Se parliamo di musica, mio fratello minore ci ha azzeccato una volta più di quanto sono a mio agio nel confessare. Riflettendo il nostro rapporto, i rispettivi gusti musicali sono cresciuti intrecciati fino a una certa età, hanno preso strade diverse correndo paralleli per un po’ e infine hanno timidamente iniziato a incrociarsi di nuovo. Fino a tutta la mia pre-adolescenza, la musica per noi è stata per lo più una pioggia continua di chitarre, tra hard rock, blues, metal e punk: grandine elettrica a getto continuo. 

Eravamo la disperazione della coppia di anziani del piano di sotto, che più di una volta ha minacciato di chiamare i carabinieri. Le casse della Logitech attaccate al computer fisso gracchiavano di continuo, schiacciate dal peso di un volume per cui non erano progettate. Il rapporto tra vicini si è definitivamente rotto nel momento in cui abbiamo iniziato a suonare la chitarra elettrica, tutti e due, nello stesso momento. A distendere gli animi non è riuscita neanche la morte. Gli eredi continuano infatti a guardarci malissimo anche oggi, confermando i nostri sospetti da ragazzi sensibili: quei due vecchi li abbiamo ammazzati noi.

Le armi del delitto sono state molteplici. La prima è arrivata dopo alcune ore in uno storico negozio al centro di Roma: una bellissima Squier Stratocaster rosso metallizzato. Poco più di cento euro made in China per un suono e un comfort sorprendenti – in realtà c’è poco di sorprendente e chi suona ve lo confermerà: le Squier sono grandi chitarre. A mio padre ricordava la chitarra di Mark Knopfler; probabilmente era eccitato quanto o più di noi, il che deve aver contribuito a fluidificare e giustificare la spesa. Poco tempo dopo, insoddisfatti della potenza sprigionata da quel meraviglioso giocattolo e i suoi tre magneti single coil, è stato il momento di rivolgerci a qualcosa di più massiccio. Siamo passati allora a due minacciosi humbucker, montati su una Epiphone SG – la chitarra con le corna – rosso pastello. Decisamente meno elegante della Squier, ma alle nostre orecchie più capace di ruggire e avvicinarsi a quello che cercavamo: il rumore.

D’altronde, nulla maschera l’inabilità sullo strumento e l’insicurezza proto adolescenziale come un’insana dose di distorsione applicata a sei corde a malapena accordate: ci si sente delle bestie in calore, si sfoga la frustrazione incomprensibile di cui si è vittima in quel periodo; la distorsione è il fondotinta musicale, è il calzino infilato nelle mutande per ingrandire il pacco, la gara a chi spara la balla più grossa, per sentirsi grandi fra amici. Insomma, fino a quell’età è stata la nostra delizia, senza sovrastrutture di nessun tipo. 

Sono arrivato all’adolescenza qualche anno prima di mio fratello. Senza neanche fare in tempo a godermi il cambiamento, il mio migliore amico è morto all’improvviso. Avevamo poco più di quattordici anni. Era quel tipo di amico che abita a duecento metri da te, quello con cui inizi ad uscire dalla comfort zone famigliare, quello che ti piace genuinamente come persona e di cui allo stesso tempo invidi delle caratteristiche, cosa che ti fa venire ancora più voglia di stargli vicino. Era stato lui che mi aveva convinto a provarci, imparare a suonare.

La sua morte è stato lo strappo improvviso di un foglio su cui era scritta una sceneggiatura ancora soltanto abbozzata. Nel mio cervello sono scattati e si sono inceppati allo stesso tempo una serie di meccanismi: l’improvvisa presa di coscienza del tempo come variabile non infinita e il conseguente rifiuto di qualunque cosa non portasse piacere; l’incapacità di abbracciare veramente questa nuova consapevolezza; l’ovvia mancanza di maturità e di esperienza nel capire quali fossero veramente le fonti di questo piacere astratto. Forze opposte risultanti in una stasi tremenda, in un brodo depressivo denso e appiccicoso come la pece. Il foglio insomma ha continuato a esser strappato in pezzi sempre più difficili da rimettere insieme. Uno stato confusionale che è durato anni, forse non è mai del tutto scomparso. L’unica cosa certa è che la musica all’improvviso non era più solo un hobby: è diventata una cosa sacra. Anzi, è diventata tutto. 

