Archivio – Editoriale

Archivio – Editoriale
Budapest, Museo Casa del terrore (Terror Háza), 2022. Un carro armato T-54 sovietico ricorda la repressione da parte dell’URSS della rivoluzione ungherese del 1956. Dietro, i volti delle vittime di quei 20 giorni di Primavera di Budapest. Foto di Edoardo Vezzi.
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Ho passato un anno e mezzo della mia vita a guardare materiale d’archivio, soprattutto cinegiornali degli anni ’40. L’idea di accumulo e di schematizzazione non mi si era mai manifestata così chiara come spulciando l’Archivio Luce, il più grande e il più antico archivio storico cinematografico di Italia. All’inizio le mie ricerche erano precise, cadenzate da parole chiave specifiche: secondo dopoguerra, infanzia, ricostruzione, Roma. Stavo lavorando a un documentario d’archivio sulle tecniche surrealiste utilizzate da Gianni Rodari per raccontare una storia. Volevo raccontare un mondo in costruzione: l’incontro tra cose esistenti che si sarebbero trasformate in cose che ancora non esistevano. Cercavo un archivio sentimentale: non mi interessavano eventi storici o politici specifici, più che altro una grana nelle pellicola che mi suscitasse qualcosa (una nostalgia? un desiderio? ancora non so bene), cercavo immagini di una quotidianità lontana dalla mia che però potessero in qualche modo parlarmi. 

L’archivio digitale, però, si è rivelato solo apparentemente schematico, perché molto spesso quando digitavo la parola bambini non mi apparivano bambini e la stessa cosa succedeva con altre parole. L’archivio era diventato una sorta di cervello indipendente che non riuscivo a decifrare: dove erano finiti tutti i bambini degli anni ‘40? e i mangiafuochi per le strade di Roma, come li avrei trovati? Così ho iniziato a giocare a nascondino con l’archivio e le immagini sono magicamente apparse. Ho capito che per raccontare le tecniche surrealiste di Gianni Rodari, i suoi incontri immaginifici tra parole lontane, dovevo anche io utilizzare la stessa tecnica, non solo per cercare dentro l’archivio, ma anche per creare il mio film d’archivio. Così “l’’incontro casuale di una macchina per cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio”, per citare Lautréamont, si era manifestato nel cercare materiale in modo casuale, solamente delimitando il periodo storico. Poi una volta scelte le immagini, la tecnica surrealista dell’associazione libera si evidenziava nella giustapposizione di immagini diverse al montaggio e poi ancora nella non corrispondenza tra la voce che si ascoltava e le immagini che si vedevano. L’idea era un continuo spaesamento. Il cortometraggio parla di salmoni e fa vedere bambini, parla di oblò e mostra pubblicità di creme anni ‘50, racconta di bambini che ascoltano fiabe mentre mostra bambini che vanno in fabbrica, anche se noi non lo sappiamo. Basta eliminare la voce fuori campo o tagliare prima dell’arrivo in fabbrica, possiamo riscrivere ogni cosa. 

Le immagini di rimontaggio d’archivio traggono in inganno, sono continue decontestualizzazioni: se vedo un bambino giocare con una bambola e poi porgerla alla camera, e poi vedo una donna che ha una bambola in mano, penserò subito che gliela avrà data quella bambina, invece attraverso il montaggio possiamo mettere in relazione due persone che non si sono mai incontrate. Le immagini così, continuamente risemantizzate, -attraverso il montaggio, il suono, le distorsioni, nuove voci-, sono assemblabili all’infinito. Come scrive Jean-Luc Godard, “fare un film utilizzando immagini di repertorio non significa carpire la vita che dorme nei fortini delle cineteche, ma spogliare la realtà della sua apparenza, ridandole l’aspetto grezzo che basta a se stessa e cercando al contempo l’aspetto in cui essa avrà termine”. Godard stesso cerca di esplorare il rimontaggio d’archivio nel suo progetto oscuro Le Histoire(s) du cinéma, un film lungo quattro ore, pensato e lavorato in dieci anni, in cui non si racconta la storia del cinema ma si crea una genealogia interna al cinema, si riappropria di alcuni materiali cinematografici e li fa dialogare fra loro in maniera inedita. Una continua riscrittura. Da qui parte la nuova riflessione di Stanca, da una possibile e continua riscrittura di quello che c’è. Il filo che lega Godard al primo pezzo è il rapporto quasi ossessivo con l’immagine e con le sue capacità semantiche. 

Marco Arienti nel suo pezzo La tv-archivio di Schegge e Blob ricostruisce l’idea autoriale di archivio di enrico ghezzi, filosofo e cinefilo. Per ghezzi: “l’archivio diventa materia viva inscritta nel linguaggio stesso della televisione, e parte dell’esperienza che lo spettatore fa di quel medium”. Schegge e Blob saranno due programmi Rai, ormai cult, che: “racconteranno questa materia viva in due modi opposti: Schegge proponeva un’attualizzazione dei materiali di repertorio, riportando in onda frammenti di archivio nel flusso della televisione del presente; dall’altra, Blob tenta una “repertorizzazione” o archiviazione istantanea della televisione del presente”.

