Emanuele Atturo è la mia vera ossessione, è lui la persona di cui mi sono innamorato la prima volta che ho ascoltato un podcast dell’Ultimo Uomo. Di conseguenza questa doveva essere l’intervista principe, l’apice di questo viaggio intergalattico nelle menti di una generazione che sta distruggendo il pianeta con le lacrime agli occhi. Non è stata neanche un marchese. Quella che leggerete è un estratto affettato, un condensato di una conversazione più lunga, più viscosa e scomoda, perché è vero che non bisogna mai incontrare i propri idoli, così com’è vero che in una conversazione, che tenta di essere un’intervista, bisogna arrivare a avere un’intesa silente, implicita con il proprio ospite. Qui non è accaduto. Io suonavo free jazz, Emanuele -più bravo e più esperto esteta conversazionalista uomo di cultura- preferiva un be-bop più costruito.
Io sono inevitabilmente caduto nel timore reverenziale dei suoi fluenti capelli ricci biondo cenere e del suo sorriso che tradisce sempre una cinica astuzia. E mentre andavamo, tra anse e concetti persi, verso la foce della cultura italiana, io non riconoscevo più la persona che avevo ammirato per questi tre meravigliosi anni.
Posso dire che, davanti al nostro disaccordo, ho sentito la mia ossessione finalmente partire dal porto.
Alla fine, per le caldissime strade di San Lorenzo, ai tavolini di Kebabone a Malatesta, in un campo da tennis sulla Casilina (tutti luoghi in cui Atturo mi è apparso) mi sono sempre chiesto, se dietro ai suoi occhi azzurri, ci fosse lo zeitgeist e un po’ mi sono spaventato.
Ero interessato alla tua formazione culturale, da dove sei partito?
Consumi culturali?
Sì, dai, partiamo dai consumi culturali.
Ma di adesso?
Sì, anche di adesso.
Non sto trovando punti di riferimento in questa intervista, parliamo di adesso o in generale?
In generale, in generale.
Cosa consumo tendenzialmente?
Più cosa ti ha portato a vedere il mondo come lo vedi adesso. Poi puoi dire che i prodotti culturali non ti hanno influenzato per niente.
All’inizio soprattutto musica.
Che musica?
Agli albori, Nu Metal. La musica è stato il primo mondo che si è mostrato ai miei occhi in modo organico. C’era uno stile, un’attitudine, un sistema di valori, un’ideologia verso cui potevi più o meno proiettarti, associarti quando avevi quindici, quattordici anni, tipo il primo disco dei Limp Bizkit. Un tipo di musica molto aggressiva.
Eri un metallaro?
No.
Ma chi te li ha fatti scoprire?
MTV. Per la mia generazione, era ancora un posto dove cercavi te stesso, la tua nicchia. Magari mandavano Britney Spears, Pharrell, Oasis, Limp Bizkit e tu sceglievi a chi appartenere. Ma ero troppo piccolo per associarmi al grunge, a Massimo Coppola con new:brand:new. Però la musica sicuramente era una cosa in cui uno cercava la propria identità, poi secondo me ti apre sempre a molte cose, se hai artisti preferiti poi fanno da ponte verso film, libri, prodotti culturali. Però non so davvero cosa ha strutturato la mia visione.
Non ci sono stati dei momenti che hanno cambiato o sono rimasti?
Per me questa cosa non esiste. Non ci sono dei momenti: è progressivo, metti un mattoncino dopo l’altro impercettibilmente. Non sai nemmeno te che cosa ha ti ha formato, poi ci stanno degli autori che hanno smosso più cose, che mi hanno cambiato di più, forse un po’ Miti d’oggi di Barthes, Una cosa divertente che non farò mai più di Wallace, i film italiani degli anni ’60.
Penso che la mia formazione culturale sia quella base di un millennial che ha studiato lettere. Poi magari mi piaceva più l’aspetto eclettico delle discipline, il fatto che Barthes scrivesse un saggio sulla bistecca per me era entusiasmante, anche leggendo i blog di gente, tipo come-diventare-il-mio-cane, blog completamente dimenticato, manco è un riferimento ormai. Quella cosa lì mi ha smosso. Non so se ti ho dato qualcosa di usabile…
Quindi per te la cultura lavora a livello inconscio soprattutto, si sedimenta nel tempo come la sabbia?
