Come finire negli archivi della polizia turca

Come finire negli archivi della polizia turca
Illustrazione di Marco D'Autilia
[Tempo di lettura: 14 pignalenti]

In ogni Paese del mondo, qualsiasi autorità ha un archivio. Lo hanno i ministeri, i comuni, i municipi, le scuole, le banche, la polizia. Nel caso di quest’ultima, però, l’idea di un archivio si fa più intimidatoria che noiosa, quasi minacciosa: l’archivio della polizia non ha una semplice funzione amministrativa: è un avvertimento, una promessa di vendetta. Non ci finisci dentro a caso e, una volta dentro, non ne esci più. A ogni posto di blocco, a ogni partenza o arrivo in aeroporto, a ogni controllo di documenti puoi star sicuro che l’agente davanti a te che comunica le tue generalità a una radio o, peggio, le inserisce in un computer, ha un accesso a un qualche archivio. Pochi secondi e lo stronzo sa tutto di te, di cosa hai fatto e perché.

Ankara, sono le 05:25 del mattino. Mi alzo di scatto per spegnere la sveglia, poi mi passo una mano sulla faccia nella speranza di riprendermi. Come da tradizione prima di ogni mia partenza, abbiamo bevuto e fatto sesso fino a tardi. La sento respirare e mugugnare vicino a me. Forse dice qualcosa. Sposto con attenzione le coperte per non disturbarla e scaccio Osman, il gatto di casa che dorme nel minuscolo spazio rimasto libero tra i nostri corpi abbracciati. Mi muovo il più silenziosamente possibile nella speranza di non svegliarla, anche se probabilmente fallisco il momento in cui decido di rubarle un bacio mentre dorme. Mugugna di nuovo, tentando di salutarmi.

Mi incammino in punta dei piedi verso la cucina per fare colazione mentre ripenso a quell’ambaradan di storia che è il nostro primo incontro: giornalisti, politici, accademici, intellettuali vari da tutta Europa, eravamo stati invitati per prendere parte a un’indagine indipendente sulle condizioni di vita di Abdullah Ocalan, il fondatore del PKK, e dei prigionieri politici in generale. Ci trovammo divisi in piccoli gruppi di ricerca e spediti in tutto il Paese, accompagnati da coordinatori e coordinatrici di una nota associazione umanitaria che si era presa la briga di organizzare e finanziare il viaggio. Il programma della missione, divulgato con pseudo segretezza, prevedeva una serie di incontri con avvocati, organizzazioni politiche e della società civile represse dalle autorità. Roba seria, insomma. Appena arrivato nell’albergo in cui avrei dovuto incontrare gli altri membri del mio gruppo, però, mi sono trovato davanti lei, la coordinatrice che per cinque giorni mi avrebbe accompagnato in giro per Istanbul un’intervista dopo l’altra. Ammetto che non fu molto professionale provarci…però a mia discolpa non è stata un’avventura di una notte, alla fine è diventata la mia compagna e devo dire che siamo una bella coppia, impegnata e impegnativa. Io giornalista e ricercatore, lei attivista e politicante. Vi lascio immaginare l’intensità e il pathos dei nostri litigi.

Ripercorro quella missione, quelle testimonianze di soprusi, violenze e prigionia mentre mi ingozzo di frutta e caffè con gli occhi mezzi chiusi. Guardo l’orologio e decido di darmi una mossa: in passato mi è successo di perdere voli e autobus e lei se ne è sempre lamentata. La valigia è già pronta, la sollevo e la posiziono davanti alla porta prima di mettermi la giacca. Sbuca Osman, che inizia a strusciarsi tra le mie gambe sperando di convincermi a dargli dei croccantini fuori orario. Quando capisce che sta fallendo inizia a curiosare sulla valigia, annusandola: Osman va pazzo per quella valigia. Infilo le chiavi nella toppa e le giro, poi guardo il felino. Se non sarò rapido proverà a fuggire, lo fa sempre. Lui mi guarda, sembra pronto. So di non poter battere un gatto in agilità. Sospiro, alzo gli occhi verso il soffitto e gli do questi due benedetti croccantini per distrarlo mentre esco. Funziona, come sempre. Forse i suoi tentativi di fuga sono solo un modo per raggirarmi.

