Esattamente tre mesi dopo la chiusura del Festival di Sanremo del 1958, che aveva visto Domenico Modugno trionfare con “Nel blu dipinto di blu”, stracciando nella competizione giganti del calibro di Nilla Pizzi, Johnny Dorelli e Claudio Villa, a Torino è l’inizio di un fine settimana di fuoco. È previsto per quel giovedì, primo maggio, un nutrito corteo della CGIL e per il sabato seguente un comizio del Psi in Piazza San Carlo la cui chiusura è stata affidata a Sandro Pertini. Durante quella manifestazione accadde qualcosa di insolito, destinato a cambiare per sempre la storia della canzone italiana.

All’improvviso una semplice melodia, quasi una filastrocca, si fa largo tra la folla. A diffonderla sono degli altoparlanti montati su un furgoncino. La canzone in questione si intitola “Dove vola l’avvoltoio”, è un inno antimilitarista e pacifista. A comporlo è Sergio Liberovici e a scriverne il testo Italo Calvino. Quel giovedì primo maggio 1958 segna la nascita della canzone d’autore impegnata in Italia. 

Se il nome di Italo Calvino non necessita di presentazioni, forse quello di Liberovici ha bisogno di qualche approfondimento. Torinese, classe 1930, prese parte a soli 14 anni alla lotta partigiana durante il secondo conflitto mondiale. Dopo la guerra iniziò gli studi di armonia e pianoforte arrivando a collaborare già una prima volta con Calvino, che scrisse per lui un libretto per un atto unico intitolato “La Panchina”, basato su un episodio raccontato in “Marcovaldo”. Approda infine, grazie al musicologo Massimo Mila, alla sezione di critica musicale dell’Unità. Qui farà conoscenza con un altro importante personaggio: Michele Luciano Straniero. Tra i due nacque una forte amicizia e insieme fondarono il gruppo che prese il nome di “Cantacronache”. 

Ma torniamo a quel fatidico primo maggio 1958. L’obiettivo dell’iniziativa di piazza era quello, tra gli altri, di coinvolgere un pubblico che venisse a vedere il concerto del collettivo previsto per il sabato seguente presso l’Unione Culturale di Palazzo Carignano. Si legge nella Gazzetta del Popolo datata 12 Settembre 1958 “Nonostante la presenza sempre così dolce e a un tempo severa di Franco Antonicelli, nonostante la comparizione della pur bella Elsa De Giorgi, inguainata in un telo di lino rosa ed ombreggiata da un ampio cappello di paglia di Firenze, nonostante che ad avviare la claque stessero pronti in piedi, al fondo della sala, Giulio Einaudi stesso con tutta la sua corte, nonostante la testimonianza portata da elementi accreditatissimi della cultura italiana (Franco Fortini era arrivato in aereo appositamente dalla Sicilia), nonostante il consenso delle consorti di alcuni dirigenti della Rai-tv, sempre attirate, forse per amor del contrario, a incoraggiare ciò che può apparire anticonformista e antiprogrammatico, nelle sale dell’Unione culturale, nel non troppo lontano pomeriggio del 3 maggio dell’anno corrente, si avvertiva appunto un piglio dilettantistico e avanguardistico che stonava”. 

L’evento fu un successo. 

Intitolato 13 canzoni 13 viene così accolto sulle pagine della Stampa: “L’anti-festival delle canzoni di Sanremo. In una stipatissima sala di palazzo Carignano – «Basta con la villanella bruna e i baci tenaci: torniamo alla realtà della vita» – Polemiche, stecche, e molto calore ieri pomeriggio, ad un certo momento, nella saletta dell’Unione Culturale, a Palazzo Carignano, non si respirava più: tutti i posti erano occupati (più che occupati, vorremmo dire, perché su alcune sedie s’erano sistemate due persone); gli spettatori rimasti in piedi s’accalcavano, si stringevano, si pressavano negli spazi liberi contro le pareti: le porte erano state lasciate aperte e permettevano così lunghe code che arrivavano sino a metà dell’anticamera. Altra gente era salita sul piccolo palco. Dopo mezz’ora, tutti sudavano e boccheggiavano. Ma non ci fu una defezione. Tutti, nonostante la minaccia di malore o asfissia, rimasero, fermi e impavidi. Il programma del pomeriggio non prevedeva naturalmente una conferenza sull’edilizia del periodo rinascimentale o sul problema di interpretazione d’antiche saghe Unniche: il programma che aveva attirato una folla tanto strabocchevole e attenta si condensava in un numero e in una parola «13 canzoni 13». Potrà sembrare strano che in un ambiente serio, austero, d’alto livello come l’Unione Culturale si sia suonato e contato: e cantato anche a squarciagola. Eppure ieri, proprio all’Unione Culturale, ha avuto luogo un festival di canzonette, una specie di Sanremo nuovissimo stile. Cerchiamo di spiegarci in poche parole: otto o dieci giovani e giovanissimi (qualcuno già noto per attività di teatro o di letteratura o di musica «importante») hanno scritto tredici canzoni col proposito di accogliere nelle loro strofette precisi echi della realtà quotidiana, pensieri, sentimenti, aspetti di vita, personaggi, osservazioni che si riferiscano all’oggi come veramente lo viviamo”.

