Ricordo che durante gli ultimi anni di liceo, in quell’atmosfera scolastica intorpidita e conformista che sembrava la replica in scala 1:1 della stagnazione politica nazionale, i miei riferimenti erano Il Fatto Quotidiano, Enrico Mentana, Maurizio Crozza, Luttazzi, Santoro e compagnia indignata. Lo ricordo con imbarazzo — e non il tipo di imbarazzo affettuoso da “ah, com’ero giovane”, ma quello viscerale, simile a quando trovi una tua foto con un taglio di capelli imbarazzante che ritenevi il più figo in assoluto. Quella sinistra (mediatica) lì, tutta postura e indignazione, tutta avversativa contro Berlusconi, ha finito per alimentare proprio ciò che pensava di combattere: una forma di legalitarismo spettacolare, moralista, che ha preparato il terreno per la destra securitaria.

Uno dei momenti di rottura della mia ideologia liceale fu la notizia della partecipazione di Mentana a un convegno di CasaPound. Era il 2017, vado a memoria, mi trovavo già alla fine del percorso triennale ma continuavo ogni tanto a spiluccare La7. Forte delle sue maratone e del crescente successo sui social, Mentana nel suo autoconvincimento di incarnare il laicismo illuminista e la “razionalità dialogica”, si era fatto paladino del “parlare con tutti”. In quel momento capii che se il prezzo per esprimere un’opinione è quello di dialogare con neofascisti nostalgici della Terra di Mezzo che vorrebbero restaurare l’Impero Romano cooptando e picchiando, allora Mentana non solo è disposto a pagarlo: lascia anche la mancia.

A partire da quell’episodio iniziai a percepire un pattern. I meme che circolavano su Facebook sul “cerchiobottismo” di Mentana, Crozza che con le sue imitazioni sdoganava caricature orrende come Antonio Razzi, Scanzi che sembrava un clone di sé stesso da ubriaco… Tutto segnalava un tramonto: quello dell’informazione indignata, di carta e di schermo.

Nel frattempo, il megafono della destra diventava più rumoroso, più cafone, più efficace. E si spostava sulla radio. Più precisamente: La Zanzara. Il programma di Cruciani e Parenzo è un modello perfetto di come il trash e il finto pluralismo possano assolvere a una funzione culturale reazionaria. Nella più elementare forma di intrattenimento, i due simulano un contrasto: Cruciani come voce del nichilismo anarco-liberista, Parenzo come indignato professionale, pronto a farsi tappetino in nome di Israele o della moderazione democratica. Sono un unico organismo: una bestia bicefala, una con la lingua biforcuta e l’altra con la bandiera israeliana cucita sulla camicia come una toppa dell’Esercito della Salvezza.

Parenzo, nella sua funzione accessoria, è sublime: ogni volta che Cruciani invita un no vax neonazista omofobo negazionista climatico, lui strilla “Scandalo! Questo è inaccettabile!” — ma intanto lascia che l’ospite parli per dieci minuti senza contraddittorio, mentre lui finge di cercare su Google una fonte da Haaretz. E quando lo trova, esclama: “Comunque, Israele ha il diritto di difendersi!”. Nessuno aveva nominato Israele, ma non importa.

Recentemente, ho avuto una ricaduta. Mi sono imbattuto in un video del raduno dei giovani di Forza Italia. Sul palco: Giuseppe Cruciani e Fedez, intervistati tra i mormorii carichi di entusiasmo di studenti in giacca e mocassino sudato. Fedez, nella nuova fase da investigatore dei misteri italiani, declama: “Io non sono né di destra né di sinistra. Ma quando ho cercato un dialogo con la sinistra mi hanno sempre detto di no. Invece con la destra c’è confronto, c’è apertura. Oh! Sono più tolleranti.”

Quella frase mi ha accompagnato nel sonno. Mi ha inseguito come un jingle pubblicitario tossico. E ha scatenato un sogno allucinatorio: David Parenzo e Giuseppe Cruciani a Sanremo.

Cruciani entra in smoking aperto, senza camicia (non si lava fieramente da undici anni), sorseggiando estratto di placenta di cavallo in bottiglia. Urla: “Questo è il festival della libertà! Potete dire tutto! Tranne che Israele non ha il diritto di difendersi!”. La sigla è un adattamento reggaeton dei successi di Marcella Bella, Max Pezzali e Lucio Battisti. Parenzo segue il collega, scende le famose scale indossando una kippah con le insegne di Fratelli d’Italia e il microfono ad archetto: “Cruciani, non possiamo aprire così! Ci sono limiti, ci sono regole…”.

Si parte subito con un sondaggio tra gli ascoltatori: “Preferirebbe che sua figlia si fidanzasse con il fascio-vegano ambientalista Adrian Fartade o che ricevesse una proposta di matrimonio da Cicalone durante un “video-denuncia” alla stazione Termini?”. Risposte: 78% “Cicalone”. Cruciani ride, poi urla: “Basta con questi talebani del pianeta! Io voglio mangiare una bistecca cotta sulla bocca di un panda troppo pigro per scopare!”.