Guardo l’orologio e mi precipito giù per le scale raggiungendo la fermata dei taxi davanti casa. Vorrei fumarmi una sigaretta ma sono quasi sette mesi che ho smesso; quindi, mi infilo in bocca una gomma da masticare e m’attacco al cazzo. Il taxi arriva e usando quelle due parole di turco che conosco e diversi gesti gli faccio capire che vorrei arrivare a Kizilay, alla fermata dell’autobus, quella da cui partono le navette per l’aeroporto. Durante il viaggio guardo fisso fuori dal finestrino, non sia mai che il tassista mi rivolga la parola…fanno sempre le solite domande e, per quanto mi riguarda, parlare prima dell’alba dovrebbe essere vietato. Non mi è mai piaciuta Ankara, una capitale tirata su dal nulla, costruita intorno a enormi strade a più corsie che attraversano la città. Sullo sfondo, tra i palazzoni, si stagliano il mausoleo di Ataturk, dove è seppellito il fondatore della moderna Turchia, e la Kocetepe camii, la Moschea più grande della città, fortemente voluta da Erdogan nella sua propaganda basata su religione e cemento. Una città dallo spirito laico ma sempre più religiosa a causa del governo. Arriviamo in piazza, pago il tassista e scendo. È buio e c’è poca gente in attesa del bus. Mi guardo attorno e perdo tempo a guardare il contrasto tra gli enormi manifesti elettorali di Erdogan, col suo faccione e il richiamo all’Islam, e le bandierine rosse con tanto di volto di Ataturk sparse qua là per la piazza, decorazioni del centenario della Repubblica, festeggiato per lo più dal fronte laico nazionalista (comunque feccia sciovinista).

Sono mesi concitati per la Turchia: dopo le presidenziali vinte da Erdogan nel 2023 (probabilmente qualche broglio lo ha aiutato) il fronte repubblicano ha dato prova di grandi mobilitazioni per il centenario della Repubblica, facendo leva su quei valori nazionali che all’attuale presidente non vanno troppo giù. Ora che siamo prossimi al 21 marzo tutte le attenzioni sono rivolte a dove sto andando io, a est, al Bakur (Kurdistan turco), dove si festeggerà il Newroz, il capodanno curdo che coincide con l’inizio della primavera; eppure, sotto sotto, ogni turco pensa al 31 marzo e alle elezioni municipali, l’ennesima prova elettorale in cui si proverà a rosicchiare il potere di Erdogan, già ben avviato nella sua campagna preventiva di arresti, diffamazioni, proclami – poi, come verrà sentenziato dalle urne quasi due settimane dopo, il sistema di potere dell’AKP di Erdogan è in realtà più in crisi del previsto, con decine di municipi e comuni che saranno consegnati all’opposizione durante la tornata elettorale, ma chi se ne intende sa che è proprio in questi momenti che gli Stati autoritari dispiegano la repressione più violenta di cui sono capaci. Sono le 05:55 e l’autobus delle 06:00 è appena arrivato. Do un’ultima occhiata agli sguardi dei manifesti elettorali e salgo. Inizia il viaggio verso l’aeroporto, a mio modesto avviso, la tratta più rilassante dell’area mediterranea.

