A colazione saltello distrattamente tra i pannelli aperti su Safari, con l’intenzione di chiudere quelli che reputo inutili (ovviamente non ne chiudo nessuno). Ho una sorta di ossessione per liste ed elenchi – del resto al terzo calice di vino mi piace citare i particolari più minuti del mio libro del cuore, La Vie mode d’emploi di Georges Perec, soprattutto della cantina degli Altamont dove tubetti di harissa si contendono lo spazio con vasetti di maiale tritato e cotto nello strutto e bottiglie di Beujolais; mi piace anche dire che per il mio progetto di dottorato studio la forma dell’inventario (ma questo lo dico sempre con minore certezza). Quindi, non mi tratterrò dall’enumerare alcune delle pagine aperte sullo schermo: siti e menù di diversi ristoranti milanesi; guida del 1932 dei ristoranti di Parigi dal promettente titolo Où aller? Pour bien déjeuner, pour bien dîner, pour bien souper (grazie Gallica); articolo-intervista di Literary Hub How is reviewing a Restaurant Like Reviewing a book?; indice e prime pagine (causa prezzo proibitivo) di Leftovers: Eating, Drinking and Rethink with Case Studies from Post-war French fiction; un articolo sulla linguistica applicata ai menù dal titolo geniale Linguine Franca. The language of food: a linguist reads the menu e molte altre cose sugli stessi temi.

Queste ricerche disegnano una tassonomia – altra parola chiave insieme a inventario – dei miei interessi e delle concupiscenze più dolorose che alimento e accudisco per lo più in silenzio. Le cose intorno al cibo mi ossessionano, e mi ossessionano tutte. Quella che alle persone con cui mi interfaccio sembra, in modo manifesto e naturale, la mia area di studi e di competenza, è per me una materia avviluppante e gorgogliante con cui non ho ancora capito come fare i conti, in che modo indirizzarla, come trattarla. Alcune mi interessano più di altre: la nascita e l’evoluzione del ristorante nei processi di civilizzazione, il ristorante come spazio delle relazioni, i memoir culinari e le scritture personali, il cibo nella letteratura delle migrazioni, i modi in cui il cibo viene mediato dalle immagini, le questioni intorno al corpo di chi cucina e di chi consuma, la lingua dei menù e dei ricettari.

Nella mia investigazione tortuosa di cose da leggere intorno a questi temi mi sono imbattuta in un libro sconcertante che, per indagare il rapporto tra le cose del cibo e le cose del desiderio, combina in un amalgama magmatico e rumoreggiante, una pluralità di riferimenti storici, filosofici, letterari, psicoanalitici e sociologici. Si tratta di Le corps à corps culinarie, pubblicato nel 1977 dalla sociologa francese Noëlle Châtelet, che qui riprende e sviluppa i temi del suo progetto di dottorato conseguito sotto la direzione di Gilles Deleuze. 

