Il 30 luglio ho fatto le valigie, sono salita sul Flixbus più economico e mi sono fatta 600 chilometri per tornare a casa. Ogni volta che faccio le valigie per l’estate, il 30 luglio o giù di lì, mi si ficca uno spillo alla bocca dello stomaco per un secondo. Il dolore, prima fortissimo, si annacqua e scolora nell’ansia.
Ognuno in questa società per combattere l’ansia ha i rimedi suoi, io faccio così: subito dopo aver tirato giù dall’armadio la valigia grande, quella nera di plastica rigida per l’estate, mi accendo una sigaretta, mi siedo sul letto con la schiena incurvata e fumo. Mentre fumo fisso il vuoto. Se ho il posacenere a portata di mano bene, se l’ho lasciato da qualche parte bestemmio – me ne accorgo sempre dopo aver acceso la sigaretta. In genere, dopo un paio di tiri – è appena passato il dolore e ho cominciato a sguazzare nell’ansia – prendo il telefono e metto una canzone a caso. Mi riprometto di ascoltarla con attenzione, di concentrarmi sulle parole e sull’armonia, ma quasi sempre mi distraggo e mi accorgo di essermi distratta soltanto quando la canzone è finita. Se ho davvero voglia di ascoltarla la rimetto da capo – la seconda volta riesco sempre a prestare attenzione – altrimenti skippo. Subito dopo la sigaretta mi gira la testa, quindi mi sdraio, mi butto proprio all’indietro, e aspetto un tempo lunghissimo che passi questo giramento. A quel punto fisso la valigia aperta, mi alzo e esco dalla stanza. Soltanto dopo qualche ora comincio a mettere dentro i vestiti.
Lo straniamento del tornare nella propria città, molto spesso nel proprio paese, quasi sempre al sud ma a volte anche nelle province del nord, aumenta con il passare degli anni da fuorisede. È uno gnommero indefinibile di preoccupazioni. Nella mia testa, la mia città di provincia resta immobile, si congela mentre io sono via, e con lei le persone, le amicizie, le relazioni, persino le liti nella mia testa non si sanano mai, finché non torno. So anche che non è così, ovviamente, e non sopporto l’idea di confrontarmi con la realtà.
Appena tornata ho dei riti: la prima mattina dell’estate esco di casa presto e percorro a piedi la strada che da casa mia porta alla villa comunale. È un bel percorso perché devo svoltare una volta sola, a sinistra, poi vado sempre dritta e attraverso tutto il centro del paesotto, o cittadina, in base a come volete definire l’agglomerato di palazzoni anni Sessanta-Settanta dove abito, la periferia sgangherata, troppo piccola per essere davvero periferia, costruita attorno a un centro storico triste e dimesso, dove le persone camminano e dicono sempre: “Se valorizzassimo un po’ la nostra città, sai quanti turisti!”.
Faccio questo percorso per sondare il terreno: quali negozi hanno chiuso (ogni anno qualcuno), se ne hanno aperti di nuovi, se ci sono cantieri, se una piazza ha cambiato forma, se Pinuccia, la vecchietta del quartiere che è vecchia decrepita da quando sono nata, resiste ed è ancora viva o è morta (resiste), se ci sono ancora l’insegna del bar che ha chiuso 5 anni fa e di quello che ha chiuso 7 anni fa (ci sono ancora, in uno ci sono anche le bottiglie di birra aperte e mezze piene sul bancone), quali persone mezze estranee dovrò fermarmi a salutare con imbarazzo, facendo domande a caso sulla loro vita.
Quando una fuorisede torna a casa spera che la città la stia aspettando. Lasciamo perdere amici e parenti, è proprio con la città che la fuorisede si confronta: ci si chiede se quello è ancora il proprio posto, se le strade sono sempre le stesse sotto ai piedi, se la gente si riunisce ancora negli stessi posti. Io vengo da una città che sta crollando, dove un sacco di acqua si disperde dalle tubature, le case sono abusive e il terreno è in costante smottamento. Torno e vorrei metterci una pezza, ma non ho le forze. Passo il tempo a compatire chi è rimasto, poi mi rendo conto che vorrei essere rimasta pure io.
Ogni tanto immagino la distruzione totale. Che quel fianco di collina che sta lentamente cadendo si decida a crollare giù una volta per tutte, a portarsi dietro il ponte, i palazzi abusivi e le macchine degli stronzi che ci hanno costruito. Lì in mezzo c’è anche casa mia: immagino che tutta la mia famiglia riunita a pranzo la domenica sia colpita da questa tragedia enorme, una strage che va in televisione, e immagino anche di essere l’unica sopravvissuta perché ero fuori. Invece rimane tutto mezzo fermo e mezzo in movimento, la collina non crolla ma le case le hanno evacuate, le crepe ci stanno, si ingrandiscono ma i palazzi stanno in piedi. Pure le persone cambiano, qualcuno muore, qualcuno fa pace, e io non ci sto.
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