06:50, aeroporto di Ankara. Ho appena passato i primi controlli di sicurezza e fisso il tabellone delle partenze nazionali: volo operato dalla Pegasus Airlines per Diyarbakir, o Amed, come la chiamano i curdi – e come la chiamerò io d’ora in poi, per ragioni politiche. Non è la prima volta che vado nella città più militarizzata di Turchia. Ad ottobre avevo deciso di andarci con il Guney Ekspresi, il treno che collega Istanbul al profondo est del Paese. Ventisei fottute ore di viaggio di cui la metà in preda alle allucinazioni e ai dolori dell’intossicazione alimentare che mi sono beccato mangiando un toast al formaggio di capra comprato nel vagone ristorante. Un giorno mi piacerebbe rincontrare i due vecchini curdi diretti a Batman che condividevano con me la cabina. Quando capirono che stavo per stirare sono venuti in mio soccorso con tisane e premure varie. Gli devo molto, forse la vita.

Stavolta però è diverso. Ho preso l’aereo delle 08:05 perché non ho propria voglia di perdere un giorno intero in viaggio né di morire in treno. È il 19 marzo e il 21 ci saranno le celebrazioni del Newroz. So già che il clima sarà tesissimo. Non vedo l’ora. L’obiettivo è raccogliere ulteriori testimonianze – oltre a quelle già registrate a ottobre – e finire un benedetto reportage che vorrei scrivere da mesi. Vorrei studiare un po’, organizzare cose, rivedere ancora una volta le domande che vorrei porre…crollo.

Ore 09:35, mi sveglio che sono ad Amed. Prendo la mia valigia, scendo dall’aereo e cerco di raggiungere l’uscita. Mentre percorro l’ultimo corridoio, però, vedo due poliziotti in borghese allontanarsi dalla loro postazione defilata e mettersi in mezzo ai coglioni, bloccando la mia traiettoria di salvezza. Ci guardiamo. Sono l’unico straniero e ai loro occhi l’unico che vale la pena di fermare. Faccio finta di niente e provo ad aggirarli. Non ci cascano. “Police!” esordisce uno spilungone bello robusto in tuta mentre mi mostra il tesserino. Sbianco. Mi fermo e lo guardo, sorridendo nervosamente. Mi fa cenno di seguirlo verso la sua postazione: un bancone bianco con il logo della polizia dove ci aspetta un altro agente in borghese, un grassone stempiato e con il baffone da turco con indosso un completo marrone di dubbio gusto. Lo spilungone mi chiede il passaporto, poi lo studia nei minimi dettagli: nome, cognome, nazionalità, i vari timbri d’ingresso e di uscita, tutti turchi. Il suo sguardo si alterna tra la mia faccia e la foto nel passaporto, di quando avevo 18 anni appena compiuti. Sembra uno serio e io ho il cuore in gola. “Motivo della visita?” mi chiede mentre passa il documento al suo collega. “Turismo…”, dico sforzandomi di apparire tranquillo. “Dove dormirai?”, mi incalza subito. “In un hot…”, non mi lascia nemmeno finire di rispondere: “Hai una prenotazione? Fammela vedere!”, il suo tono è abbastanza alto ora, la trovo una pratica intimidatoria efficace. Obbedisco e tiro fuori il telefono facendogli vedere la prenotazione in un hotel in centro. Mi prende il telefono dalle mani, che odio. “Oh solo una notte?”, sembra calmarsi all’idea che mi fermi solo una notte e che, presumibilmente, me ne vada prima del Newroz. Poi cambia idea e realizza che può ancora cacarmi il cazzo. Mentre zoomma sui dettagli della mia prenotazione in albergo mi fa un gesto col capo e mi intima di fargli vedere il biglietto di ritorno. Sospiro. Rottura di cazzi in arrivo. Mi riapproprio, gentilmente, del mio telefono e gli mostro il biglietto di ritorno: un volo che partirà un giorno dopo il Newroz, il 22 marzo. Aggrotta la fronte e ci pensa un po’ su, poi sbraita: “e le altre due notti dove le passi?!”. Ora mi sento davvero minacciato e il collega grassoccio e stempiato si è messo dietro di me con le mani alla cintola. Sono circondato. Deglutisco. “Da amici”, dico con voce ormai tremante, mentre penso tra me e me che i miei amici sono dei maledetti disagiati.