È così che mi sono addentrato in musiche sempre più forzatamente “intellettuali”, seriose. Da un certo momento in poi, se un brano durava meno di otto minuti era da considerarsi spazzatura. Ho iniziato quindi a perdere il contatto con la distorsione, quella che mi aveva unito a mio fratello e che in qualche modo mi legava anche alla realtà, a me stesso. Ho scavato un fossato fatto di malessere per lui (forse per tutti) incomprensibile, e viceversa, strati su strati di protezione dal mondo. Ancora oggi, nei momenti peggiori, guardo tutto e tutti dal fondo di un pozzo che ho scavato con le mie mani. 

Un malessere alimentato con tutta la musica più pretenziosa che potessi trovare, amata con una sincerità che oggi mi fa tenerezza: in primis progressive e poi il primo jazz, ascoltato malissimo. Il problema non è amare musica complessa, “pretenziosa” – è quella che mi fa battere il cuore ancora oggi, che mi fa uscire da un concerto con la testa fra le nuvole e il sorriso stampato in faccia. È quella musica che ha alimentato la mia curiosità verso il mondo e soprattutto che mi ha fatto venire voglia di scrivere, per poter condividere quelle sensazioni, raggiungere e unirmi agli altri in una meravigliosa celebrazione di spiritualità pagana. Il problema è amarla per reazione, per cercare una valorizzazione del proprio io, un’affermazione del proprio essere intelligenti, speciali. Perché così finisce per svilire tutto: te stesso, quella forma d’arte, le relazioni che si possono costruire con gli altri. Forse proprio per questo, per reazione, mio fratello ha attraversato un breve periodo hip-hop, pompando bassi saturi al posto delle chitarre. Dall’alto della mia autorità intellettuale senza peli sotto le ascelle era un affronto inimmaginabile: come osi bussare al castello dei saggi accompagnato da Tyler the Creator. 

Aah, Tyler the Creator! Che assurdità sentir risuonare “Wolf” nella nostra camera, mentre io mi nutrivo tutti i giorni a pane e prog inglese, pane e delta blues. Che mossa assolutamente e sinceramente punk. Come se una persona abituata a guardare tutti i giorni un dipinto di Leonardo Da Vinci, una mattina svegliandosi aprisse gli occhi solo per trovarsi a fissare un’opera di Pollock. Incomprensibile, infuriante, segretamente stimolante; una sorta di scabroso segreto custodito nel bolo dell’incomunicabilità adolescenziale. Che rabbia non avere abbastanza sicurezza in sé stessi per ammettere a lui e a te che wow, questa roba è una ficata, hai aperto una nuova porta per entrambi. 

Con il passare degli anni le code delle distorsioni sono scemate in echi lunghissimi. Per me le chitarre hanno iniziato a scomparire, sostituite da fiati, tastiere, elettronica. Per lui ha iniziato a scomparire la musica in toto, inglobata e resa troppo ingombrante da me e i miei problemi. Probabilmente non ho lasciato nessuno spazio per condividerla insieme, nella piccola stanza che dividevamo. Quindi a un certo punto lo spazio si è spaccato a metà, nella riflessione degli interessi di ciascuno: è diventato una ridicola, gargantuesca distesa di miei strumenti e suoi skateboard. Entrambi disposti a perdita d’occhio, su ogni centimetro disponibile, tra pavimento e pareti, in un modo che sfidava le leggi della fisica.

Qualche anno dopo, io non riesco a smettere di ascoltare Tyler The Creator, Kendrick Lamar e compagnia bella; lui, ovviamente, ha iniziato a recuperare le distorsioni. Un dispetto in piena regola, la più classica delle leggi del contrappasso tra fratelli: ora devo fronteggiare bordate di Joy Division, The Smiths e una manciata di gruppi indie dimenticabili mentre ascolto e studio (questa volta sul serio, senza castelli intellettuali di insicurezza) Davis, Coltrane e gli altri; nel frattempo faccio un corso accelerato di musica contemporanea, con hip-hop di ogni tipo e tanto altro. Sto uscendo dall’adolescenza con fatica, lui ci è entrato in pieno. 

