I pomeriggi più classici a casa mia, quando facevamo le medie, si componevano così: un succo arancia, carota e limone, un documentario di Herzog senza sottotitoli e mia madre che mi spiega perché procreare è il servizio minimo che dovrei fare alla mia casata. Io, un ragazzino di tredici anni, pensavo soltanto a due cose: il cambio dollaro-yuan e ai  sogni ricorrenti in cui mia madre veniva massacrata da ninja mascherati casertani armati di bastoni di gomma al grido: “Nino Frassica coglione!”. 

Comunque, come tutte le egemonie, anche quella di mia madre ha funzionato. Ora ho in mente solo la procreazione e, qualche volta, i verdi prati dell’Irlanda dove le corporate taxes (in gaelico mi sfugge, ma solo perché sono di fretta) sono molto basse. 

Per questo mi sono messo a leggere in giro un po’ di blog su come diventare attraente, insomma un procreatore attivo, il massimo riproduttore del mondo, una batteria da figli, una mitragliatrice da prole. Un blog, www.ilgladiatoredoratochenonhapauradelledonneneanchepersbaglioehfiguratiseh.com, mi diceva che è essenziale avere «uno sperma forte e sano». Io, vivendo in un ambiente in cui si parla, nella maggiore bassezza, dell’omosessualità presunta di Ugo La Malfa, ero estraneo alla parola “sperma”. Così ho chiesto a un mio amico notaio, chiedo quasi sempre consigli ai notai, perché per il lavoro che fanno, sono sempre con la mano sul polso dello zeitgeist. Mi ha detto che lo sa un signore al Fanfulla. Fanfulla? Fanfulla? Dove l’avevo già sentito? Ma certo! Era la parola con accento sull’ultima sillaba che diceva quel mio carissimo amico, il conte Mariolino Maffeo Casagrandi, per dire alla madre single che occupava un quarto del suo appartamento a viale Libia che avrebbe aumentato il suo affitto del 50%. Che risate quel giorno, certo, la signora piangeva molto, ma forse non capiva le nostre acute battute. Credo sia andata a vivere in Germania, adesso. Che scelta borghese. 

Così mi dirigo in questo posto familiare e qui ritrovo mio zio Antonio che, per nevrosi, aveva deciso di uccidere Umberto Eco. Il 16 febbraio 2016 è finita la sua vita e ora non sa che farne della sua anti-anti-libreria. Occupa milleseicento metri quadrati. Mi indica lui il messere che conosce il significato della parola “sperma”. È seduto in un angolo e ha aperto quella che, per me, è un’applicazione di scommesse sportive. Ogni volta che clicca un’icona sullo schermo, enfaticamente grida: «Si sburra! Oggi si sburra!». 

Io, che mi sento come il capitano James Cook, decido di porre la domanda fatidica:«Mi perdoni, cosa si sburrerebbe?» I suoi occhi si fanno di vetro e mi fissano, mentre un sorriso demoniaco si dipinge sul suo volto silvano. «Si sburra, si sburra, oggi si sburra, si sburrraaaaaaaaa, come si sburraaaaaa ogggi, mamma mia». La risata successiva riempie il locale di giubilo. Io penso tra me e me che il signore deve essere un grande studioso di Beckett. 

Così, con lo stesso movimento con cui aveva alzato gli occhi, li fa ricadere sullo schermo e il sorriso scompare con la concentrazione. 

Mio zio, attirato dal riso, mi si avvicina e  dice:«Quello è il braccio destro di Ursula Von Der Leyen». 

Mai sentita prima, dev’essere nostra vicina di casa. 

Con questo eureka, dichiaro finita la mia ricerca  del significato della parola “sperma”, che in questo momento si può riassumere con un concetto variabile, dalla disperazione umana più completa al tripudio farsesco. Chissà se ci sono vicino. 

Sconfortato, decido di seguire il punto numero due del blog:

Imparare a suonare la chitarra. 

Mia madre, oltre alla procreazione, aveva un’altra fissa: i miei figli devono saper suonare uno strumento, diceva mentre la nostra governante anneggava il quinto gatto del mese perché aveva pisciato dentro un uovo Fabergè pieno di sabbia. 

Mio fratello Arturo ha imparato l’arpa, ogni Natale decide di suonarcela per un set privato di cinque ore. La nostra cara nonna ci ha lasciato proprio a metà di uno di questi prodigi, l’abbiamo lasciata lì per le restanti quattro ore e mezza perché ci sembrava poetico morire con Thunderstruck in sottofondo. 

Io, dal canto mio, suono il corno francese. Ma ora è il momento di modernizzarsi, mi son detto, la teoria ce l’ho, mi basterà fare un po’ di pratica. 

Mi sbagliavo. Quanto è stato angusto imparare questo mandolino glorificato! 

