“Se hai mai pensato di parlare con uno psicologo online questo è il posto giusto per te”.
“Ogni giorno ti sembra uguale all’altro? Lanciati verso la tua nuova carriera. Con i corsi online di Boolean scopri il potenziale nascosto dentro di te e diventi un professionista tech”.
“Mi sono avvicinato al corso di Wall Street English per il suo approccio immersivo e non formale. Sono riuscito ad essere assunto in una multinazionale appena pochi mesi dopo la fine del mio corso di studi magistrale”. “Mi sembra giusto, nel frattempo però ho lanciato un nuovo brand e l’ho portato da zero ad un milione. Se vuoi vedere esattamente come ho fatto, iscriviti alla masterclass The Brand’s series”.
Solitamente sono queste le formule ricorrenti dei miei annunci personalizzati su Youtube. Per una immotivata crudeltà, mentre scrivo, non ne è comparso neanche uno, quindi sono andato a memoria. Tra tutti quelli che ricordo, quelli a tema salute mentale o sulla programmazione come via di fuga dal lavoro, ma soprattutto gli onnipresenti fuffa-guru del trading online sono quelli per cui provo maggior fastidio, senza alcun dubbio.
Nel mio centro per gli annunci, Youtube mi indica i miei “brand pubblicitari recenti”: lo stesso Youtube, Nike, Disney+, Greenpeace, Pixar Animation, Vueling, Volotea, Giangiacomo Feltrinelli, Amazon, Forbidden Planet, ecc. Di alcuni riesco subito a ricordare quale pacchetto di ricerche online ha nutrito l’algoritmo che me li ha consigliati. Di altri invece non ne ho la più pallida idea. Evidentemente lo scandaglio mentalista dell’algoritmo riesce a leggere in stanze mentali che non ho mai aperto. O non lo ricordo semplicemente. È iniziata un’altra pubblicità: inserzione di mintmedia.co che mi intima “Guarda, ripeti, Guadagna”.
Parlo di Youtube perché è la piattaforma che utilizzo di più, insieme ai social, principalmente per ascoltare musica. Lo so cosa state pensando: “Ma scusa: Spotify premium?”. Non fa per me. Non per tirchieria ma perché pagare per un servizio online mi repelle. Forgiato da migliaia di file scaricati grazie ad eMule, anche lo streaming, inizialmente, non mi era congeniale, il mio abbonamento Netflix è durato un paio d’anni e in ogni caso la maggior parte dei contenuti che voglio davvero guardare sono sempre al di fuori dello streaming legale.
Recentemente ho realizzato con più convinzione che Youtube mi ha imprigionato in una sorta di limbo da cui non riesco ad uscire. Come una specie di tossico o come il tacchino di Pavlov, pur volendo sottrarmi, non appena compare la miniatura di un video che già conosco e ho guardato centinaia di volte, non posso farci nulla: clicco di nuovo. Non solo non riesco più a scoprire cose nuove, ma tutto ciò che ascolto e guardo è costantemente interrotto da tizi pelati che mi spiegano come “estrarre 4000€” e come puntare, senza complesse strategie, a produrre una rendita passiva di 1000€ a settimana. Da quando è arrivata l’ultima generazione di modelli linguistici o capaci di generare un lip sync più o meno realistico il fenomeno è decisamente peggiorato. A volte, mentre sono in doccia, a causa del rumore dell’acqua e forse anche dell’abitudine che ha assuefatto il mio orecchio, non riesco a rendermi conto che ciò che sta riproducendo il mio smartphone è in realtà una pubblicità. In più, se non si interviene direttamente, le sponsorizzate durano ormai un tempo indefinito che blocca addirittura la riproduzione automatica.
In questo momento, nell’altra scheda del mio browser, c’è un tizio in giacca rossa e camicia bianca, senza cravatta, con una faccia da schiaffi, che davanti ad un green screen su cui compare la scritta “Salto quantico”, è impegnato in un monologo dove ancora una volta i poli del discorso sono gli algoritmi e “le rendite passive”. Non ho cliccato “salta”, che ora è diventata un’icona trasparente, ed è apparso un tipo taurino, con la pelle olivastra e i capelli gellati. Sembra un militare, un poliziotto nello specifico. Ha una polo blu notte di Ralph Lauren. È la sponsorizzata di una “accademia di self publishing”. Il pessimo microfono che indossa dona una eco sacerdotale alla sua voce, come se rimbombasse in una chiesa. Parliamo di un totale di 00:03:52. Incredibile, il video in riproduzione ne dura qualche secondo meno.
Non posso non pensare a quando, da bambino, per sbaglio o curiosità, mi spingevo al di là dei confini noti dei soliti canali televisivi. Per un tempo limite rimanevo ipnotizzato dal segnale granuloso di alcuni canali regionali di televendite, principalmente di gioielli, ed ero lì a rimuginare interrogandomi sulla presenza o meno di un pubblico reale di queste emittenti: davvero c’era qualcuno che stava lì, davanti allo schermo, tutto concentrato, prima di telefonare al numero sovraimpressione per approfittare dell’offerta del secolo? Ritornando nel centro di consumo, il palinsesto pubblico e quello delle tv commerciali, la pubblicità in questo caso era un prodotto autoriale, un esercizio di stile di design comunicativo. Sfido chiunque a dire il contrario. Lo spot televisivo nella bolla del duopolio Rai-Mediaset schiudeva un momento di sospensione dallo spettacolo, uno spazio in cui si poteva tornare a respirare e a scambiarsi opinioni in attesa della ripresa del programma. Non dico che mi venisse voglia di guardare la pubblicità, ma di sicuro certi spot della Yomo, oppure gli spot blockbuster dell’Adidas, della Coca Cola e della Pepsi, appartengono di diritto al mio immaginario e io appartengo loro. Con molta sincerità devo confessare che ai primi tempi del mio utilizzo di Youtube mi sottoponevo alla visione di raccolte di pubblicità tra il 99 e il 2006, anni che ricordo con maggior dolcezza e in cui la televisione era davvero per me un portale sul mondo.