Sì, la maggior parte delle cose sì. Anche perché non c’è mai qualcosa di così illuminante in modo immediato, forse siamo troppo disincantati come generazione, siamo in un mondo troppo post ideologico.
È un bene o un male?
Soprattutto un male, ma sai bene e male, ci stai talmente dentro, quindi che che ne so. Dal punto di vista di chi vive nel disimpegno e nella disillusione, certo che guarda con fascinazione un mondo con gente più appassionata. Per me è impossibile dire “facciamo una maratona di questo regista”, mi piacciono tante cose, ma non vado in fissa in modo ossessivo, quello l’ho perso quando ho finito di essere adolescente. Per esempio, io ero appassionato dei Libertines in un modo che dopo non è mai più riapparso…
Se poi cresci con riferimenti culturali postmoderni è tutto ironico, non serio.
Non sei mai stato sofferente nei confronti di questa cultura del disincanto?
Certo. Politicamente è molto problematica, perché non ti permette di credere che puoi avere un’influenza reale, che tutto sia sullo stesso piano anche per paura di fallire, di sentirti ancora più ininfluente di quello che sei. Il distacco ti rende impotente. E poi è molto comodo, anche a livello psicologico e morale. Molto comodo mettere sempre una distanza alle cose. Adesso non c’è più quel mondo, però all’epoca era un po’ disturbante. Tipo il primo disco dei Cani.
Non ti piace il primo disco de I Cani?
All’epoca mi sembrava un’operazione opaca intellettualmente. Comunque se è da quel punto di vista che descrivi le cose e poi ti distacchi e le metti un po’ alla berlina e non ti chiami molto in causa, quella è una cosa molto millennial. Quel esercizio lì lo odiavo perché lo facevo pure io.
Però è interessante vedere quel mondo da uno che non ci crede fino in fondo.
Per me gli album che ha fatto dopo sono molto più coraggiosi a livello umano, personale, pure a posteriori le cose sono talmente peggiorate che quel fastidio era naif.
Perché sono peggiorate?
Già è più complicato trovare prodotti culturali che cerchino in modo ambizioso di raccontare la realtà, però adesso mi sembra impossibile trovare quella cosa lì nella musica. Mi sembra, magari sono poco aggiornato.
Anche il livello culturale si è abbassato?
No, non penso, è cambiata la forma della cultura, meno legata alla testualità, ai libri, a una gerarchizzazione delle forme culturali. Difficile dire che c’è meno cultura, è proprio da stronzi, è una cosa troppo vaga da dire. La cultura a me ha formato in un modo in cui non ha formato te, per esempio la mia generazione è stata l’ultima che ha avuto una venerazione per il mondo librario in modo anche ingenuo. Non credo che sia scomparsa quella cosa, però secondo me si è meno ingenui. La mia generazione era un po’ più rincoglionita nel rapporto con la cultura.
Lo è ancora?
Sì alcune cosa sì, ma in generale no non direi. C’è stata una grande disillusione su molte cose, una presa di coscienza amara, tra i 20 e i 30: un gran bagno di realtà.
Hai letto l’articolo di Alice Oliveri su Rivista Studio a proposito di Edoardo Prati?
Sì.
Che ne pensi?
L’articolo parte dall’intuizione che Prati è una figura conciliativa per il conflitto generazionale, perché Prati si veste da vecchio, parla come un vecchio, ascolta Lucio Dalla, Fabrizio De Andrè quindi è rassicurante perché sembra voler dire che la cultura vecchia ancora resiste. Poi l’articolo ha una voce e un timbro da Vice, da mia generazione. Ognuno ha i suoi gusti su quello stile lì, magari è uno stile un po’ stanco oppure lo puoi trovare ancora brillante. Su Prati la penso abbastanza come l’articolo, poi, come dire, non è un punto di vista estremo, è una cosa comune nella nostra bolla pensarla così. Non è geniale però gli articoli servono anche a dire questo, io quella cosa lì non l’ho trovata da nessuna parte.
