Da quando il mondo mi ha gettato in un piccolo paese campano, con l’auto di mia madre come unico strumento di libertà apparente, ho iniziato a interrogarmi sulla tragicommedia della monogamia novecentesca e sulle sue sopravvivenze simboliche. Perfino la scelta di abbandonare il trasporto pubblico per la presunta comodità dell’automobile mi è apparsa come un gesto carico di implicazioni erotiche e sociali: un passaggio dall’esperienza collettiva del viaggio alla solitudine proprietaria del mezzo privato.
Da settembre vivo sotto pressione e lo stress è amplificato dall’impossibilità di trovare quelli che un tempo si chiamavano i parcheggi “sotto casa”, quelli che non sono segnalati da vernice bianca, o da altri colori ansiogeni, semplicemente dei pezzi di battistrada liberi, spaziosi quanto basta per poter avere la soddisfazione di spegnere il motore dell’auto e subito aprire il portone di casa. Qui non esistono perché in questa zona dell’Italia le amministrazioni comunali, con particolare solerzia e in combutta con oscure ditte private, hanno trasformato ogni centimetro di strada in una sequenza distopica di strisce blu. Sia chiaro: in linea di principio, la logica di tali strumenti potrebbe pure avere un senso. Se parliamo della buona intenzione di diminuire il numero di auto in circolazione. Peccato che in forza di una viabilità concepita con satanica incuria e della distanza considerevole dei servizi di base, in un posto come quello in cui vivo la macchina sia una necessità.
Parlavo della monogamia tossica. Dalla premessa appena fatta deriva una condizione quotidiana paradossale: la necessità di trovare un parcheggio sicuro, vicino ma visibile, sotto lo sguardo di qualcuno che possa garantirne l’incolumità, fosse anche solo un commerciante di fiducia. Sogni vani che si scontrano con una realtà impietosa, in cui, due euro l’ora alla volta, senti sempre di più di essere la pianta di un orto: il sindaco, il corpo dei vigili urbani e gli omini delle strisce blu complottano contro di te, continuano a raccogliere il frutto del tuo lavoro, vogliono esaurirti. Non ho mai amato guidare e in passato non avevo bisogno di farlo, era più che altro una frequentazione occasionale. Ora questa convivenza forzata inizia a starmi stretta.
La dinamica non è diversa da quella che si manifesta nelle relazioni monogame quando entrano in una fase di logoramento. Le vecchie abitudini vengono spazzate via dalla routine, e sul terreno della coppia si affacciano presenze fastidiose: amici, parenti, conoscenti che, come piccoli parassiti, succhiano energie e attenzioni. Gli altri, in fondo, sono come vigili urbani che cambiano continuamente la viabilità sentimentale, imponendo sensi unici e divieti di sosta. Essere monogami significa allora vivere una forma di poligamia sociale: la coppia diventa sì un’entità unica, un sinolo in cui i due nomi vengono percepiti come inseparabili, ma dentro un mosaico di relazioni che dona senso e unità alla coppia. Eppure questa stessa rete di vincoli che la tiene unita ne prepara anche la dissoluzione. Quando uno dei due rivendica un’esistenza autonoma, l’altro reagisce con paura, trasformandosi in gabbia, in barriera protettiva che finisce per soffocare ciò che vorrebbe preservare. Due metà, una volta fuse, non riescono più a separarsi senza lacerarsi.
E ora la mia macchina è sola, in un vicolo stretto, il suo specchietto ripiegato rischia ogni secondo di essere asportato da uno scooterone cavalcato da due baldi giovani. La mia macchina è in questo momento la mia giovane fidanzata, devo prendermene cura, ora ho delle responsabilità, non posso fare finta di nulla quando torno a casa. C’è bisogno di tenere sott’occhio il liquido di raffreddamento. Ora che ho dovuto scaricare l’app TELEPASS so pure quando dovrò effettuare la revisione, quando pagare il bollo. Eppure non sono mai sicuro di averci capito tutto. Spie che si accendono, allarmi che non avevo mai sentito prima, mi fanno sentire come un semiologo al cospetto di un viso sfingeo, nessuna comprensione si può ottenere dall’osservazione dei simboli che il costruttore ha scelto per segnalare un pericolo imminente.
La mia macchina sembra volermi dire che devo prestare più ascolto, siamo a tutti gli effetti in una relazione mutualistica, così dicono: lei mi trasporta in giro, io la alimento con costoso carburante e altre mille inezie di cui non riesco neanche a tenere conto. Ma dentro di lei, ogni volta, mi sento soffocare. Non succede solo durante i primi dieci, venti minuti di crociera, momenti che però accadono solo nei lunghi viaggi, quindi non quando devo percorrere la strada lavoro-casa. In quel frangente mi sento pronto a tutto, potrei persino fare una follia. La odio, odio gli altri ma finisco per odiare lei. Vorrei solo parcheggiare, o perlomeno proseguire nella mia marcia spedita e invece no. No, devo soffrire, mi sento come se con la mia nuova fidanzata, la mia auto, ci trovassimo in un loop delirante, fatto di lentezza, segnali non rispettati, chilometri di lamiera riscaldata dal sole o sferzata dal vento, tettucci che si estendono come scaglie di un dragone idiota, incapace di muoversi. Devo prestare attenzione a non tenere il piede troppo schiacciato sulla frizione, devo fare attenzione agli specchietti, è vitale tornare a casa senza trovare nuovi graffi sulla carrozzeria.
Da quando mi ritrovo in questa relazione, che mi ha lentamente trasformato da sereno pedone in gretto automobilista, porto in auto una cintura di castità per la mia compagna. Una catena che blocca saldamente sedile e volante, per me ormai parte dell’auto. È l’unica cosa che mi ha permesso di girovagare senza tanti pensieri, la proprietà porta con sé la paranoia che a sua volta porta con sé abitudini securitarie. Imprigioni ciò che ami, questo muove le vite degli automobilisti monogami.
È questo quello che vogliono i monogami? È questo che voglio io? Sono pronto per avere un’auto tutta mia? La mia nuova fidanzata potrebbe essere smantellata in un parcheggio, ogni suo dispositivo strappato via per essere rimontato su un’auto simile in qualche rivendita non proprio trasparente. A volte penso che conserverebbe ancora memoria di me. Chissà se, tra un faro e un paraurti trapiantato, riuscirebbe a riconoscere il suo vecchio proprietario, il suo vecchio fidanzato.


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