In questo senso, è inevitabile il confronto con un’epoca in cui la pubblicità, pur invasiva, possedeva una sua chiarezza formale. I confini tra contenuto e interruzione, tra spettacolo e messaggio promozionale, erano segnati, riconoscibili. Ricordo nitidamente l’ipnosi infantile di fronte ai canali regionali che trasmettevano televendite di gioielli o pentole con grafica sgranata e luci piatte: momenti marginali, certo, ma in qualche modo sinceri. C’era qualcosa di quasi liturgico in quei monologhi ripetitivi e unidirezionali, che si rivolgevano a un pubblico passivo ma reale, fatto di individui concreti – spesso anziani, spesso soli – in cerca di compagnia, di rassicurazione, forse anche solo di rumore. Quella pubblicità, per quanto goffa o persino patetica, non fingeva di essere qualcos’altro. La sua natura commerciale era esplicita, dichiarata, priva di maschere. E forse proprio per questo, col tempo, è riuscita a sedimentarsi nella memoria come qualcosa di più umano, di più sopportabile, persino di affettivo. Il passaggio a Youtube, e poi all’ecosistema sempre più pervasivo dei contenuti sponsorizzati, ha invece segnato la dissoluzione di questa distinzione: la pubblicità non è più un’interruzione, ma una forma che si mimetizza in tutto, che si ibrida con il racconto, con il tutorial, con la confessione, con l’informazione. È in questa zona d’indistinguibilità che nasce la sensazione di intrappolamento: non è solo questione di quantità, ma di forma, di estetica, di direzione dello sguardo. È anche per questo che torno ciclicamente a contenuti del passato, come quell’ospitata di Sgarbi al Maurizio Costanzo Show in cui si sofferma, in modo lucido e spiazzante, sul valore performativo delle televendite di Mike Bongiorno.
Tra i miliardi di milioni di minuti spesi su Youtube durante l’era in cui gli adv non erano onnipresenti, riesco a recuperare con nitidezza quell’intervento di Sgarbi. Un’osservazione ironica, ma in fin dei conti rivelatrice: il vero volto del presentatore si mostrava non quando annunciava i concorrenti o leggeva la scaletta, ma nel momento in cui vendeva. E lo faceva senza filtro, senza ambiguità. Paradossalmente, era quello il momento in cui emergeva una forma di autenticità. Sgarbi sostiene nel video che il vero valore artistico della conduzione televisiva dell’italo-americano si manifesta in modo più vivido durante le televendita più che nella sua conduzione del programma, sempre ingessata e a volte involontariamente sopra le righe. La dimensione dello spot nel contesto della tv analogica era paradossalmente il momento in cui il presentatore appariva nelle sue autentiche vesti, quelle del venditore.
Quello che si è compiuto, con l’innesto delle nuove tecnologie digitali nella comunicazione quotidiana, non è dunque un processo di emancipazione dell’utente o di democratizzazione della creatività. L’illusione della “creator economy”, del self-made brand, della monetizzazione dell’originalità ha funzionato per qualche tempo, ma oggi mostra il suo vero volto: una macchina di riproduzione seriale in cui ogni forma di espressione è già formattata per la vendita. L’algoritmo non promuove il nuovo, ma il noto; non alimenta la scoperta, ma consolida l’abitudine. Non ci rende esploratori, ma tossicodipendenti del contenuto. E il contenuto, per definizione, è ormai indistinguibile dalla pubblicità. Questo non vuol dire che tutto sia venduto o sponsorizzato in senso stretto, ma che ogni elemento della comunicazione visiva e audiovisiva odierna è intrinsecamente pubblicitario: serve a catturare attenzione, a convertire, a trattenere, a monetizzare. Il content creator, figura totemica del presente, non è che una riedizione aggiornata di Mike Bongiorno. Ne incarna però non tanto l’autorità mediatica o il carisma popolare, quanto il suo gesto archetipico: il vendere. Solo che, a differenza del presentatore italo-americano, che separava nettamente il tempo del gioco da quello della promozione, il creator contemporaneo vive immerso in una promiscuità assoluta. Ogni suo gesto, ogni parola, ogni sguardo alla camera è simultaneamente narrazione e call to action, confessione e pitch.
È lo spettacolo che si è definitivamente risolto nella pubblicità, o forse è la pubblicità che ha divorato lo spettacolo, appropriandosi della sua grammatica, del suo pathos, della sua estetica. La promessa della comunicazione digitale – quella di una rete distribuita, libera, creativa, non-gerarchica – si è risolta nella sua caricatura: una catena infinita di testimonial auto-impiegati, ciascuno intento a vendere se stesso come brand, come strategia, come opportunità. In questo scenario, la nostalgia per le televendite di una volta non è solo effetto del tempo che passa, ma forse l’ultimo riflesso di un’epoca in cui la menzogna era, almeno, dichiarata.
Lascia un commento