Perché serve che venga scritta? Perché non basta dirselo?
Perché quel punto di vista lì è largamente condiviso nella nostra bolla, ma fuori non lo è. Non è egemonico. Quel punto di vista provocatorio, corrosivo, che ha dato fastidio anche a Prati, ha colto il suo scopo: quell’articolo lì aveva bisogno di essere scritto. È stato fatto coi tempo giusti e in Italia servirebbe proprio un bel profilo su Edoardo Prati, è uscito un articolo di aggregazione del Post, in pieno stile Post, che ha detto una serie di informazioni su Prati in tono molto neutro, che ho apprezzato, che citava l’articolo di Oliveri. Il fatto che abbia bucato la bolla, si vede dall’articolo parassitario del Post. Si vede il punto di vista anche del post tra le righe. In Italia si fanno troppi pochi profili e quello tentava di farlo quindi mi è piaciuto perchè è interessante, alle persone interessa questa cosa. Andrebbero fatti più pezzi su figure come Prati. Poi lui è pazzesco. È vero che è un cosplayer ma è di più, è un avatar, è un contenitore vuoto riempito dagli altri.
Però se uno inizia a leggere per Prati va bene, il problema è che lui viene trattato come Pasolini nel 1973.
È vero, comunque Prati ti dice che la cultura è importante, che i libri sono importanti. Non è nocivo al 100% come personaggio, forse il fatto che è innocuo è nocivo.
È peggio la cultura surgelata di Prati o quella della nostra bolla da ristorante tre stelle Michelin?
Non dovrebbe essere elitaria, ma è difficile trovare un punto di equilibrio, tra essere alla portata e non essere superficiali. Prima abbiamo citato Vice, che voleva stare con i piedi in mille scarpe, né l’ESI né Bottura, era l’apericena, qualcosa da mangiare facilmente con sapori che rimangono più del surgelato, spingeva cose anche in modo disonesto per renderle un po’ cool. Vice comunque parlava di sottoculture ma puntava a fare grandi numeri. L’articolo di Oliveri è un po’ così. Ha un tono di voce giusto per stare in mezzo.
Anche Dude Magazine non tentava di fare questa operazione?
Sì, ma era meno legato alla sessualità, alle droghe, a tutto ciò che era edgy. Sicuramente, faceva parte di un mondo di riviste di cui Vice era capostipite.
Hai citato Una cosa divertente che non farò mai più come libro che ti ha formato, ti piaceva Wallace perché parlava di qualcosa di lontano o di vicino?
Mi affascinava il tono, poi io non vorrei mai scrivere come lui, non leggo Wallace da un sacco, perché è una scrittura con cui non vorrei avere a che fare personalmente. C’è il rischio che entri tra le dita, ma quel punto di vista era molto calato nella realtà, molto intellettuale ma aveva anche una strana colloquialità. Una grande ironia con una pretesa a grande letterarietà. Quella cosa era affascinante, io pensavo prima di Wallace che la letteratura e la filosofia fossero distanti, una nella realtà, l’altra nelle idee. Il mondo intelletuale è per forza triste e sgradevole, invece Wallace era molto accattivante con una forma che mi piaceva. Ma la società che raccontava era completamente diversa da quella che vivevo io, era come vedere Tiger King, nulla è relatable.
Quando hai iniziato a scrivere sentivi l’esigenza di raccontare la tua esperienza nel mondo? O volevo solo inserirti all’interno della cultura?
No no tantissimo, certo. Avevo un grande desiderio di raccontare che però è un po’ cambiato nel tempo, prima scrivevo con un punto di vista più evidente, poi sono cambiate le cose che mi interessavano. Ora mi interessa ciò che interessa alle persone, se scrivi in modo interessante di cose che interessano alle persone è la cosa che dovresti fare, è un modo giusto di fare intervento culturale.
Però prima c’è comunque un tuo interesse?