Ne viene fuori una situazione che con Modugno, Villa e Nilla Pizzi non ha proprio niente a che fare. È effettivamente la nascita della canzone impegnata, del cantautorato politico in aperta opposizione alla canzonetta sanremese. E i suoi iniziatori, Liberovici e Straniero – a cui poi si aggiunsero Fausto Amodei e Margot Galante Garrone, moglie di Liberovici – ne erano ben consapevoli. Si ponevano infatti non solo contro la mediocrità della canzoncina da fischiettare a passeggio ma avevano intuito profeticamente come la dinamica del “canta che ti passa” fosse una negazione dei problemi che rimbalzavano dalla radio alla televisione, entrando in casa degli italiani e vendendo loro sogni a basso costo. Era il processo di americanizzazione del dopoguerra che investiva anche la tradizione musicale in Italia (non a caso “Volare” di Modugno, rimase tredici settimane di fila in prima posizione nella Billboard Hot 100, la classifica dei singoli più venduti in America).

Un altro intellettuale che collaborò con i Cantacronache fu Emilio Jona che scrisse a proposito di quella esperienza: “Ciò che ci proponiamo, al di là della polemica o della rottura, è di evadere dall’evasione, ritornando a cantare storie, accadimenti, favole che riguardino la gente nella sua realtà terrena e quotidiana, con le sue vicende sentimentali (serie, più che sdolcinate, comuni più che straordinarie), con le sue lotte, le aspirazioni che la guidano e le ingiustizie che la opprimono, con le cose insomma che la aiutano a vivere o a morire”.

Nasce la contrapposizione consapevole ed esplicita tra “canzonetta” di consumo e canzone “impegnata”, che si distingue dalla prima non necessariamente per una maggiore qualità musicale – basta pensare all’articolo della Stampa che riporta di stecche e stonature – quanto per una diversità di contenuti. Nella prima si vende il sogno americano del dopoguerra, brillante, seducente; nella seconda si canta della realtà più difficile da digerire, lo si fa in modo politico e anticonsumistico.

Tra le tredici canzoni presentate quella sera del 3 maggio 1959 due furono quelle ad ottenere un maggior successo: “Dove vola l’avvoltoio” e “Canzone Triste”. 

La seconda è una canzone d’amore. Ma, come si sarà intuito, non un amore idealizzato e meraviglioso, non c’è spazio per un banale lirismo, ma viene raccontato un amore schiavo della realtà consumistica degli anni ‘60. I due protagonisti, pur amandosi, non riescono a vivere la loro relazione a causa dei rispettivi turni di lavoro. È palese la volontà di dimostrare come il “miracolo economico” fu per molti una condanna a una vita dipendente da orari serrati e turni in fabbrica. Il consumismo crescente, proposto come ideale di vita e traguardo raggiungibile, obbliga concretamente alla rinuncia del proprio tempo libero. Nel testo, musicato da Liberovici e cantato da Margot, si legge: “Erano sposi, lei s’alzava all’alba / prendeva il tram, correva al suo lavoro. / Lui aveva il turno che finisce all’alba / entrava in letto e lei n’era già fuori” poi nel ritornello: “Soltanto un bacio in fretta posso darti / bere un caffè tenendoti per mano. / Il tuo cappotto è umido di nebbia / Il nostro letto serba il tuo tepor”. Una relazione concreta nella sua inconcludenza, nella sua invivibilità.