Quello che mi ha subito attratta del libro, titolo e copertina a parte, è che Châtelet nell’introduzione presenta subito la sua ricerca come risultato di un deragliamento: in un primo momento si sarebbe dovuta occupare, seguendo la sua formazione da sociologa, della simbologia sacra che circonda il pane nella cultura occidentale. Poi una forza improvvisa la trascina verso altri luoghi, luoghi misteriosi in cui sorgono attrazioni e repulsioni, in un avviluppamento caotico di accadimenti e di accidenti che rimandano al desiderio. Châtelet rimane avvinta in questi nuovi gorghi al punto da trascurare il progetto originario che disattende in modo corsaro; dichiara di sentirsi in trappola, di affogare in una tensione irrinunciabile che la spinge a indagare le pieghe vischiose del groviglio organico tra corpo e alimento. Il libro che ne viene fuori è una strana creatura, in cui la posizione dell’autrice è liminale, vicina a quella di un’osservatrice nascosta che spia gli incontri, sia pubblici che segreti, tra il corpo e la materia culinaria. In questo corpo a corpo, tante sono le declinazioni del cibo prese in analisi – cibo reale, cibo preparato, cibo sognato, cibo fantasmatico – assimilato, inghiottito, concupito da migliaia di corpi che Châtelet, riferendosi a fonti che vanno da Rabelais a Barthes, da Proust a Fourier, seziona, porziona, frammenta, dedicandosi a quei luoghi corporei in cui l’incontro con il cibo, e per estensione con il mondo esterno, si realizza: bocche, ventri, ani. In una perfetta aderenza, non priva di un po’ di sana ossessione, con il suo oggetto di studio, Châtelet si fa risucchiare da questo straripamento carnale e materico, spinta dal desiderio di raccontare cose che di solito non si raccontano, dall’urgenza di consegnare la parola alla realtà materiale anche con il rischio di perdersi dentro di questa. Il testo, infatti, pur avendo un taglio decisamente scientifico, non rinuncia alla soggettività dell’autrice – del resto è fertile e coeva la lezione del Barthes di Le plaisir du text – che, con una sfrontata e poco accademica prima persona singolare, riconosce l’importanza per la stesura del libro della sua stessa, personale, ossessione culinaria che tiene insieme e conferisce unità alla selva di riferimenti letterari e che si esplicita in termini puntuali e furiosi al termine dell’introduzione, dove Châtelet, afferma di rivendicare a voce alta la sua passione per il cibo, nonché il desiderio assillante di mescolarsi ai giochi del corpo e della materia.

Credo che questo testo funzioni in diversi modi. Tenendo come traccia ineludibile, sotterranea e manifesta al tempo stesso, il rapporto tra cose del cibo e cose del corpo, procede per blocchi tematici, macro capitoli che incorporano al loro interno riflessioni e spunti provenienti dalla psicoanalisi, dall’antropologia, dalla clinica, dall’analisi linguistica dei modi di dire, dal cinema e dalla letteratura. Ci sono poi le già citate intromissioni dell’autrice che, ad esempio, nel secondo capitolo introduce il tema dell’evoluzione dello spazio che la cucina occupa in una casa – questo mi ha fatto pensare all’attenzione che nei romanzi francesi si rivolge ai condomini, alle stanze, alle case, – con un racconto delle sue disavventure nella labirintica galassia del mercato immobiliare parigino. 

Un’altra possibilità di lettura, altrettanto affascinante, sarebbe quella di guardarlo come un’enciclopedia che per gettare lo sguardo su una materia così interstiziale e liminale, si serve di riferimenti e fonti altrettanti bizzarri e “marginali”, o piuttosto di prospettive e approcci idiosincratici e perturbanti. C’è sì il cibo nell’opera di Proust, ma osservato dal punto di vista delle consistenze e dei fantasmi orali che queste richiamano e sollecitano, convergendo tutti in una bocca che è al tempo stesso nutritiva e amorosa. La bocca è uno dei luoghi dell’indagine di Châtelet che ritiene gli orifizi i punti del corpo più sensibili e interessanti, quelli intorno cui succede sempre qualcosa, ma anche quelli che mettono in comunicazione il corpo e il mondo esterno. 

Tra le fonti bizzarre a cui Châtelet attinge c’è un testo davvero singolare dal titolo Manger ou les jeux et les creux du plat, opera di un misterioso Frédéric Lange, su cui non sembra esistere alcun riferimento bibliografico. Tra le cose intriganti sostenute da Lange, interessato in realtà a studiare l’evoluzione delle forme della tavola e del piatto, c’è un ragionamento molto lirico sulla saliva e sulle consistenze molli. Se la sensazione della fame si associa alla produzione di saliva, è perché, dice Lange, la fame traduce un desiderio più panico: quello, cioè, di ammorbidire la secchezza del mondo, di trasformare il mondo in qualcosa di vischioso, in qualcosa di simile all’acqua del mare in cui immergersi, con delle dinamiche vicine a quelle che coinvolgono il desiderio sessuale. Mangiare come modo per portare alla bocca il mondo, baciarlo e incorporarlo. Può suonare stravagante ma mi ricordo di aver letto che tra Medioevo e prima età moderna durante le fasi dello svezzamento le madri erano solite intridere della loro saliva la pappa da dare ai propri figli, che nutrivano anche con bocconi di carne precedentemente masticati da loro.
Quindi per me ha tutto perfettamente senso. 

