Evito l’aggancio con un paio di spostamenti laterali, due piccoli passetti verso destra tipo granchio e il piede affonda nei sassi fino al terriccio umido, sollevo di scatto la gamba per non rimanere incastrato, do una rapida occhiata alla scarpa antinfortunistica mezza bagnaticcia e rialzo in fretta lo sguardo, giusto in tempo per vedere Zecca che sta partendo con una combo delle sue: guardia bassa, pugni chiusi sbilanciati in avanti come se tenesse tra le mani un mitragliatore invisibile puntato al mio petto, gambe tesissime sollevate sulle punte che si alzano e abbassano a ritmo facendo oscillare in su e in giù quel suo faccione espanso avvolto per metà nella sciarpa nerazzurra dell’Atalanta.
Zecca ha imparato a menare nei parcheggi dello stadio, schiacciato dentro le folle di atalantini ubriaconi che pressano sui lati e così sa colpire duro, ma solo sul davanti: montanti e ginocchiate e pedate e testate a fracassare il bersaglio in linea retta per sbaragliare la tifoseria avversaria in un vero e proprio atto di guerriglia urbana d’avanguardia, tecniche artigianali sperimentate e migliorate ogni prepartita durante i quali non fa altro che sfondarsi di miste – soluzioni fai da te metà aranciata e gin – e cannoni e qualche cartone di LSD quando gira bene, poi, abbassata la soglia del dolore e innalzata quella dell’esaltazione, giù botte agli altri ultrà o giù botte al primo che capita che tanto va bene uguale.
Zecca è un tizio che dove non arriva con le parole arriva con le mani. Si capisce già guardandolo. Anzitutto è uno di Bonate e quelli di Bonate sono degli animali, e poi ha proprio un aspetto bestiale: spalle abnormi ricoperte di peli, busto compatto, gambe lunghe e storte, deformate dagli anni di calcio a livello amatoriale, stagioni interrotte bruscamente dalla rottura del crociato che gli ha regalato un’andatura da zoppo di serie A.
Eccolo che parte, il sassame instabile scricchiola sotto i suoi scarponi da lavoro e precede il diretto che mi sta per arrivare contro il naso, la sciarpa gli si abbassa di colpo e scopre la sua mascella spostata di lato per la rabbia in una specie di ghigno preistorico.
I suoi pugni si fanno sempre più vicini alla mia faccia e realizzo che le nocche sono callose: segno che, durante gli scontri allo stadio, le legnate date hanno superato in numero quelle ricevute, anche se Zecca dice sempre che quando fai a botte «o le prendi, o le dai e le prendi», non puoi solo darle, anzi, devi essere pronto a prenderle altrimenti stai a casa tua, che è meglio. Io, invece, sono di tutt’altra filosofia, se posso evitare di prenderle è meglio, un po’ come sosteneva mio padre, uno stratega e semplicista nonché abile problem solver dei conflitti interpersonali: «prima tiragli e poi spiegagli perché gli hai tirato».
Adesso Zecca è disteso al massimo dell’estensione verticale, gonfia anche il torace e allarga i gomiti. Una delle spalle, la destra, si deforma: il bicipite prima si accorcia e poi si allunga come un coltello serramanico a molla sparando avambraccio polso mano aperta verso il mio collo. Tento ancora il passo del granchio, schivo l’attacco per la seconda volta di fila, ma il gesto atletico è così telefonato che a questo giro una manata al mento me la prendo.
Fuori dal raggio di azione di Zecca appoggio i palmi sul suo braccio andato a vuoto, puntello i piedi nei sassi e spingo con tutta la forza che ho in corpo.
Vado giù bello deciso ma nulla, il gigante orobico non si smuove di un millimetro. Ruota verso di me con un’agilità inspiegabile, si rimette in asse, approfitta della mia momentanea esitazione e scarica un uno-due-uno dal basso verso l’alto. Direziona i tre montanti al mio volto, combinazione che non so come riesco a parare sollevando i gomiti e avvicinando tra loro gli avambracci a mo’ di cuscinetti improvvisati, forse un riflesso automatico dei mesi di sparring di quando ero ragazzo.
Le nocche solide come biglie mi scalfiscono le braccia, allargo giusto un pelo di fica quello scudo provvisorio di carne, sbircio dentro la fessura tra gomiti e polsi per interpretare le prossime mosse di Zecca, ma prima ancora di capire qualcosa mi si lancia addosso – questa volta riesce a prendermi –, avvolge le braccia attorno alla schiena e m’incastra in una morsa micidiale.
Avvinghiato dentro quella pinza ossea non riesco a fare un minimo movimento, fatico persino a respirare, con il naso schiacciato contro il petto del colosso che mi supera di almeno quindici, se non venti centimetri in altezza.