L’impegno di Cantacronache fu anche molto attento alla politica contemporanea, a dimostrarlo è la canzone di Fausto Amodei, forse la più celebre del collettivo, intitolata “Per i morti di Reggio Emilia”. Nel testo si raccontano gli eventi accaduti a Reggio Emilia il 7 luglio 1960 , in cui a seguito della scelta del Governo Tambroni (democristiano), appoggiato dal Msi, di svolgere a Genova (città partigiana e medaglia d’oro della Resistenza) il congresso del partito missino, in tutta Italia si registrarono numerose proteste. Una delle più partecipate fu proprio quella del capoluogo Emiliano. La manifestazione di protesta venne autorizzata per essere svolta all’interno del teatro Alfieri, ma i manifestanti, in più di duemila, si radunarono davanti al teatro in attesa dell’inizio. All’improvviso da ogni parte giunsero camionette della polizia che iniziarono a sparare con idranti sulla folla. Si passò poi ai proiettili lacrimogeni e infine a quelli veri, che sparati ad altezza uomo, fecero 5 vittime. Quattro morirono sul colpo, una la sera in ospedale. 

Nel testo della canzone, scritto da Amodei stesso, la protesta viene idealmente collegata alla lotta partigiana  “Compagno, cittadino, fratello partigiano / teniamoci per mano in questi giorni tristi”. Nel brano vengono citate le canzoni che avevano accompagnato la Resistenza: “Uguale la canzone che abbiamo da cantare: scarpe rotte eppur bisogna andare”. La conclusione è intima ma evocativa “Compagno Ovidio Franchi, compagno Afro Tondelli / e voi Marino Serri, Reverberi e Farioli / Dovremo tutti quanti aver, d’ora in avanti, voialtri al nostro fianco per non sentirci soli / Morti di Reggio Emilia uscite dalla fossa / fuori a cantar con noi Bandiera Rossa!”. È la memoria di una comunità a cui i Cantacronache sentono di appartenere davvero. La vivono e scelgono di protestare con la loro arma più potente: la canzone.

Il tema del pacifismo come esito della lotta Partigiana è centrale nel pensiero del primo Calvino, come si legge ad esempio nel nono capitolo del romanzo “Il sentiero dei nidi di ragno”. Quando Kim deve spiegare cosa distingue la Resistenza dai fascisti afferma “C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra […] L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi”. E questo pensiero viene ampiamente ripreso nei testi di Calvino come “Oltre il Ponte” e “Dove vola l’avvoltoio”. Nel testo della seconda, l’avvoltoio diventa simbolo della guerra che aleggia sul mondo, volando sulle teste dei diversi personaggi, dal fiume alla madre e persino all’uranio che risponde “avvoltoio vola via / la mia forza nucleare / farà andare sulla luna / non deflagrerà infuocata / distruggendo le città”. La canzone ha una struttura ripetitiva, che si mantiene uguale fino al finale in cui si legge “Ma chi delle guerre quel giorno / aveva il rimpianto / in un luogo deserto a complotto / si radunò / e vide nel cielo arrivare / girando quel branco / e scendere scendere finché / qualcuno gridò: / Dove vola l’avvoltoio? / avvoltoio vola via, / vola via dalla testa mia… / ma il rapace li sbranò”. La guerra non risparmia nessuno, nemmeno chi la vuole.

Si potrebbe continuare a parlare a lungo di tante altre canzoni. Ne riporto solo alcune con i titoli e gli autori: “Il padrone del Mondo”, cantata da Glauco Mauri su testo di Italo Calvino; “Partigiano Sconosciuto” cantata da Michele Straniero su musica di Sergio Liberovici (il testo è attribuito ad anonimo, si tratta infatti di una poesia ritrovata sul luogo di una fucilazione; soltanto negli anni successivi si scoprì che l’autrice dello scritto era stata la partigiana Claudina Vaccari); “Tutti gli amori” cantata da Michele Straniero su testo di Franco Fortini; “Canzone di viaggio” cantata da Margot su testo di Emlio Jona e per finire “Un paese vuol dire non essere soli” cantata da Mario Pogliotti su suo testo scritto a dieci anni dalla scomparsa di Cesare Pavese in cui si riprende un passo del romanzo “La luna e i falò”.