Il libro di Lange sviluppa una morfologia delle cose del pasto, in cui la tavola assolve a una funzione di cesura, di separazione ma al tempo stesso di messa in comunicazione, quasi come un alambicco, tra le cose razionali di sopra e quelle pulsionali di sotto. Al polo opposto di questo progressivo disciplinamento, irrigidimento e nascondimento del corpo, che si accompagna ai processi di civilizzazione, si colloca il pic-nic, legato a un immaginario vezzoso e libertino, che, sopprimendo la tavola, pone sulla stessa linea tutte le parti del corpo, esasperando così i desideri amorosi e l’associazione con il letto.

A proposito di pasti indisciplinati, Michel Bachtin nella sua opera capitale L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, dedica un capitolo alle immagini del banchetto in Rabelais. Oltre a essere una lettura necessaria per ribaltare quella retorica trita che vuole il Medioevo e la prima età moderna periodi cupi e uggiosi, dispiegando, attraverso un’analisi eclettica e intrigante dell’opera di Rabelais, un panorama densissimo e capillare di tutti quei momenti (sono tanti davvero) in cui il riso e il comico irrompono nella vita quotidiana e nei riti pubblici – feste di carnevale e non solo – che la scandiscono, credo che il testo di Bachtin proponga delle linee di fuga straordinariamente feconde anche per gli argomenti di cui stiamo parlando.

In Rabelais le immagini di banchetti – il cibo è, infatti, sempre legato alle occasioni di festa – si accavallano con un’abbondanza vorticosa, esplodono nel tripudio vitalistico di un corpo collettivo che celebra con gli eccessi del mangiare e del bere la condizione di scandaloso piacere che accompagna l’essere vivi. Il corpo a cui fa riferimento Rabelais è un corpo aperto che vede nell’atto del mangiare uno straordinario momento, gioioso e trionfante, per incontrare il mondo, ma anche per inghiottirlo, incorporarlo, dilaniarlo superando così i suoi stessi limiti. 

Mi rendo conto che sarebbe piuttosto disagevole replicare gli iperbolici banchetti di Rabelais, ma che ne abbiamo fatto, invece, dell’idea del mangiare come incontro con il mondo esterno, come fantasmagoria vertiginosa e festosa? Abbiamo smesso di considerare il mangiare e il bere fuori una forma di congiunzione, un atto generativo e trasformativo, la materializzazione di una festa?

Spesso ho l’impressione che la ricerca del cibo – hype e bolle dei social escluse – si sia mitigata in una placida ricerca del rassicurante. Senza lasciarsi andare a facili fatalismi mi chiedo dove sia finito il desiderio rispetto al cibo. Soprattutto dove sia finita la dimensione del perturbante, per non dire del torbido. Vogliamo solo farci coccolare da quello che mangiamo? Ma non stiamo così rinunciando ad approfondarci in territori limacciosi e potenzialmente molto interessanti? 

Il linguaggio stesso con cui parliamo di cibo sembra essersi anestetizzato in una scrittura istericamente euforizzata e galvanizzata da cui sono state espunte però le inquietudini e le asperità. 

I rapporti che intercorrono tra cucina e scrittura sono talmente tortuosi e aggrovigliati che sarebbe utopistico e pedante pensare di ripercorrerli. Mi limito quindi, seguendo lo spirito funambolico di questo testo, ad accennare a un solo libro che, oltre ad avere il merito di non essere uno dei soliti che si citano quando si parla di scrittura e cucina, pone in modo perturbante il groviglio tra corpo e alimento, dandogli una forma davvero vischiosa e avviluppante. 