La bestia stringe e io istantaneamente sento che i polmoni non si dilatano a dovere. Devo stare calmo, sono piccoletto ma so picchiare, impanicato frugo a casaccio nei ricordi per pescare qualche insegnamento del Geco, il maestro della Chignolo Pugilato, così chiamato per le sue abilità nell’arrampicarsi addosso alle persone, ecco che proprio quando inizio a vedere buio mi pare di sentirlo bisbigliare una delle sue massime: «fate i morti che i forti non sono più forti dei morti».
Mi brucia la gola per la carenza di ossigeno, ne ho ancora per poco, e allora come ultimo e disperatissimo tentativo di fuga mi lascio cadere a peso morto. Zecca non se l’aspetta e miracolosamente sguscio via dalla sua presa erculea che, per quanto solida, non riesce a tenere i miei settanta chili con la forza dei soli polsi – grazie Geco.
In ginocchio ai piedi di Zecca con la sua sciarpa che mi accarezza la nuca, prendo fiato bevendo letteralmente sorsate d’aria e tento il tutto per tutto per ribaltare la situazione. Afferro con entrambe le braccia la gamba di Zecca, la sinistra mi pare, un cazzo di pilone largo quanto il mio addome: alzarlo è fuori questione quindi devo schiacciarlo. Butto le gambe all’indietro, scavo con le punte dei piedi nel ghiaione e spingo il busto in avanti sino a sdraiarmi sul quadricipite del gigante mentre qualche sua gomitata affonda a casaccio nella mia schiena ustionandomi le scapole. Punto anche le ginocchia a terra per aumentare i gradi di vincolo e intensificare il momento ribaltante e spingo, spingo di taglio il più energicamente possibile all’altezza del crociato, quel dannato ginocchio infortunato.
Zecca urla: tremende grida di puro dolore che mi trivellano le orecchie, ma non mollo; il golem bergamasco, pur di raddrizzare la gamba e alleviare un poco le fitte al ginocchio si butta all’indietro e cade male sulla sassaia. Ci sganciamo, mi sollevo rapidamente e scatto sopra di lui, stavolta parto io: jab-jab-diretto, jab-gancio-diretto che vanno tutti a segno e colpiscono occhio, ancora occhio, naso, naso, ancora occhio, poi lancio un montante sinistro che lo piglia sulla spalla e mi fa girare il polso al contrario, una fitta lancinante mi scorre fulminea dall’anulare al collo.
Zecca si alza, siamo uno di fronte all’altro, io ansimo ancora in deficit di ossigeno a un piccolo, ma veramente piccolo passo dallo svenimento; lui, invece, perde sangue dalle narici, ha un sopracciglio rotto, un occhio gonfio e si regge su una gamba sola eppure riesce a lanciarsi contro di me che non ho neanche il tempo di vederlo arrivare, sento solo la sua fronte immensa da Neanderthal sfondarmi in pieno la bocca. Cado a terra, lui pure, io intontito, lui sfinito.
Sputo una manciata di sangue, Zecca è disteso al mio fianco sopra il letto di sassi. Lo guardo, rido, lui mi guarda e scuote la testa «non dovevi attaccarmi il ginocchio» dice, «lo so, ma l’ho vista brutta» rispondo io.
Zecca si è ripreso più in fretta di me che mi sento tutto molle per le botte, come se mi avessero messo dentro un sacco, bastonato alla cieca con un randello di ferro e poi fatto fare una maratona di venti chilometri nel deserto.
Mi tasto le cosce e realizzo che manca il portafogli, eccolo lì in mezzo a due pietre, mi sollevo con fatica ma non riesco a stare in piedi, barcollo così tanto che il ponte della superstrada Curno-Bonate sembra ruotare su sé stesso, anche i pescatori di alborelle nascosti all’ombra del ponte paiono danzare, crollo a terra e Zecca ride. Con un colpo di addominali mi raddrizzo sino a sedermi, senza forze prendo il pacchetto di Winston e sfilo una delle ultime sigarette: fatico ad accenderla perché le mani mi fanno male, poi mi sdraio ancora sui sassi.
Una pietra fredda e piatta mi fa da cuscino, ruoto la testa e vedo Zecca ancora al mio fianco; qualche sparo in lontananza ci tiene compagnia e per un attimo ho come l’impressione d’addormentarmi, chiudo gli occhi e tutto si fa più vivido, i cani che abbaiano, il Brembo che striscia tra i massi, i due pescatori che bisbigliano, un altro sparo – più vicino questa volta – fa scattare istintivamente le palpebre che si aprono tipo molla, un piccolo stormo di colombelle attraversa il campo visivo e, poi, scompare subito, lasciandomi da solo a fissare il cielo grigio della bergamasca.
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