voler essere pagata

voler essere pagata
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Scegli un lavoro che ami e non dovrai lavorare nemmeno un giorno della tua vita” diceva, scriveva, cantava o borbottava Confucio forse in preda a un delirium tremens da qualche parte in Oriente mezzo millennio prima della nascita di Gesù Cristo. Nonostante i tempi siano notevolmente cambiati, nel mondo dalle infinite possibilità che abitiamo oggi si lega ancora in maniera imprescindibile la questione della fatica a quella del lavoro, quella della posizione sociale a quella della carriera e, di conseguenza, quella del riconoscimento del proprio percorso individuale alla cifra raggiunta dal compenso.

Che siate millennials, della gen z o di quella x, probabilmente come me siete cresciuti con l’angosciante sensazione che rincorrere i propri sogni non fosse soltanto una prospettiva auspicabile, ma anche un dovere morale da rispettare nei confronti di voi stessi, per non tradire la promessa fiabesca di un futuro felice. Non solo: l’impegno investito nel lavoro doveva essere premiato e infine riconosciuto dall’esterno. Se il lavoro nobilità l’uomo e la passione può essere capitalizzata, la paga diventa il certificato che quantifica il valore del proprio percorso individuale nella società.

Questa prospettiva spesso non tiene conto delle disuguaglianze sociali – che rappresentano un ostacolo reale all’aspirazione di trasformare i propri interessi in un mestiere e  finisce per fare anche un mischione terribilmente problematico di quali debbano o meno essere i valori da rincorrere nella propria vita, tra i quali spesso è difficile districarsi abilmente. 

Il compromesso implicito del contratto sociale è quello di trasformare in capitale ogni ambito della nostra vita, quindi le scelte che compiamo non sono più tanto legate a quello che vogliamo fare ma a cosa riusciamo a fare per rimanere in gioco. Non ci troviamo di fronte a un bivio – il tuo lavoro è anche la tua passione, il tuo lavoro ti lascia tempo e soldi per coltivare le tue passioni – né al palmo aperto di Morfeo di Matrix sul quale poggiano le due pillole: rendersi o meno conto che stai vendendo a ribasso il frutto della tua passione. 

Se i tuoi interessi coincidono con cose che richiedono tempo e fatica e il lavoro non è sufficientemente retribuito, non rinunciare a coltivarli diventa una specie di martirio che genera diversi tipi di stanchezza.   

La prima è quella fisiologica che naturalmente si prova a lavoro compiuto. Un’altra deriva dalla sensazione avvilente che se quello che si è fatto non fosse un lavoro, non sarebbe sostenibile se non attraverso il sacrificio totale del tempo libero – o il reinvestimento del capitale. Ancora, una scarsa o nulla retribuzione da vita alla sensazione frustrante che il valore del proprio impegno non sia stato riconosciuto – che confonde l’idea di paga utile al sostentamento con quella di premio e gratificazione. 

Quando si mischiano le cose che ci piace fare con quelle che è necessario fare, diventa fondamentale allenarsi all’introspezione, accettando non per forza di buon grado che nessuno si renderà disponibile a pagare il tuo terapista. Non tutti sono bravi a fare i manager di se stessi  e del proprio tempo. Alcuni, come me, avranno sempre un rapporto conflittuale con il compromesso implicito del capitalismo, che in quest’ottica performativa – quasi eroica – ci conduce inevitabilmente a rivendere questa faticosa e impegnativa forma di piacere, deformandola ai fini della sopravvivenza all’interno del contratto sociale. I soldi mi servono, non li voglio.

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