi indossa gli occhiali da sole anche in penombra.
Non c’è niente, però, che inquina qualsiasi discorso come la parola “punk”. Ormai tutto è punk: qualsiasi forma vera o presunta di trasgressione è punk, le riviste sono punk, le estetiche sono punk, i sindaci che non obbediscono al governo sono punk, Amadeus è punk, Rosario Fiorello è punk, le feste, le droghe, gli outfit, i paesini, i locali, i salottini dei fuorisede, le macchine da rottamare, l’intolleranza al lattosio, il sette e trenta, persino le mamme con i bambini al parco rischiano di diventare punk. Occhio a postare un video di vostra nonna che fa la pasta in casa: potrebbe in breve tempo diventare punk. Quand’è che disobbediamo davvero?
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