Così, per darmi coraggio, ho deciso di andare a vedere qualcuno che la suoni per bene. Potevo andare a vedere in qualche sala concerto, ma non le sopporto perché proprio in una di queste sulla quinta Avenue incontrai un uomo che mi disse che era andato a letto con la mia ex-moglie, io non sapevo chi fosse l’uomo e chi gli avesse detto chi ero io. Aveva una banana in mano e i pantaloni abbassati, un barbone di fianco a me mi dissi in ungherese, che al tempo parlavo fluentemente:«Ez Herbert Von Karajan mester». 

Così sono andato al cinema a vedere il nuovo film su Bob Dylan, A complete unknown. Sul signor Dylan so poco, mi viene in mente solo un Dylan Thomas, poeta che piaceva molto a mio padre che ci voleva spronare con il fatidico rage, rage against the dying of the light quando esitavamo a massacrare di botte l’anatra che lui aveva sapientemente colpito con il cannone di famiglia. 

[Nota di editore: Questa è la lettera bagnaticcia con titolo annesso che mi è pervenuta con la recensione che pubblichiamo. Ci sembrava necessario, come redazione, fornire del contesto sull’autore.]

La grazia con cui si muovono le dita di Dylan sulle corde della chitarra sembra volerti invitare a vivere quei ruggenti anni sessanta, che tanto hanno cambiato: un decennio in cui tutti potevano permettersi un frigorifero, una macchina, la libertà di essere ciò che si è, quando si respirava ancora il sapore del sogno americano, credevamo ancora nella possibilità di un uomo di fare battute e ridere assieme davanti a un bel Madeira. 

Il film segue la storia del musicista da quando arriva diciannovenne a New York (la Grande Mela!), era il 1961 e in mano aveva solo una chitarra. L’età dell’incoscienza, delle decisioni prese senza pensarci troppo, quanta nostalgia di quando volavamo in Economy per andare a Bali.

Arrivato in questa metropoli moderna, il regista James Managold ce la mostra in tutta la sua bellezza, asettica, statica, come un modellino Lego (trademark) in cui il protagonista si aggira come una figura simile a Cristo in attesa di folgorare tutti con la propria musica, l’altra vera protagonista di questo mondo creativo. 

Infatti, la prima cosa che fa è andare a cercare di impressionare il suo eroe Woody Guthrie, cantante folk. Io lo conoscevo solo per quello sticker di cattivo gusto This machine kills fascists, tutto questo livore deve averlo costretto all’incomunicabilità e alla semovenza. Mai incontrare i propri eroi, avrebbero dovuto dire anche a me quando ho cercato di incontrare Mario Draghi alla fiera del caviale al tartufo di BlackRock in quel bellissimo casale comprato da una piccola famiglia di Alba e poi ristrutturato. Pensava fossi un giornalista, sigh. 

Dopo Guthrie incontra anche il personaggio, devo dire, più fastidioso del film, un certo Pete Seeger, un comunista vecchio stampo di quelli che mio nonno ci raccontava che aveva ucciso in Argentina. Seeger, dopo averlo sentito suonare, lo convince a esibirsi in un bellissimo locale del Greenwich Village (posto dove ho preso l’Airbnb l’ultima volta che sono volato negli States!), gli offre persino ospitalità, senza neanche conoscere il suo lignaggio, come direbbe sempre mio nonno, que barbaridad

La carriera del giovane Bobby Dylan da qui in poi decolla: etichette discografiche con produttori neri, meglio produttori che pantere nere di certo, concerti in quei villaggetti graziosissimi sulla costa Est americana, che un po’ ricordano i versi di Whitman, Emerson e Hawthorne. 

Proprio qui, a Newport, cittadina dove io e la mia quarta moglie ormai scomparsa (un brutto contrasto in area di rigore), Susannetta Boncompagni Ludovisi, siamo andati in viaggio per festeggiare il compleanno di Leopoldo del Belgio, si consumano tutti i dolori del giovane Robert Bobbie Bob. 

Prima con canzuncielle un po’ così, che sarebbero state ottime interpretate dalla prima Rita Pavone, si apre la strada nel mondo dei capelloni come Johnny Depp, come non ricordare quella sua performance struggente per George Floyd con The Times They Are A-Changing

Con questa musica così impegnata, ma non troppo, che sentiamo uscire dalle labbra dello stesso attore senza artifici, Chalamet travestito da Dylan riesce, finalmente, a diventare un tombeur de femmes. E come ci divertiamo noi del pubblico quando si atteggia da Dio e tratta male queste due signorine. Splendide, devo dire. Io, però, ho una preferenza per Monica Barbaro, che interpreta quella noiosona di Joan Baez, senza però complicare troppo il personaggio, perché quando qualcosa va ammirato, la complessità non è di casa. Elle Fanning mi piace di meno, un po’ anemica, senza quel quid delle donne mediterranee così passionali, quanto ci fanno sognare, però poi dopo l’amplesso come sono, direbbe mio zio, cozze e giù risate al tavolo da pranzo. Insomma, non posso dire di non aver invidiato il signor Chalamet, versione Dylan, che poteva saltare da un letto all’altro e godere della freschezza della carne di queste due splendide donne. 