A me interessa quello che interessa ai miei lettori. È proprio raro che io scrivo qualcosa che riguarda qualcosa verso cui provo una idiosincrasia, che è solo mio. Qualche mese fa ho scritto di un giocatore norvegese di 18 anni, una mia passione, ma il resto del tempo cerco di…
Eclissarti?
No, eclissarmi. No.
Di intercettare le esigenze del tuo pubblico?
Io non ho la spinta da scrittore, non potrei mai scrivere di una cosa solo mia. Per esempio, recentemente ho letto Les Bénévoles di Littell e mi è interessata un sacco quella roba lì, il nazismo mi interessa un sacco. Ma non ne scriverei mai.
Perché?
Non è il mio lavoro, la mia penna, il mio autore, non penso di poter fare un intervento.
Ecco perché Daniele è l’unico che scrive di sé dentro l’Ultimo Uomo.
Tra noi quattro, forse. Io non potrei mai fare una rubrica sulle mie partite di calciotto.
Non hai mai avuto interesse a raccontarti?
Penso sia una questione un po’ di gusto, di ciò che ti piace fare e questo si forma anche in quello che sei bravo a fare. Poi io scrivo anche cose personali, ho scritto di recente un racconto per una rivista di vini sul rapporto tra me e mio padre, una cosa molto personale. Non è che sono completamente escluse, però è una tantum, per me scrivere quotidianamente è pensare a cosa interessa alle persone, ma non è che sono una vaso vuoto, comunque dirigo io, mi sembra di avere un punto di vista consolidato su vari argomenti.
Non scriveresti mai un romanzo?
No, perché non sono capace. Non mi interessa. Scrivo anche dei racconti di fiction, ma non mi viene bene.
Quindi solo quello che ti viene bene?
Certo, io vengo pagato per fare le cose, quindi mi responsabilizzo su quello che scrivo.
Un mio capo ai tempi disse questa cosa, che ho trovato molto violenta e problematica, ma con un fondo di verità: “non è che si può scrivere di tutte le cose che ci piacciono”. È così.
Perché no?
Il mio punto di vista sul nazismo non è interessante, per esempio. Ma neanche una recensione di quel libro obiettivamente.
Perché no? Se Lucy ti chiede di fare una recensione dici di no?
Devo essere sicuro sull’argomento per potermelo smazzare anche in meno tempo, per scrivere un articolo di sport ci metto mezza giornata, uno di letteratura anche una settimana, ho una settimana per scriverlo? ho qualcosa da dire? posso dire qualcosa di interessante? se tutte le caselle sono segnate allora sì lo faccio.
Però così è una dittatura delle cose-fatte-bene à la Post.
Eh sì, comunque un mio articolo, toglie spazio e toglie soldi, se devo scrivere le cazzate…
Però non lo togli a nessuno lo spazio.
Non è vero, non è vero. Non è che Michele Serra non toglie spazio a qualcuno, l’Amaca toglie spazio.
Però tu non sei Michele Serra, se fai un articolo online su Lucy non stai togliendo spazio a nessuno.
Però c’è gente più brava di me, più capace, già le riviste di cultura sono due tre, quante sono? quante sono che pagano? se mi metto a scrivere pure io sulla letteratura, chi paga gli altri. Non mi prendo una rubrica di cultura.
Però la cosa bella dei blog degli anni ‘10 era proprio questa voglia di scrivere anche merda, fare voli pindarici, provare senza per forza essere bloccati in questa voglia di fare le cose sempre con estremo criterio.
Sono d’accordo, sono fan della creatività dirompente, se io voglio mettermi a dipingere, mi metto a dipingere. Io scrivevo poesie quando avevo vent’anni, magari lo voglio fare anche adesso. Però il contesto è cambiato. I soldi.osno pochi, non c’è spazio. L’articolo sul vino l’ho fatto per un mio amico, per una rivista fatta molto bene.
Però mi piaceva l’idea, lo scambio, il rapporto umano di cui si nutre la cultura, ma con queste premesse lo faccio, anche se so meno di vino che di nazismo. Però c’è uno spazio legittimato da rapporti specifici che mi permette di farlo serenamente. Se io adesso volessi scrivere di Adolescence, non lo farei. Non tocca a me farlo. Non sono proprio io, non è la mia cosa, per me questo è naturale. Se io fossi genitore e l’avessi visto e magari mi avesse scosso qualcosa, allora magari lo facevo. Non devo avere un PhD in serie tv per scrivere di serie tv, però bisogna un po’ limitarsi.