L’archivio non è solo pratica semiotica ma è anche un luogo fisico di ricerca e catalogazione. Un esempio è il Centro di Documentazione Aldo Mieli di Carrara, fondato nel 2021 da Luca Locati Luciani: un archivio queer che si può definire come anti-archivio. Milo Lamanna ha intervistato Luciani per Stanca: “Il Centro di Documentazione rispecchia infatti una necessaria ambivalenza tra la sfera istituzionale e quella emotiva e affettiva. L’archivio raccoglie sia documenti ufficiali che materiale “effimero”. Gli oggetti di uso quotidiano e di “scarso valore” costituiscono la parte più importante dell’archivio queer: se la queerness è storicamente esistita come un “accenno”, codificato in modo da poter essere comprensibile e accessibile solo da chi aveva accesso agli stessi codici e linguaggi, la raccolta di ephemera ci permette di decodificare istanze e vite queer del passato, permettendoci di ricostruire una storia queer al di fuori della narrativa normativa”. 

Archivi del contemporaneo è un festival che si svolgerà in Lombardia per tutto il mese di giugno con l’obiettivo di mettere in relazione musei e materiali contenuti negli archivi. Vittoria Brachi prende in esame l’archivio scelto per il Museo MA*GA e si chiede: “quanto è importante effettivamente l’archiviazione del lavoro di un artista? Quali sono gli sviluppi successivi all’archiviazione? In che modo è possibile fruire dell’archivio, considerando, come detto all’interno del libro Archivi impossibili (Baldacci) e di Introduzione all’Archivistica (Romiti), i limiti che sono imposti alla sua consultazione dalla legge? Quali sono le conseguenze della sua digitalizzazione, se è stata operata?” 

Archivio è prima di tutto immagazzinazione, una raccolta di informazioni. Francesca Martelli nel suo pezzo ci racconta che esiste un modo non convenzionale per utilizzare il DNA, un modo per sfruttare proprio le sue capacità archivistiche per qualcosa di nuovo.  Martelli scrive che “l’essere umano desidera appropriarsi della capacità codificante e archiviante del DNA, molecola estremamente stabile e di dimensioni ridotte rispetto alla quantità di informazioni che è in grado di immagazzinare, per creare una alternativa ai database digitali e ad altre tipologie di archivi a rischio di obsolescenza o di deperibilità”. 

Il DNA è anche al centro del pezzo di Giovanni Padua, che parte dalla teoria J. G. Ballard secondo cui il genoma umano e proprio il DNA è “una banca di memoria transorganica e la spina dorsale come reperto fossile”. Continua Padua: “è come se la civiltà coltivasse un inconscio al suo esterno, la realtà, e venisse a sua volta riprogrammata da questo inconscio ectopico.” Questa teoria ballardiana e altre idee psicotiche contenute nei testi The voices of time (1960) e in Drowned World (1962) sono riuscite a penetrare nella letteratura scientifica, come per esempio in alcune proposte di fisica speculative sulla panspermia guidata, ovvero l’idea che la vita sia stata coltivata, a cura di Orson e Crick. 

Se Ballard speculava sul DNA come archivio transorganico, Lovecraft crea un vero e proprio archivio dell’orrore cosmico. Franco Cimei ci racconta come lo scrittore ci ha lasciato una vera e propria mitologia letteraria: fatta di mostri, divinità, città sepolte e civiltà aliene, un immaginario alimentabile anche dopo la sua morte. Cimei, infatti, ci ricorda che Lovecraft: “non ha prodotto disposizioni precise per la tutela dei diritti delle sue opere dopo la morte e questo ha condotto a diverse dispute, fino a una situazione di ambiguità burocratica che porta a considerare ancora oggi tutta la sua produzione letteraria come di pubblico dominio, quindi non sottoposta a nessuna restrizione particolare nell’uso, nella riproduzione e nella modifica. Quello di Lovecraft è una sorta di immenso archivio open-source che ha posto le basi per la creazione di innumerevoli film, libri, giochi di ruolo, videogiochi e altre forme transmediali, dando vita a una mitologia reale perché autosufficiente, in continua espansione e liberamente accessibile da chiunque”.

Federica Ranocchia conclude questo mese di Stanca dedicato all’archivio e lo fa ponendosi una domanda: “quanto effettivamente siamo capaci di comprendere il qui e ora attraverso il paragone con un oggetto memorizzato? Daniel Kahneman suggerisce che non lo siamo affatto, anzi, spesso la memoria offusca la realtà esperienziale impedendoci di avere cognizione della realtà fisica perché ci spostiamo nell’ambito della realtà plausibilmente narrabile (cioè quella che deduciamo attraverso la logica).”  Ranocchia ci ricorda che: “tutto questo ha a che vedere con come funziona il nostro cervello e con la contraddizione de facto tra esperienza, ricordo dell’esperienza e memoria intesa come prodotto culturale e sociale”.  La memoria è quindi un archivio sì, ma forse meno affidabile di quanto pensiamo.

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