Parenzo prova a intervenire: “Però ci sono delle responsabilità ambientali… comunque Israele ha il diritto di difendersi.”

Poi, parte una tavola rotonda tra Gianni Morandi, Mario Adinolfi e una drag queen ucraina armata. Tema: “Possiamo ancora dire frocio in prima serata?”. Non è ancora andata in onda l’esibizione del primo brano in gara. In studio entra, senza essere invitato, il sosia di Orban vestito da Hitler. Indistinguibile da entrambi. “Sono stato picchiato da una donna!” urla. L’applauso registrato è accompagnato da un jingle tipo: Heil but fabulous!. “Anche gli uomini vengono uccisi e non tutti gli uomini uccidono. Ma ricordiamo che Israele ha il diritto di difendersi!” ci tiene a precisare Parenzo. 

Pubblicità di McDonald con Achille Lauro, cavaliere della Repubblica, in versione Madonna dell’Atomica: capezzoli a forma di fungo nucleare, avvolto in ciò che resta della bandiera palistenese, viene lanciato sul pubblico da un cannone ad aria compressa. “Enjoy it!”. Parenzo mugugna: “Non so… forse è troppo… comunque Israele ha il diritto di difendersi.”

La prima serata sta per concludersi e ancora nessun cantante è salito sul palco. In collegamento da Mosca, Putin recita una poesia di Pasolini in dialetto friulano mentre viene interpretato da un deepfake di Favino. Cruciani starnazza: “Lo capite che l’ecologismo è il nuovo comunismo? Una dittatura verde!”. Totalmente a caso. Il pubblico è in visibilio. Una signora telefona in diretta da Varese: “Mio figlio si è fatto il pannello solare. È colpa dell’ideologia gender!”. David Parenzo appare in collegamento da un kibbutz-lounge a Doha, completamente nudo, tranne che per un cappello della CIA: “Ma vi rendete conto delle porcate che state dicendo? Che schifo.” Si commuove: “E comunque, Israele ha il diritto di difendersi.” 

Ultima scena. Al centro del palco, un manichino vestito da Elly Schlein ripete in loop: “Dobbiamo ascoltare tutte le voci. Restare uniti. Rispettare il confronto.” Cruciani fissa la camera. “Non si può più dire nulla. Solo che non si può più dire nulla.” Poi sputa nella bocca del pubblico. Non ha cantato nessuno ma è stato un successone.

Al mio risveglio ho capito che Cruciani non è pericoloso perché normalizza il fascismo. È peggio: lo svuota. Lo trasforma in possibilità mediatica. In pretesto per una telefonata in diretta. È il burattinaio di un teatro in cui nessuno crede davvero a nulla, e proprio per questo tutto passa, tutto si dice, tutto si perdona. Ha capito una cosa sola, e gli basta: che la performance dell’irresponsabilità ha vinto. Che la tragedia, oggi, è fuori moda.

Ma il problema non è lui. Il problema è che per rispondergli si è scelto di non essere pericolosi. Di sembrare educati. Consapevoli. Puliti. Io non ce la faccio più a sopportare questa sinistra che annuisce con garbo, che corregge le parole, che si discolpa, che cerca di sembrare affidabile. Non ho niente da salvare in quella sinistra.

Io non voglio fare pace. Non voglio sembrare migliore. Non voglio essere compresa. Voglio risvegliare qualcosa che dorme sotto la pelle di tutto, e che quando si sveglia non chiede permesso. Io non voglio dire “non è vero” quando mi accusano di voler distruggere la famiglia. È vero. La voglio distruggere. Voglio far saltare la nozione di proprietà affettiva, di riproduzione sociale, di gerarchia d’amore. Voglio che ogni struttura che ci dice come si deve vivere — crolli.

E quando dicono “vuoi imporre l’ideologia gender”, la mia risposta non è un argomento. È un sorriso. Sì. Io voglio che niente nei corpi sia dato per scontato. Voglio che ogni figlio cresca con il sospetto che tutto ciò che ha ereditato è un trucco.

Non ho nessuna voglia di costruire un’alternativa educata al populismo. Non voglio un programma. Non voglio un posizionamento. Voglio che qualcuno abbia paura di quello che succede quando smettiamo di credere alla realtà come ci è stata insegnata. Non mi interessa il dibattito. Voglio che il dibattito si spacchi in due e ne esca fumo. 

E se esiste ancora un senso nella parola “sinistra”, allora dovrebbe essere questo: non una direzione politica, ma una frattura ontologica. Non un partito, ma un tradimento. Una corrente che scava sotto i piedi, che non cerca discepoli ma altri che stanno già crollando.