Una delle ultime esperienze del collettivo si svolse fuori dai confini italiani. Nel 1962 Giulio Einaudi pubblica “Canti della Nuova Resistenza spagnola” che riporta la traduzione e lo studio critico dei canti che Liberovici, Straniero e Margot avevano registrato recandosi in Spagna durante la dittatura franchista. L’editore e gli autori vennero accusati di vilipendio di Capo di Stato estero (Franco veniva definito “cabron”) e il libro fu censurato. Il clima era teso e ci furono scontri durante i giorni del processo che si tenne a Torino. Vennero presi in esame i testi riportati e numerose furono le accuse per oscenità nelle canzoni. Pesava in particolare una metafora, per cui il gruppo venne accusato di aver attribuito a Cristo atti di sodomia (“Al santo Cristo de Limpia dicono che gli crescono i capelli, e che gli cresce il cazzo per metterlo nel culo ai preti”) Emilio Jona, avvocato del processo afferma:”Io ho cercato di spiegare che l’uso della parola “cazzo” era corretta e usata in gran parte della letteratura italiana e mi sono divertito a citarla almeno trenta volte nella mia arringa mostrando come fosse presente in qualunque testo da Bandello a Boccaccio… Poi spiegai il significato della metafora. Nonostante ciò Liberovici, Straniero, Einaudi e Margot furono inizialmente condannati a quattro mesi di reclusione e il libro fu sequestrato in tutta Italia. Poi, dopo l’assoluzione in Cassazione, quando fu chiaro che si trattava di una metafora, il libro fu ritradotto in Francia e Inghilterra. Allora un fascista qualunque poteva fare una denuncia di questo genere che poteva produrre un processo arrivato fino in Cassazione. Dovetti dimostrare come nel canto popolare l’oscenità era presente, e se uno studioso ne pubblica alcuni e li studia non compie alcun atto osceno. Si tratta, invece, di un lavoro intellettuale”.

L’esperienza dei Cantacronache si concluse nel 1963. L’opposizione alle nuove (vecchie) ideologie e alla canzonetta sanremese era troppo faticosa e non permise al collettivo di affermarsi fuori dai confini di ambienti molto politicizzati. Il gruppo fu comunque molto prolifico e incise numerosi LP ed EP tra il 1957 e il 1963. Molti dei loro brani vennero poi riuniti e ristampati dalla casa discografica Albatros in 4 LP. Anche in questo i Cantacronache furono incredibilmente moderni: furono infatti i primi a cercare un’alternativa alla nascente discografia di massa delle major, autoproducendo i loro brani e mantenendo un approccio sempre “artigianale” al loro processo creativo.

Esiste un’eredità dei Cantacronache? La risposta è sì. La più immediata, si deve a due membri, Amodei e Straniero, che, memori dell’esperienza di ricerca nell’ambito del canto sociale, proseguirono questo percorso all’interno del Nuovo Canzoniere Italiano, a cui si deve la riscoperta, tra le altre, di “Addio a Lugano” e “Bella ciao” (che proprio grazie a questo nuovo gruppo verrà consacrata a canzone simbolo della Resistenza italiana). Ma il loro lascito non si limitò a questo.

Permeati da un fortissimo sentimento politico, calato in profondità nella realtà sociale dell’Italia del dopoguerra, Liberovici, Straniero, Amodei e Margot, con i vari Calvino, Fortini, Eco, Jona e Rodari, scelsero la strada dell’impegno totale, dell’opposizione viscerale e decisa al egemonia culturale statunitense e al consumismo dilagante. Per questo vennero tacciati di essere “demodè”: in un momento storico in cui si convincevano gli italiani che tutto quello di cui avevano bisogno era comprare e fischiettare motivetti leggeri, i Cantacronache cercarono di raccontare un’altra Italia, un’altra realtà, fatta da chi quella vita e quei “sogni brillanti” li subivano e non li vivevano. Questo non passò inosservato.

La successiva generazione di musicisti guardò all’impegno dei Cantacronache con grandissimo interesse e grazie ai semi gettati nell’humus musicale italiano, germogliarono quelli che noi siamo abituati a considerare i “nostri” cantautori: artisti come Gaber, Guccini, De Andrè, persino il Dalla dell’esperienza con Roversi, attingono direttamente dai Cantacronache. 

Un esempio? La seconda strofa della “Guerra di Piero” di Fabrizio De Andrè: “Lungo le sponde del mio torrente / voglio che scendano i lucci argentati / non più i cadaveri dei soldati / portati in braccio dalla corrente”. E ora la prima strofa di “Dove vola l’avvoltoio”: “L’avvoltoio andò dal fiume / ed il fiume disse: “No, / avvoltoio vola via, / avvoltoio vola via. / Nella limpida corrente / ora scendon carpe e trote / non più i corpi dei soldati / che la fanno insanguinar”. Un chiaro omaggio da uno dei più grandi cantautori ad uno dei più grandi scrittori della nostra storia.

[Vorrei dedicare questo articolo alla memoria di Fausto Amodei, pilastro dei Cantacronache, che ha saputo combattere fino all’ultimo in difesa della Libertà e dell’uguaglianza. Grazie Fausto!]