Mentre pianificavo il viaggio, proprio per evitare una situazione del genere, problematica per me e per loro, avevo prenotato tre notti in albergo, in modo da evitare rotture di cazzo e sembrare il classico turista bianco che pensa che farsi fregare al bazar sia un’avventura…invece no, loro devono fare i curdi, devono sentirsi offesi se non dormo e mangio da loro, se non conosco genitori, fratelli, sorelle, nipoti, zii, cugini, nonni, animali domestici e vicini di casa. Hanno insistito così tanto che alla fine ho accettato l’invito e ho deciso di passare in hotel solo la prima sera.

Ora la tensione è molto alta. Il grassone si fa più vicino mentre lo spilungone riprende il mio telefono per leggere ad alta voce le informazioni del volo, poi lo posa sul bancone, tira fuori carta e penna e chiede “…e come si chiamano questi amici?”. Gli dico il nome del ragazzo che mi ospiterà. Mi chiede il cognome. Faccio finta di non saperlo. Mi chiede l’indirizzo, quello non lo so davvero. Si innervosisce. Ha ancora il mio telefono a portata e dopo un paio di secondi gli si accende la lampadina: “hai il suo numero?”, domanda retorica: neanche apro bocca che sta già frugando nella rubrica del mio telefono. Lo trova, è l’unico della rubrica che si chiama così. Se lo annota mentre io azzardo una timida protesta e il grassone baffuto sghignazza. Mi chiede che lavoro faccio. Non voglio dirgli che sono un ricercatore e nemmeno un giornalista, quelli fanno tutti una brutta fine. Gli dico che studio. Mi chiede di provarlo. Gli faccio vedere il mio tesserino. Lo spilungone lo fotografa insieme al passaporto, poi me li restituisce e con un cenno del capo mi dice che posso andare.

Mi allontano tranquillo ma appena le porte automatiche dell’aeroporto si chiudono alle mie spalle prendo il telefono e avverto i miei contatti ad Ankara e ad Amed per avvertirli dell’accaduto. Mi tranquillizzano. Quasi normale amministrazione durante il Newroz, quando la città più militarizzata di Turchia diventa laboratorio di pratiche securitarie. Certo un po’ sopra le righe visto che sono un europeo, ma sanno che chiunque vada ad Amed lo fa anche per interessi politici e non solo turistici. Il trattamento è comunque meglio di quello riservato ai curdi. Almeno non hanno potuto picchiarmi, arrestarmi o trattenermi oltre il controllo.

Scarico la tensione e prendo un po’ d’aria fuori dal terminal. Si sta abbastanza bene. Ci metto dieci minuti a prendere un taxi perché non capisco un cazzo di quello che la gente dice e non esiste una vera e propria fila ma un ometto sulla sessantina con la coppola che parla con tutti i clienti, per poi direzionarli verso i taxi collettivi. Capisco che ci dividono per destinazione: gli dico che vado in zona Dag Kapi, in pieno centro storico. L’ometto annuisce e mi indica un tassista che si avvicina, prende la mia valigia, la sbatte nel portabagagli e mi fa accomodare insieme ad altri tre viaggiatori. I trenta minuti successivi li passo a osservare e invidiare i tre uomini silenziosi che si fumano una sigaretta dopo l’altra mentre il tassista ci porta in giro nell’hinterland della città. Che idea di merda smettere di fumare, sconsiglio vivamente. 

Ci facciamo due villaggi su altrettante colline, ho modo di ammirare il panorama bucolico curdo ed è un interessante alternarsi di bellissimi boschi e colli e cumuli di immondizia e case diroccate – ma comunque abitante. Per tutto il viaggio il fiume Tigri ci accompagna, scorrendo sulla nostra destra. L’ultimo passeggero scende poco fuori le mura della città e capisco che finalmente sto arrivando a destinazione anche io.

