Chiariamoci: questo non è un pezzo di chiusura della nostra rubrica di redazione, anche se vorrei che lo fosse. Durante la nostra ultima riunione sono stata perentoria: o me o gli “Stanca di”. Ha vinto la rubrica e per pavidità sono anche rimasta in redazione, perdendo il diritto di parola in assemblea fino a maggio, quando per punizione dovrò partecipare come visitatrice, ovviamente e profumatamente pagante, a ogni giornata del Salone del Libro di Torino. 

Non sono contro la rubrica in sé, l’idea mi piace ed è l’unico contenuto che i nostri follower leggono regolarmente. Ora, al di là della noia mortale che mi provoca cercare immagini per questa rubrica (per protesta stavolta vi beccate due cagnolini sorridenti), il problema è piuttosto un altro: devo ammettere di essere terrorizzata dal trasformare una cosa finora pure niente male in una specie di rubrichetta alla Michele Serra o alla Massimo Gramellini o alla Feltri figlio, che certe volte non riesco a distinguere dal padre. Ho paura di cosa possa diventare la redazione: che un giorno Franco scriva un pezzo sul sorriso gentile di una vecchietta per strada, che Fabio si metta a lodare un imprenditore coraggioso, che Vittoria riesca finalmente a scrivere una prosopopea sul suo cavallo. 

Di per sé la cosa non sarebbe neanche così grave, ma si sa che il passo successivo è organizzare una pantomima pro Europa in un’affollata piazza romana, dove una serie di intellettuali prima vagamente credibili lodano il canone occidentale, le democrazie greche, i morti e le invasioni che da noi non ci stanno e dalle altre parti invece sì. Ve lo immaginate Giovanni Padua scrivere una tetralogia sulla dinastia Sung e poi svelarsi vittima del fascino mordace di Xi Jinping?

Vi racconto questa: la settimana scorsa Silvia mi ha confessato di aver canticchiato più volte Sogna ragazzo, sogna di Roberto Vecchioni sotto la doccia, dopo che l’Alberto Manzi del Secolo Ventunesimo aveva fatto quel duetto imbarazzante con Alpha a Sanremo. Capite che intendo? Quanto spazio c’è tra affermazioni del genere e un bel pezzo sui valori della comunità europea spiattellati in uno “Stanca del nazionalismo”? Ha fatto bene Maria Giardina ad andarsene in Inghilterra prima che le cose degenerino e lei si debba giustificare per aver collaborato con noi tra quarant’anni, in una di quelle interviste che ripercorrono la vita dei Grandi Maestri. Lo farei anche io ma non mi hanno presa al dottorato. 

È che sono stanca dell’arguzia a tutti i costi, delle frasi a effetto, di dovermi impegnare a piacere a voi, che ci leggete senza neanche cacciare una lira. Forse sono proprio stanca di scrivere. Non venite a farmi i pipponi sul valore intrinseco della letteratura, non mi dite che non scrivete per compiacere il gusto della vostra lettrice ideale, non fingete di non esultare quando buttate giù una frase che sperate venga ricondivisa nelle storie di chi vi segue. E voi, lettori senza neanche la pretesa di inviarci due paroline per cortese pubblicazione, per favore scriveteci almeno una lettera aperta e firmata in calce da una cinquantina di persone – numero ampiamente sufficiente per farci supporre di essere una rivista credibile – per chiederci, insomma, di farla finita. 

Questa rubrica è nata per buttare giù riflessioni più o meno serie allungando e deformando la forma-post – finalmente una dichiarazione di poetica, penserete voi – ma la realtà mi sembra impossibile da padroneggiare, non riesco a dare senso al mondo con la scrittura. L’ennesima guerra mondiale è iniziata con il favore di pochissime persone e gli intellettuali non sanno reagire. Molti non hanno la forza o la visibilità sufficiente per incidere, chi ce l’ha inneggia al conflitto. Se penso che Michele Serra è approdato a quel palco partendo da quell’obbrobrio che sono le Amache prego le mie compagne di redazione di fermarsi qui, al più presto, prima che la Repubblica ci noti. 

Dobbiamo metterci a scrivere pezzi collettivi, forse. Abbandonare ogni ego, ogni forma di autorialità e diventare una voce collettiva. Non eviteremo la guerra, non salveremo nessuno, la bellezza non serve a un cazzo; probabilmente bisognerà proseguire la lotta partigiana a tempo debito. Nel frattempo, però, è necessario usare i nostri spazi di parola per quanto possibile. Non sono Edoardo Prati, non sono così ridicola da predicare il valore della letteratura foriera di grandi messaggi civili o sociali. Mi spaventa, però, che lo spazio della parola non serva più a niente.

Il mercato e la necessità di accumulare capitale sociale ci impongono l’autocelebrazione e non biasimo nessuno che decida di non morire di fame volendo fare questo mestiere, non sono io la persona giusta per farvi la morale. Però ci dobbiamo riconoscere come classe, sennò siamo fottute. Tocca parlare dei festival working class, dello sciopero delle lavoratrici Feltrinelli, di che senso vogliamo dare alla cultura per evitare che continui a essere una sporca celebrazione di miti inesistenti smerciati a bella posta per inneggiare al riarmo. Non mettere la nostra firma in questi pezzi in parte serve a questo: a dire che Stanca è un’entità unica, collettiva e femminile, oltre che un insieme di persone. 

Forse di Stanca di ne scriverò ancora; se divento Gramellini, per favore, sparatemi.