Disperato, in mezzo a quelle distorsioni che mi provocano lo stesso imbarazzo di una relazione finita tanti anni fa, un giorno qualcosa mi smuove le viscere all’improvviso. Alzo lo sguardo con le orecchie che fremono e vedo dei ragazzi dalla faccia pulita che suonano in mezzo a biciclette. È la live session dei Parquet Courts, per la stazione radio americana KEXP. Come fu per Tyler the Creator e come è stato per altre innumerevoli volte (per me e per lui) non dico nulla di esplicito, nessun riferimento o apprezzamento diretto. Sto fermo e ascolto in piedi dietro mio fratello. La rigidità delle sue spalle non lascia spazio a dubbi, percepisce la mia attenzione. Anche perché il silenzio che corre tra noi due in quel momento è più assordante delle chitarre della band newyorkese. Qualche giorno dopo cerco il video su YouTube senza dirgli niente, digitando parole a caso e passando venti minuti e scartabellare: quando lo trovo finisce che mi innamoro definitivamente. 

Perché i Parquet Courts? In superficie non c’è nulla. Sono quattro ragazzi bianchi con nessun segno particolare: tagli di capelli e vestiti fuori moda, strumenti anonimi e nessuna trovata pirotecnica. Un commento su YouTube afferma entusiasticamente: “Adoro che ogni componente della band abbia l’aspetto di un diverso personaggio di Fred Armisen”, il comico e musicista ex star del Saturday Night Live e re degli hipster americani. 

Ad afferrarmi dentro è quella musica che mescola post-punk, garage e indie: le distorsioni educate delle loro chitarre si sono riconciliate con quelle selvagge di anni e anni fa. Mi si sono infilate dentro come un arto fantasma che muove un burattino felice. I pezzi sono scritti benissimo: i riff rimangono piantati nel cervello; ci sono abbastanza sorprese e arrangiamenti divertenti perché l’ascolto sia interessante senza diventare alienante; ogni tanto emergono brevi accenni di elettronica a ricordarci che siamo negli anni ’10 e ’20 del 2000. I testi sono sorprendentemente creativi, quasi colti. Ci sono versi come “Violence is the fruit of an unreached understanding that flowers from the lips of scoundrels” che sembrano scritti da Shakespeare, se fosse cresciuto negli anni Novanta, in un triste sobborgo della classe media americana.  C’è perfino un brano che fa riferimento al calcio totale di Cruiff. Ma soprattutto ci sono strofe come “I was feeling nostalgic/For the days when my thoughts dripped/On to my head from the ceiling” alla ricerca di una spensieratezza adolescenziale che, si capisce da tutto il contesto, in realtà è un abbaglio: non è mai esistita. È un ricordo posticcio, proprio per questo dolce – una sostituzione di memoria necessaria a tirare avanti.

C’è sicuramente una qualità retromaniaca in quello che i Parquet Courts mi fanno sentire. Anche io quella spensieratezza adolescenziale non l’ho mai provata; sicuramente l’ho cercata, con un’intensità dolorosissima. Un po’ come i personaggi di La Profezia dell’Armadillo di Zerocalcare; alla fine del libro ragionando sull’adolescenza si chiedono: “Ma infatti ‘sta leggerezza chi l’ha mai vista?”. Nei Parquet Courts c’è il presente percepito attraverso il passato; viceversa c’è il ricordo di un passato doloroso mai veramente rimosso che pulsa come una vecchia cicatrice, senza far male come allora ma ben visibile sulla pelle. Una sensazione meravigliosamente agrodolce, che mette in pace con il mondo. 

Solo recentemente ho scoperto che nei Parquet Courts suona una coppia di fratelli, così come succedeva negli AC/DC, la colonna sonora fissa di quando io e mio fratello abbiamo iniziato a suonare la chitarra accelerando la corsa verso la tomba dei vicini. Fratelli come quelli della serie tv che abbiamo consumato insieme, Malcom In The Middle. I Parquet Courts sembrano essere nati con il solo scopo di comporne la colonna sonora apocrifa, anzi: sono talmente azzeccati anche esteticamente che non posso essere sicuro che non abbiano recitato nella serie.

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