Questo però è quello che mi ha più deluso di voi [dell’Ultimo Uomo] che, a volte, spero ci sia un vostro intervento e invece tutto tace. Per questo Daniele mi dà così tanta soddisfazione come figura culturale, mentre Marco molto meno, perché è più misterioso, epicureo, nascosto. Però magari io ho un rapporto parasociale con voi. Anche se gli intellettuali che ammiriamo del Novecento e dell’Ottocento scrivevano su TUTTO.
No, no ma la mia non è una regola, parlo per me. Una versione ideale di me stesso è scrivere una cosa al giorno di sport, io penso di avere tantissime cose da dire sullo sport. per scrivere così’ tanto serve tanta energia, serve che tu spendi tutte le tue energie verso quella cosa lì e non posso più pensare a trovare un punto di vista interessante verso Adolescence, ma devo trovarlo verso Antonio Conte.
Perché lo sport e non la letteratura, dopo aver studiato semiotica?
Perchè mi piace, mi viene facile scriverne, mi piace che sia un fenomeno popolare, mi piace la sensazione di avere un peso sul dibattito, mi piace pensare di aver detto cose originali e penso che sia una sensazione importante se scrivi di cultura e penso di averla solo nello sport, aver trovato una strada per dire qualcosa di nuovo.
Quindi c’è la voglia di arrivare a più persone possibili?
Totalmente.
Ma è un desiderio di approvazione?
Sicuramente, in parte sì. Quello fa parte di tanti scrittori. Non solo. C’è sicuramente una parte legata alla vanità, anche all’ approvazione, alla comprensione. Comunque si scrive una cosa per farla leggere alle persone e metterla nel mondo, e si spera che le persone si rivedano in quella cosa. Poi ovviamente ci sono tante persone che non si rivedono. Poi non sono uno di quelli che dice “ben venga la critica” perché mi rompe il cazzo quando vengono a criticare e dire cose cattive.
Ci stai male?
No, no. È finita quell’epoca lì.
Dopo aver assunto un’autorità nel campo dello sport, non senti un po’ di fine della spinta?
Tu mi sembri molto interessato al rapporto tra il dentro e il fuori delle strutture, tra i vari livelli della cultura. Io potrei tranquillamente scrivere dei libri di cucina in cui parlo di quanto mi piace Saul Bellow, va benissimo. Per me quello è molto più interessante di scrivere di tutto, ma cercare di mettere tutto in una cosa. La cultura è un organismo, è un ecosistema, si nutre di cose di segno diverso, se scrivi di sport non scrivi solo di sport, non mi sento esaurito perché sento di mettere tante cose dentro le cose che scrivo, poi non c’è in ogni pezzo un microcosmo incredibile, ma dentro la singola cosa ci metti sempre la tua cifra culturale. A me piace la ripetizione artistica, il perfezionamento, quello che per quindici anni ha tagliato il salmone, Morandi ha dipinto bottiglie per 50 anni, ma non pensi mai che palle ste bottiglie, sei una bestia se pensi così. Ti ho deluso? Perché a te piace l’intellettuale eclettico?
L’intellettuale rinascimentale mi piace molto, sì. Se io leggo qualcosa di uno che è conosciuto solo perché dipinge mi aggiunge un layer molto interessante.
Quando facevo semiotica mi piaceva questa idea qui, ti costruisci la griglia come gli strutturalisti e scrivi di tutto, ti fai il tuo sistema generativo e puoi tirarci fuori pure il senso della pastasciutta. Oggi come la fai questa cosa? È una questione industriale.
Ma se tu sei innamorato di una persona, non ti viene voglia di cristallizzare la tua esperienza? Non senti il desiderio di fare giustizia alla vita?
Concretamente, con che scrittura? Cosa dovrei scrivere? In che modo?
Non lo so.
Questa è la domanda.