Sono circa le 10:30 quando entriamo nell’area del centro storico. Il tempo di farmi fregare e strapagare il tassista e scendo. Oltre al mio taxi in sosta c’è solo un altro veicolo fuori dall’hotel. È una volante della polizia. Senza farci troppo caso prendo la mia valigia ed entro nella struttura: un modestissimo due stelle col pavimento coperto da moquette polverosa rossa e i soliti tre orologi patacca che segnano l’ora locale, quella di New York e quella di Tokyo. Mi avvicino al bancone del check-in e indovinate chi trovo? Sì, esatto: lo spilungone e il grassone dell’aeroporto. Penso vogliano “essere sicuri che arrivi in camera sano e salvo”. Mi metto a parlare con l’impiegato dietro al bancone. Fornisco i documenti, mostro la prenotazione, lui mi dà le chiavi. Entrambi facciamo finta che non ci siano i poliziotti a fissarmi uno da un lato uno dall’altro mentre svolgo le pratiche del check-in. Entrambi probabilmente non li sopportiamo.

L’impiegato si alza e mi mostra l’ascensore, lo chiama, mi dice che la stanza si trova al quarto piano. Mentre ci congediamo, prima che salga, butto un occhio al grassone e allo spilungone. Se ne stanno andando. Finalmente. Entro in camera e mi sbraco sul letto a dormicchiare. Anche gli hotel a due stelle hanno le lenzuola che profumano di pulito e conciliano il sonno.

Appena apro gli occhi, poco dopo mezzogiorno, decido che è il momento di fare quello che faccio sempre quando mi trovo in una città che non conosco ma che voglio esplorare: andarmene a spasso con il telefono in modalità volo, o senza internet, o spento, o addirittura lasciato in camera. Un distacco completo, totale, dal mondo del lavoro che di solito mi perseguita anche quando sono in viaggio. Penso sia una buona idea visto che non ho un cazzo da fare fino alle 18:00, quando dovrei incontrare un giovane avvocato, amico di un amico, che ha voglia di farmi fare un giro in città.

Mi sento un po’ al sicuro un po’ in pericolo ad avere solo amici attivisti e avvocati in questa città. Al sicuro perché conoscono la legge e i quartieri. In pericolo perché solitamente sono il tipo di persone che i regimi puntano quando vogliono colpire e demolire una qualsiasi forma di resistenza. L’ultima volta che sono venuto in città mi hanno portato nel principale ufficio dell’avvocatura del posto. Una volta entrati ci si trova davanti la gigantografia di Tahir Elci, avvocato indipendente e punto di riferimento per il movimento civile curdo, assassinato nel 2015 mentre parlava alla stampa in uno dei tanti momenti di tensione tra polizia e civili. Ancora oggi non si sa bene chi sia stato a ucciderlo. Un agente del governo? Un nazionalista turco? Ci sono diverse versioni e la verità non è mai venuta a galla. Legittimo pensare si sia trattato di entrambe le cose.

Esco dall’hotel e mi direziono verso Sur, il centro storico, o almeno quello che ne rimane visto che la ripresa delle ostilità del 2016 (in seguito all’ennesimo fallimento delle trattative tra Stato turco e PKK) il governo l’ha fatto radere al suolo e ricostruire: troppi vicoli e punti ciechi, era una zona difficile da controllare. Guardando le foto dell’epoca devo dire che in qualche modo mi ricordava Bari Vecchia. Percorro la via principale della città e passeggio davanti i principali monumenti. A farmi compagnia orde di sconosciuti indaffarati e i manifesti elettorali, strappati e vandalizzati quelli dei candidati filo-Erdogan, intonsi quelli dell’HDP, il partito di sinistra radicale e rappresentante istituzionale della causa curda. La prima cosa che si nota di Amed è la presenza dell’esercito. 