Si tratta di un racconto – La seiche di Maryline Desbiolles – che segue l’andamento e la scansione di una ricetta – quella delle seppie alla provenzale – con i titoli dei diversi capitoli che ne riportano i passaggi. La scrittura è palpitante, straordinariamente erotica – le immagini della seppia nell’acquario sono deliziosamente oscene –, allestisce un’impalcatura figurativa che affascina e sconcerta al punto da far perdere l’equilibrio a chi legge. C’è molta terra e molto mare, c’è il lardo accostato ai capelli iodati di una giovane donna; c’è anche una frase che vorrei assumere come manifesto di questa mia quête gastronomica: che la riuscita di un piatto dipende anche da quello che lascia in sospeso, da quello che non risolve. 

Vorrei che i piatti fossero più zoppicanti e meno misurati, il piatto che ricordo con più amore e stupore è una zuppa fredda di triglia, amara dal vago, urticante, sentore di putrescente. Io attraverso il cibo voglio conoscere e sentire e lasciarmi sconvolgere e pungolare. Vorrei che i piatti producessero piccole mareggiate, dei deragliamenti. Sentire le persone magnificare i piatti perché equilibrati e delicati mi deprime incredibilmente, io che vorrei che la cucina fosse sempre impudica.

La ricetta come genere letterario è un altro mio feticcio. Leggere una ricetta è un’esperienza sinestetica in cui il linguaggio ci fa assaporare il cibo mentre ne leggiamo la preparazione – non a caso, in Carnal Thoughts, Vivian Sobchack usa proprio la ricetta per esemplificare la capacità del linguaggio di evocare risposte carnali. Durante la lettura di una ricetta il corpo acquisisce una centralità peculiare rispetto alla lettura di altri tipi di testo: entra nell’esperienza della lettura in modo sovversivo, rivendica un ruolo da protagonista, agisce nella sua complessità. Credo che questo coinvolgimento sensuale vada a buon diritto esteso anche a tutte le scene di pasti che compaiono nei libri che, per essere voluttuose, non devono necessariamente dispiegare banchetti à la Rabelais. Mi ricordo di aver provato uno straziante desiderio di cibo leggendo una pagina di Il nascondiglio di Christophe Boltanski in cui la voce narrante descrive il suo pasto-tipo: caffè macinato, un panetto di margarina, una bottiglietta di salsa Worcestershire, una confezione di fette biscottate, un barattolo di cetriolini, un tubetto di harissa, qualche uovo, un involto di carta oleata con dentro del prosciutto cotto. 

Su questi temi si misura in modo più profondo e manifesto la lezione di Châtelet: che se a parlare di cibo il corpo esplode nella sua impudicizia, se non c’è sapore che non suggerisca una bocca, non c’è consistenza che non suggerisca un palato, non c’è calore che non ricordi un ventre, occorre che all’impudicizia del corpo il cibo unisca la sua impudicizia. 

Se l’orizzonte del raccontabile rispetto alla cucina sembra essersi aperto, mi sembra che di tutti gli aspetti che riguardano il cibo, sia diventata urgente una riflessione sul ristorante come luogo di relazioni. Io frequento molto i ristoranti e spesso mi capita di frequentarli da sola.

Non sto qui a fare l’apologia del mangiare al ristorante da sola perché rischierei di impantanarmi nell’ennesima lista lunghissima. Mi limito a indicare – prima di vedere comparire espressioni di commiserazione – le ragioni e le situazioni in cui questo si verifica: se sono fuori dalla città in cui vivo e vorrei evitare di soccombere alle tristi proposte dei bar; se un posto che seguo sui social droppa un piatto nuovo e sono curiosa di provarlo; se ho voglia di sentirmi dentro le dinamiche che investono il guardare e l’essere guardati che, tra tutti gli spazi della vita sociale, avverto in modo più palpitante al ristorante.