Un romanzo, una raccolta di storie, dei profili. Io, per esempio, queste interviste le sto facendo perché voglio ricordarmi quanto ero ossessionato dall’Ultimo Uomo, tanto che li ho intervistati tutti.
C’è un processo molto pratico nel cristallizzare, nel fissare il tuo rapporto con noi. Se tu vuoi fissare i tuoi anni all’università, che fai?
Ci scrivi un libro.
Un libro come?
Un romanzo.
Bene, quindi scriverai un libro sui tuoi anni all’università?
No, è troppo autoreferenziale.
Quindi? Cosa farai?
Mi piacerebbe fare un libro dove il mio io è il più distante possibile.
Vedi che stiamo arrivando allo stesso punto.
Certo, però tu hai abdicato da quel aspetto culturale lì.
Dipende da come la vedi, da quale grado, io penso che tutte le mie esperienze finiscano nei miei pezzi, lascio qui e lì pezzi della mia esperienza, questo è il mio modo. C’è tutta una parte di scrittura non pubblica che fa parte di una spinta creativa. Ma non ho abdicato nel senso che non penso che ci siano delle esperienze che finiscano completamente fuori da ciò che scrivo. Ma il rapporto con la cultura è un’altra cosa, tu che dici che è troppo referenziale è un riflesso a un determinato modo di porsi, è come io che dico che non voglio scrivere di Adolescence, ma non è che mi sto castrando su qualcosa.
Mi piaceva l’autobiografia di Nabokov.
E non vuoi legarti a quel libro lì?
Che ne faccio? Dovrei scrivere un pezzo su un libro uscito 25 anni fa?
Sì.
Ma dove? Dove dovrei farlo? Recentemente ho letto un sacco di libro sulla Pianura Padana, ho letto Celati, Belpoliti, Guido Guidi. Dove scrivi un pezzo su sta cosa?
Non è che non hai quel esigenza, vuol dire che non c’è il posto.
Certo, certo. Ma io lavoro, non ho tempo, scrivo perché devo guadagnarmi da vivere. Se lavoravo in albergo com’era il mio destino, la scrittura sarebbe rimasta un hobby. Ma è tutto insieme, certo che non c’è un posto. Era difficile pure per noi che c’erano pochi posti ora che ne sono molti meno, per chi cazzo scrivo?
Non mi aspettavo che fossi così.
Così come?
Che accettassi di buon grado lo status quo.
È questa la disillusione.
Eh allora vedi che questo è il vero problema della vostra generazione.
Io faccio il mio. Io, Daniele, Marco, Dario abbiamo questo spazio importante in cui vieni pagato per scrivere, combatto, facendo il mio, la mia rivista. A me fare le riviste è la cosa che mi piace di più, prendere la gente a scrivere, pensare a un piano editoriale, ma non c’ho i soldi. Chi me li dà i soldi?
Eni Plenitude.
Stavo per aprire una rivista sugli animali, ma poi abbiamo iniziato a lavorare tutti e non è successo niente, non c’hai i soldi come fai?
Sento proprio una mancanza di alleanza tra la nostra generazione e la vostra.
Ma perché?
Io sento una rabbia nei confronti del mondo che non può esaurirsi nel fare pace che non ci sono spazi.
Ma tu devi prenderti tutti gli spazi che riesci, scrivere gratis finché non diventa il tuo lavoro, ma c’è sempre un problema di spazi.
E non vedi un miglioramento di condizione? Anche nella paga?
Sì, sì, speriamo migliori UU, che migliori la situazione in generale, certo non se continuiamo a lavorare per gli altri. Mi sembra che sia tutto molto accettato adesso, lavorare per l’algoritmo è accettato, questo soprattutto per la tua generazione.
È tutto intrattenimento quello che fai per l’algoritmo.
Oddio, questo è un modo un po’ radicale di vederla, di certo non fa bene all’industria, non è un circolo virtuoso e nessuno ne parla. Ci va benissimo che il contenuto ormai è solo su Youtube e Instagram, ci va da Dio. Il rapporto tra il tuo contenuto e come monetizzarlo mi sembra che abbiamo completamente mollato gli romaggi su quella cosa lì. Questo è il nodo, questa è la domanda. Bisognerebbe fare in modo di nutrire l’algoritmo il meno possibile, per me è la strategia utopica del ladro: rubare gli aspetti positivi e lasciare il resto, per alimentare un sistema diverso.