Dopo tutto, si sa che in una stanza con un uomo carismatico, le donne un po’ si appassiscono ed è quello che fanno in questo film: sempre arrabbiate e contrariate perché il nostro protagonista decide di tradirle o dimenticarsi delle loro pallose interpretazioni alla chitarra o battaglie inutili per i diritti civili. 

Possiamo dircelo chiaramente, il talento di Joan Baez poteva appartenere a uno stornello qualsiasi che disturba i turisti su quella meravigliosa arteria che è via Nazionale. 

Come Joan Clarke per Alan Turing, Nancy Davis per Ronald Reagan, Asia Argento per Morgan, a volte all’uomo di talento serve una sponda su cui sbattere per raddrizzarsi. 

Sylvie Russo e Joan Baez servono proprio a questo: anche quando Bob Dylan decide di non cantare sempre le solite quattro canzoni perché impegnato a intuire l’eterno, è proprio la nostra grande cantautrice a cantare al posto suo, niente scomodi rimborsi da elargire. 

È importante mettere nero su bianco che le figure importanti del tempo hanno bisogno di persone meno talentuose e noiose di fianco per uscire sulla distanza. Bravo Managold! 

Tutto questo viaggio interiore nel mistero del signor Dylan sono riusciti a farlo grazie a delle interpretazioni piatte, senza tutta questa manfrina di adesso che bisogna per forza creare dei personaggi in tre dimensioni, signori della sinistra, lo schermo è in 2D non so se ve ne siete accorti. 

Così, dopo un po’ di sana politica cantata, ci si vuole divertire e così il signor Dylan decide di flirtare un po’ con il fratello cattivo, un po’ pazzo del folk, il rock and roll. Decide di andare elettrico. 

Ma a quei musoni del folk non sta bene e decidono di fischiarlo proprio lì a Newport con Bob che, intanto, si è fatto un’ottima permanente che non sfigurerebbe nei salotti di via Vincenzo Monti. 

Invece io ti dico, signor Dylan, quello che ha detto Anthony Blinken, segretario di stato Usa, alla stampa mentre asfaltavano quei terroristi dei palestinesi, KEEP ON ROCKIN IN THE FREE WORLD. 

Il film si conclude elegantemente con un Bob Dylan che ripensa alle sue notti migliori con le donne e decide di fregarsene, perché tanto se la pupacchia ti ha trovato una volta, ti troverà per sempre. 

Che bello questo biopic! Diversissimo da tutti gli altri, come per esempio Lirica Ucraina, da cui me ne sono andato dieci minuti dall’inizio perché me ne aveva parlato malissimo un collega russo, Ramzan Kadyrov, che mattacchione pensavo fosse sparito, non mi scriveva da tre anni o anche The Blind Side, come ho amato quel film, quante risate ci siamo fatti, la società americana mi stupisce sempre, è veramente un sogno. 

È diverso perché le canzoni sono tante e cantante tutte dagli interpreti, peccato non aver sentito la mia canzone preferita, (Ghost) Riders in the Sky, pensate che al mio matrimonio ho deciso di entrare vestito da cowboy, in groppa a un cavallo, con questa canzone sotto. E ho inscenato un duello con l’ex-amante di mia moglie, che spasso!

Nel film si viene cullati da gentili note di chitarra e voci angeliche, mentre una brezza calda ti scalda, vieni lasciato con quel gusto del voler sapere di più, proprio all’inizio della carriera folgorante del signor Dylan, qualcuno direbbe che così non si capisce niente ma dopo tutto la vita è così, un enigma dolcemente complicato: io a tutte le feste me ne vado poco prima della torta dopo aver fatto una leggera cagata in bagno, così per lasciare un sentore della mia presenza di cui si vuole sapere di più. 

Così è stato per me con questo film, una spinta verso la conoscenza, in primis della graziosissima Monica Barbaro e poi di quel gigante della libertà che è stato Johnny Cash. 

Anche io vorrei che si facesse un biopic sulla mia vita, ma su tre anni specifici: quelli in cui la RAF mi ha rapito e poi ha chiesto il riscatto a mio padre, che ovviamente si è rifiutato di pagare. Quanto erano arrabbiati! 

[Note dell’editore: questo pezzo è stato inviato alla redazione nell’ambito della call “The Brutalist è un film sionista?”]

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