Le sensazioni erotiche che vibrano per me tra la sala e la cucina non sono determinate dal trovarmi seduta in una situazione ammiccante con qualcuno. La tensione per me nasce dal luogo stesso. Joanne Finkelstein scrive nel 1989 un libro dal titolo Dining Out. A Sociology of Modern Manners di cui non condivido affatto la tesi di fondo – andare a mangiare fuori sarebbe un’attività così socializzata e soggetta a norme e codificazioni culturali da portare a una forma di socialità anticivile – ma da cui ho tratto numerosi spunti di riflessione. Di fatto tutto quello che Finkelstein vede come negativo, per me rappresenta il fascino del ristorante. C’è un capitolo nel libro che si chiama Il ristorante moderno come diorama del desiderio che è palesemente un progetto che avrei voluto sviluppare io, ma questa è un’altra storia.

Finkelstein parte dall’assunto che c’è tra la gente chi trae un piacere smodato dal consumare cibi in pubblico (io sono la gente) e che quando si decide di mangiare in un ristorante il più delle volte lo si fa per procurarsi un godimento. Prosegue sostenendo argutamente che il ristorante è un luogo dove ci sente sempre in un certo modo eccitati: per me verissimo, io ho una vera attrazione sessuale per chi cucina, ma non credo sia proprio quello che intendesse Finkelstein.

Prima di procedere deplorando l’inarrestabile avanzata del consumismo che avvelena tutte le forme più sincere di socialità, formula un’argomentazione davvero illuminante su questi scintillanti luoghi che amiamo frequentare. Il ristorante, dice, è un luogo che attiva desideri personali: ha la funzione di rappresentare un’architettura del desiderio e un inventario del mondo soggettivo e privato. 

Anche Marc Augé nel suo Éloge du bistrot parisien ha scritto della convergenza di pubblico e privato che si verifica al bistrot, dove ci sentiamo esistere nello sguardo dell’altro come l’altro si sente esistere nel nostro. Non stupisce dunque che questi luoghi siano diventati siti fertili all’osservazione sociologica, spazi privilegiati per indagare i rapporti umani.  La dinamica del guardare chiamata da questi luoghi di ibridazione spesso viene dimenticata, essendo la nostra attenzione concentrata sul cibo e sulle persone presenti al tavolo con noi. Andare al ristorante da sola riapre invece uno spazio, lo sguardo vaga tra il mio tavolo e la sala che mi circonda. Nei ristoranti poi ci sono luoghi che spesso rimangono nascosti all’occhio del pubblico dietro le porte di servizio; e a me, nei limiti dell’accettabile, piace molto sbirciare nelle cucine.

La cosa forse più interessante sulle cucine che ho di letto di recente l’ho trovata in Di chi sono le case vuote? di Ettore Sottsass. Sottsass a quanto pare nutriva il mio stesso impulso voyeuristico verso le cucine visto che, invitato a casa di amici oppure al ristorante, queste erano il primo ambiente in cui andava a curiosare e verso cui volgeva lo sguardo. La cucina attrae Sottsass in quanto luogo misterioso in cui si preparano e si mettono in scena i riti che riguardano la continuazione e la continua trasformazione dell’esistenza. La cucina, luogo di sangue e di fuoco, viene paragonata a una monumentale Enciclopedia in cui la sostanza del mondo si raccoglie, si organizza, si cataloga e prende forma (di nuovo l’inventario e la tassonomia) nel rituale del mangiare. Guardare nelle cucine diventa allora un modo per allungare lo sguardo sul sacro, sui quei luoghi attraenti e magmatici in cui la vita diventa inspiegabile, guardare come modo per fronteggiare il peso insopportabile e terrificante del mistero. 