Perché?
Il concetto è sempre quello poi: il rapporto coi social. È un meccanismo complicato quello tra internet e gli autori. Metti conto che c’è un giornalista molto bravo. Molto furbo, molto trendy per i social che fa i suoi video su Instagram, che parla in telecamera e parla dei dazi e fa cinque stories, e lui guadagna sempre più attenzione perché è bravo ma è bravo in modo strano perché è giovanissimo ha 21 anni, è molto furbo a fare aggregazione di informazione, è un comunicatore pazzesco ma non è mai stato sul campo, la sua conoscenza viene dai giornali dalla gente sul campo, dalle persone laureate, è molto bravo a inscatolarla sui social e guadagna followers e potere e poi sono direttamente concorrenti ai giornali, da cui lui prende informazioni che vanno sul campo e che si sporcano le mani.
Che cosa dobbiamo farci a riguardo?
È un casino, è difficile colpevolizzare il singolo. Lui non è colpevole, sta cercando di farsi spazio nel mondo e ha anche la sensazione di fare informazione. Chi è che pagherà le persone per andare in Ucraina e Palestina se c’è uno che te lo rivende e fa più interazione?
Ma è un sistema che crolla su sé stesso, basta aspettare la fine.
Questi aggregatori però non stanno morendo, stanno morendo i giornali.
Sono già morti.
È un’industria molto più povera, proprio per questi poteri estrattivi che rivendono. Però quello che dovrebbero fare i giornali è non imitare, ma i giornali invece vedono come fanno cultura i divulgatori gli influencers, le pagine, poi vabbè i casi sono molto specifici, i giornali vedono il successo e dicono che dobbiamo fare come loro, ma il modo in cui fanno informazione tu non sei capace a farlo perché sei un dinosauro, non sei proprio bono.
E tutto si impoverisce, perché credo che tu non possa fare informazione attraverso i social, ma ne puoi fare davvero poca, perché poi diventa intrattenimento, brain rot, processata. Se tu provi a scimmiottare quella cosa lì, quella cosa lì è già gratis perché dovrei pagare te giornale per averla. Il fatto che sia processata arriva alle persone, ma non so se sono disposte a pagare.
Che fare?
Coltivare delle isole fuori da queste logiche.
Calvino?
Cercare di stare dentro questo mondo senza farti mangiare. Pure noi stiamo su Instagram, la soluzione non è isolarsi se non diventi ininfluente.
E tu non vuoi diventare ininfluente?
E chi vuole diventarlo?
C’è chi ha desiderio di non avere più contatto con il mondo civilizzato.
Certo. Io parlo da caporedattore di una rivista che cerca di essere sostenibile. Tutto quello che sto dicendo lo dico da questo punto vista.
Anche il tuo.
Certo, certo.
Scriverò “Emanuele Atturo: Io sono il mio lavoro”. Non mi aspettavo che tu avessi questo taglio sulla vita, mi aspettavo che fossi molto più hipsteria, molto più punk e invece sei molto materialista, non idealista.
Certo, per me la questione è stare in piedi, sono i soldi. se Sai quanta gente vorrei che scrivesse per noi? Noi non pubblichiamo quattro articoli al giorno non perché non vogliamo ma non abbiamo soldi. Hai un budget. Questo taglia un sacco di persone bravissime che potrebbero farne il loro lavoro, ma non possono. Non è sostenibile. Scrive su UU ma poi fa altre cose, molta gente di questi vorrebbe scrivere per vivere. Io continuamente sego i pezzi delle persone. Il mio obiettivo è trovare i soldi: 8,9,10 in modo lineare in modo tale che io posso guadagnare più soldi, Marco guadagna più soldi, poi non è compito di chiunque nella cultura ma è il mio, cercare di mandare avanti una rivista di sport con altre tre persone.
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