La mia idiosincrasia alla mondanità è un problema genetico. Intendo in senso letterale.

Seguendo la linea ereditaria mi accorgo che delle tante allergie tramandate di padre in figlio e arrivate fino a me, quella alla mondanità è la più grave, e la più radicata. Non si equivale all’ipersensibilità ai crostacei e ad alcuni tipi di saponi. Penso che sia perché affondi in qualcosa di davvero profondo, intrinsecamente terreno, intuitivamente sanguineo.

Una breve “archeologia affettiva” del ramo maschile della mia famiglia lo dimostrerebbe.

L’etimologia del mio cognome è “servo della terra”. Fino a dove sono riuscito a ricostruire la linea, i miei avi erano legati a una campagna da coltivare, sotto padrone. Poi il bisnonno – omonimo a me –  ha letteralmente costruito la sua casa, mattone per mattone, sulla sua terra. È morto dove è nato. Ha viaggiato una volta sola per cercare il fratello scomparso negli Stati Uniti. Non l’ha trovato, è tornato indietro. Un giorno è caduto sul terreno che coltivava, come la pera che gli cresceva a fianco.

Mio nonno è stato il primo a emanciparsi dalla fotosintesi. Ha vissuto un’intera vita in un paese di mille abitanti, lavorando in ufficio. Si muoveva tra un sugo della domenica e l’altro con la stessa lentezza con cui si alternano le stagioni. Un uomo pacato come non ne ho mai più conosciuti. Soffriva il chiasso. Scriveva in un diario quotidianamente. Quando è morto, ho letto un suo appunto di un giorno di festa in cui c’ero anch’io, bimbo. Diceva solo: “sono stanco, mi ronza la testa, ripiego in bagno”.

Le donne della mia famiglia sono più allegre e attive. Uomini così mesti cercano i loro opposti, persone fatte della stessa sostanza che gli nuoce. Scelgono volontariamente la sofferenza: chissà perché. Nonostante la voglia di contaminarsi però rimane un attaccamento profondo alla loro vera natura. Dalla genetica non si scappa. Gli affetti mitigano e smussano, ma non risolvono.

Alcuni studi hanno dimostrato che a fine pasto abbiamo sempre posto per il dolce perché il primate che è in noi sa che costituisce una riserva facile di zuccheri da immagazzinare. O anche che proviamo un senso di meraviglia di fronte a uno spazio aperto e sconfinato perché da buoni eredi di cacciatori raccoglitori siamo in grado di scorgere il pericolo di chi ci caccia e di vedere le prede. Quelli con cui condivido la parte più rilevante del mio patrimonio genetico dicono chiaramente “evita l’affollamento, ritirati, cerca la quiete”. Che c’è di strano se penso che mi sia arrivato qualcosa del genere, dentro, in maniera irriflessa? Anche se tutto è mutato, dal tempo dei miei avi, e anche di mio nonno, sento un richiamo innato, intrinseco, a quel famigliare adagio. È il mio dolce a fine pasto, il mio senso di meraviglia. Tutto sotto forma di allergia, ovviamente.

La reazione avversa che mi provocano gli eventi, le feste, i ritrovi, le serate, è quella di un’allergia comune. In situazioni del genere – solitamente è una cosa qualunque a cui segue un dj set – mi trovo di fronte a un cocktail di reagenti, – spesso anche a un cocktail alcolico, (inutile spreco di plastica! penso ogni volta) – un mix letale. Quando non riesco ad evitarle, lo shock anafilattico è dietro l’angolo. Eppure è chiaramente difficile medicalizzare un’allergia del genere. Quali sono le prove allergiche per questo tipo di allergie? Come si conducono ricerche che spieghino la natura così umana e atavica di questa forma di patologia?

Eppure assomiglia in tutto e per tutto a un’allergia. Innanzitutto la quantità di allergene a cui è esposto il mio sistema immunitario innesca una reazione direttamente proporzionale. L’affollamento ad esempio mi rende quasi inabile a partecipare a queste ricreazioni collettive. Si saturano le mie pur decenti capacità di rapportarmi con le persone. Perdo lucidità nel contatto con il mondo che mi circonda, si otturano le orecchie, sudo, vola in alto la pressione, la glicemia, ho fastidio allo stomaco, gratta la gola. Mi rivedo in mio padre in quelle rare occasioni in cui era obbligato a esserci e a cui ho assistito. Gli stessi sintomi. La stessa incapacità. Siamo intolleranti a quella peculiare forma di edonismo umano allo stesso modo. Ci danno problemi le stesse cose. Più alto il volume, più è bassa la nostra tolleranza, più è forte l’entropia e il movimento, più si abbassa la nostra soglia di sopportazione. È la solitudine di una sigaretta il nostro antistaminico.

Odio le riunioni umane del futile. Non è colpa mia, mi dico. È scritto nel mio sangue. Alla fine non è che il prodotto – penso sano – di secoli fuori dal consumismo; dall’idea che la socialità sia quella che viviamo nelle città soffocantemente affollate, nei cinema, nei bar, fuori dai locali a bere. Consuma una consumazione, consuma un’esperienza, consumati. Ecco spiegati i rash cutanei: il sistema immunitario cerca di proteggermi, mi avverte che c’è qualcosa che non va, mi invita ad andarmene. Allora lasciamo questa socialità a chi apparteneva, dico io: alle élite. Alla borghesia dei cafè. Non sento mio nulla del genere, appartengo alla terra, nipote del nipote di un brigante. Hanno vinto loro, e io ora sono uno di loro, piemontese di città. Non posso però tradire la natura del mio mondo scomparso. Morte alla mondanità umana! Morte ai cocktail! Morte a chi ci consuma!

Vaneggio. Stasera ho la presentazione di un libro alla quale sono obbligato ad andare e inizio a sentire altri sintomi. Un raschio alla gola. E mi ricordo di quanto siano stupide le persone, di quanto sia inutile pensare che cambino, di quanto sono inutile soprattutto io. Solo “astratti furori”. Mi rimetto in pace nell’archeologia affettiva che ho ricostruito.

Ripenso a mio padre. A come è faticoso per lui uscire. Ripenso al bisnonno su un transatlantico cattivo, verso un orizzonte pericoloso. E se semplicemente fossi fedele alla loro anima nel mondo, che forse è anche la mia, in un modo che riesce a tenermi dentro, a quel mondo?

Sogno spesso un esilio volontario. Ma non quello di Henry David Thoreau, tra le foreste vergini americane. Un esilio mediterraneo, tra gli ulivi e i campanili. Piante, inframezzate da donne e uomini ancora poco dentro al mondo. Sogno di tornare da dove vengo, che cosa banale, a pensarci.

Cerco su google: da dove vengono le allergie? Google risponde: predisposizione familiare, cambiamento di stili di vita, esposizione ad allergeni e inquinanti. Mi sembra una spiegazione logica.

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