Camionette e blindati sono presenti ovunque, anche nelle aree più calme e nei momenti più tranquilli. Grossi blocchi di cemento scandiscono la percorribilità delle strade preannunciando i checkpoint della polizia. Il filo spinato è sparso qua e là su molti edifici come le lucette di Natale a dicembre in Europa. L’aria è carica di tensione e pesante. Gli occhi dei poliziotti e dei militari sono sempre guardinghi, le armi sempre impugnate e ben in vista, pronte all’uso. La cosa più assurda, però, sono i jet militari che sorvolano la città volando bassissimi, quasi raso palazzi. Un rumore assordante come quelli che si sentono a Roma il 2 giugno li precede. Poi, se alzi lo sguardo, li vedo tagliare l’aria. Mi hanno spiegato che hanno due funzioni. La prima è dirigersi verso il Rojava o il Bashur (la Siria nord-orientale o l’Iraq settentrionale) e bombardare le postazioni del PKK – nei pressi di Amed ci sono importanti basi militari; la seconda è per disturbare la popolazione e ricordargli la presenza delle forze armate. È quasi Newroz. L’entusiasmo della gente va spezzato. Gli va ricordato “chi comanda”. Newroz non è solo un evento culturale: è politica allo stato puro. In Bakur, tutto è politica. 

La mia passeggiata dura cinque ore. Visito la piazza centrale, le mura, la fortezza, la moschea, la città vecchia. Vicoli, vicoletti e stradine con mocciosi incuriositi che mi ronzano intorno e mi parlano in curdo (o turco…io non capisco nessuna delle due). E poi via, fuori dalle mura e addirittura fuori città. Una lunga passeggiata fino alle rive del Tigri e al ponte del XIV secolo, tra vacche, alberi, contadini, pecore.

Ritorno verso l’hotel alle 17:00 circa e, mentre mangio con gli occhi un bel doner kebab esposto nella vetrina del ristorante accanto, sento una voce che mi chiama. Mi giro e vedo un ragazzo bassino, carnagione scura, orecchino, lo sguardo preoccupato. È “l’amico di un amico” che avrei dovuto incontrare alle 18:00. Si avvicina e quando capisce che sono proprio io – non ci siamo mai visti prima – si rasserena e mi spiega il perché di tanta apprensione: nelle ultime cinque ore, chiunque sapesse del benvenuto ricevuto in aeroporto ha pensato il peggio. Mentre alcuni pensavano mi fossi fatto rubare il telefono nella città vecchia, altri pensavano fossi stato accoltellato, altri ancora erano sicuri mi fossi fatto arrestare. Realizzo la dimensione del caos che ho creato sparendo per così tanto tempo quando arriviamo in una sala da tè in centro e ci mettiamo a discutere dell’accaduto. Forse passeggiare senza telefono per cinque ore non è stato gentile né intelligente, ma la cosa è comica. Mentre bighellonavo in giro, il mio interlocutore e i suoi amici sono andati nella città vecchia a chiedere se qualcuno dei ragazzini mi avesse fregato il telefono. Poi hanno chiamato tutti gli ospedali della città per chiedere se fossi stato ricoverato in seguito a un’aggressione, un incidente, qualcos’altro di atroce. Non soddisfatti, hanno chiamato tutte le questure di Diyarbakir chiedendo se mi avessero arrestato e trattenuto. Ora, io non metto in dubbio le buone intenzioni né le qualità dei miei amici e dei loro amici, tutti avvocati e difensori dei diritti umani, ma chiamare la polizia dopo quello che è successo in aeroporto e poi in hotel non è forse un’idea brillante. La trovo divertente però. Penso alle telefonate ricevute dalla polizia dove, a un certo punto, alla trentesima volta, si chiedono, giustamente: “ma questo chi cazzo è e perché tutti pensano che ce l’abbiamo noi?”. Strano che non mi sia ritrovato spilungone e baffone in hotel un’altra volta. Io non lo sapevo, ma tutto questo sbatti in realtà era preambolo del mio, probabile, inserimento in qualche archivio della polizia turca.