Credo che la cucina sia ancora uno dei luoghi in cui si manifesta il magico, una dimensione che riassume il mondo e lo significa. Per Châtelet il mondo non è che una monumentale cucina in cui si mima la rimestastura della vita e della morte e al tempo stesso lo spazio culinario è figura allegorica dell’universo. 

Per me la cucina – come l’amore – è alchimia e metamorfosi e penso che i discorsi intorno al cibo dovrebbero essere tutti mossi dall’urgenza di restituire questa tensione. 

Proprio l’accento posto sulla trasformazione mi ha spinta a continuare a riflettere sul testo di Châtelet al punto da averlo amorosamente incorporato. 

Questo testo mi ha fatto vacillare e inciampare. 

Se da una parte è innegabilmente legato a un periodo storico e a specifiche formulazioni teoriche, credo abbia senso recuperarlo per distillarne una qualità vischiosa e limacciosa con cui pensare di affrontare oggi i discorsi intorno al cibo. 

Penso che abbia senso considerare i ragionamenti proposti dal libro come tracce, come attraversamenti e, soprattutto, come pungolo a far esplodere la materia culinaria e le discussioni intorno a questa, a moltiplicare l’orizzonte del dicibile e le strade e le possibilità del raccontabile intorno a un pasto. Mi piace pensarli come frammenti di un discorso amoroso-culinario che, a causa della natura magmatica della sua materia, sarebbe bello venisse continuamente manipolato e riformulato. Le dinamiche stesse del mio incontro con Le corps à corps culinarie rivelano quanta poca immaginazione riserviamo ancora ai modi con cui raccontiamo le storie sul cibo e quanto interessante sarebbe se queste si aprissero a una pluralità più malleabile di prospettive e di punti di vista.

Il ritrovamento del libro Ho trovato Le corps à corps culinarie è avvenuto con straordinaria coerenza rispetto al tema dei miei scavi archeologici – ovvero dopo aver mangiato una bomba di riso con ragù di piccione e una porzione di anguilla alla brace (entrambi ottimi).

 Girovagando da qualche parte nel nord Italia, mi imbatto in una libreria dell’usato che ha, tra le altre cose, un ottimo assortimento di libri di cucina. Questa è una specifica doverosa, considerando che tutte le librerie dell’usato che propongono pezzi incredibili in tutti i campi delle arti e del sapere, per non parlare della narrativa, o non hanno proprio libri di cucina o ti indirizzano verso uno scaffale su cui riposano i libri di Suor Germana, l’immancabile ricettario di Tognazzi e qualche fascicolo dedicato alle cucine regionali. Quando c’è qualcosa di interessante in questo settore, quindi, lo noto subito. Arrivo alla casa trafelata e con le braccia cariche di libri tra cui, oltre a Le corps à corps culinarie : Turismo e cucina sul Po; Il libro di cucina di Alice B. Toklas (prima edizione La Tartaruga); Le confetture di sua maestà. Ricettario piemontese del XVIII secolo

Il libraio mi guarda compiaciuto e con piglio sicuro, senza neanche un sentore di punto interrogativo, mi dice che certamente sono una chef. Devo deluderlo e dirgli di no. La sua faccia esprime un disappunto che diventa subito condiscendenza quando gli dico che mi interessano però le storie intorno al cibo – vengo prontamente derubricata al ruolo di influencer carina. Non saprò mai se è stato questo giudizio a farmi ottenere uno sconto clamoroso sulla prima edizione di Un weekend postmoderno di Tondelli, agguantato all’ultimo momento, con la tensione della domanda ancora palpabile.

Senza che questo lasci intendere alcuna attribuzione di valore e di meriti alle due categorie coinvolte, mi sembra che chef e influencer rappresentino in modo efficace i due poli tra cui si dipana il discorso culinario, che proprio in questa rigidità sembra essersi assestato. Non avremmo, forse, bisogno di un po’ di turbamenti? 

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