vivere in una società

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Negli ultimi quattro anni mi ha affaticato e appesantito osservare il manifestarsi delle discrepanze, delle contraddizioni e delle storture che caratterizzano l’abitare una struttura democratica di stampo Occidentale. Questo perché è stato facile per me confrontare la realtà con la descrizione idealizzata di quello che dovrebbe essere. Viviamo in una società nella quale ci siamo stancati di vivere. 

Le battute finali di quella narrazione che ci ha a lungo posizionato dalla parte dei giusti ci introducono a un nuovo capitolo nel quale il voice over si azzittisce e, guardandosi intorno, nel silenzio, sembra veramente difficile immaginare di poter mantenere il ruolo dei buoni nella storia che si disvelerà e che ci racconteremo in futuro. E cosa dovremmo fare ora?

Spesso mi colpevolizzo del fatto che, in un passato non sospetto, celebrare la democrazia fosse per me più un posizionamento virtuoso che una faticosa e necessaria pratica. Facilmente proietto questa colpa su tutto quello che mi ha circondato: sulla scuola e sulla maestra di matematica che il 27 gennaio sceglieva un film che non ci traumatizzasse troppo; sui collettivi e su quei ragazzi che – come me – credevano che i valori democratici si potessero conservare e preservare efficacemente parlandone dopo scuola, in qualche sede accroccata, senza affaticarsi, facendo della democrazia una passione. Si può evitare di denaturalizzare il dibattito politico quando lo si priva dell’urgenza e del contesto? 

Quotidianamente, mi fingo vigile di fronte alle questioni che finiscono in trend sulla base di algoritmi incoscienti che non ci vogliono bene: il corso per bimbi transgender, un gruppo di fasci con i bastoni, quanto fai schifo se compri la nutella vegana. Le giornate sono scandite, come prima con il telegiornale, con i momenti nei quali intercetto nel feed elementi aggiuntivi della lore più gettonata. Ma a cosa mi serve tutto questo?

La disillusione nei confronti del mondo che mi circonda e nella sua propensione al miglioramento si materializza assumendo di fronte a me le sembianze scimmiesche di Harambe. Gentilmente mi invita, con la sua espressione accogliente, ad accomodarmi di fianco a lui su un ramo di Baobab. Insieme ci prepariamo allo spettacolo, la fine dell’Occidente verrà proiettata dopo la visione di un tramonto su un orizzonte africano, in sottofondo il tema della 20th Century Fox eseguito con un flauto stonato. 

Cosa rimane della retorica dei bravi vincitori mentre le fondamenta della democrazia bruciano attizzate dalle carcasse dei vinti? Qual è il canale funzionale dove tutta questa rabbia possa tradursi in pratiche? Dove sono i compagni se a ogni refresh sembrano diventati nemici? Se seguire religiosamente la propria morale prevale sul capirsi e fidarsi? Se esistiamo in uno stato d’attesa che ci separa dalla cancellazione?

Harambe mi sfiora le occhiaie con le dita, mi guarda fissa negli occhi e mi sussurra: se sei stanca puoi sempre pensare che tutto sia finto. Quello che mi circonda s’incrina in un glitch fluorescente, in lontananza si ode acuta una risata che a tratti sembra un grido, sono sul layer dal quale, se mi sporgo e guardo, la vedo: è la società e io non ci vivo.