Newroz, 10:45 circa. Io e due amici siamo in procinto di entrare nel grande parco dove si terranno le celebrazioni, con musica, discorsi, il tradizionale falò che sancisce l’inizio della Primavera. Ha piovuto molto la notte, c’è fango ovunque. Siamo in ritardo. Ci accalchiamo insieme a centinaia d’altre persone all’ingresso del parco. Alte inferriate ci separano da decine di poliziotti in tenuta antisommossa che gestiscono l’afflusso di persone tramite tre singole entrate dove ci vengono tolti bottigliette e accendini. Sfiliamo lentamente davanti a camionette e poliziotti dal volto coperto, armati con fucili d’assalto. Non capisco cosa ci viene detto di tanto in tanto, ma sembrano insulti o intimidazioni. Anche i miei accompagnatori sembrano nervosi. Arriviamo al secondo e ultimo controllo di sicurezza. Veniamo perquisiti, di nuovo, uno ad uno. Quando arriva il mio turno l’agente in impermeabile con la faccia stanca che sta svolgendo i controlli mi mette le mani ovunque. Si ferma in particolare sulla tasca interna della giacca. Percepisce qualcosa. È il mio passaporto. Lo tiro fuori. Lo guarda incuriosito. Mi dice di seguirlo. Ci spostiamo dall’area dei controlli di sicurezza e raggiungiamo alcuni suoi colleghi vicino a un enorme blindato. Si passano il mio passaporto di mano in mano, curiosando dentro. Uno di loro, l’unico forse che parla in inglese, mi chiede a che aeroporto sono arrivato. “Istanbul ma poi sono andato ad Ankara”, rispondo. Lui riferisce il tutto al ricetrasmettitore posizionato sulla sua pettorina. Poi aggiunge il mio nome, il mio cognome e il numero del mio passaporto. Sorride mentre ascolta la risposta. Chissà se sta parlando con lo spilungone e il grassone baffuto. Mi guardo intorno e incrocio lo sguardo dei miei amici. Sembrano preoccupati e spazientiti. Mi sento l’attrazione del momento e forse un po’ lo sono. 

Mi sento gli occhi di tutti i poliziotti e di qualche passante addosso. Un altro agente, più o meno della stessa età di quello che mi ha perquisito, si avvicina. Ha una fotocamera in mano. Scatta una foto al mio passaporto. Poi si avvicina a me. Il poliziotto in impermeabile fa un passo indietro lasciando al fotografo un’ampia visuale. Il nuovo arrivato mi punta la fotocamera addosso. Dice qualcosa in turco. Io non so bene che fare ma sono stanco: mai avuto così tanti problemi con la polizia in tutta la mia vita…ma davvero questa gente vive così?  Mi metto in posa. Mi fa prima una foto di profilo, poi mi fa capire che ne vuole una frontale. Tutti mi guardano. Non mi trattengo: faccio un sorriso da ebete, come se a farmi la foto fosse mia zia e non un poliziotto, e alzo la mano facendo una “V” con le dita, un gesto di resistenza all’oppressione, celebre nell’immaginario curdo. Sento i miei amici ridere. Ride qualche passante. Ridono anche il fotografo e l’agente che mi perquisiva. Non sorrisi divertiti, né maliziosi. Sorrisi imbarazzati, quasi di sorpresa. Timidi sorrisi di scusa del tipo “è il nostro lavoro, non possiamo farci niente”. Mi ridanno il passaporto e torno dai miei amici ancora sghignazzanti. Penso che effettivamente non sia una brutta foto per un archivio della polizia, almeno ero sorridente. Chissà che espressione farà l’agente che, la prossima volta che andrò in Turchia, vedrà la mia faccia da culo sorridere sul suo schermo durante i controlli in aeroporto. Chissà…io, comunque, il prossimo viaggio in Turchia lo sto programmando…poi si vede. Magari l’apparato di sicurezza del Paese non è così efficiente come temo.

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