Alcuni risalirono la montagna portando doni e piccole offerte. Altri pronunciarono parole di speranza durante una cerimonia in cui fu bruciato molto incenso, dopodiché si presero per mano e incominciarono a danzare e a intonare cori e a pregare, poi ad azzittirsi tirando il muso all’insù, verso le cose che erano apparse nel cielo. Già molto prima che gli esperti iniziassero con le loro manfrine e che gli scienziati affollassero i salotti televisivi disquisendo per ore sui perché e sui percome, avevamo tutti capito che ciò che stava avvenendo avrebbe cambiato per sempre ogni cosa.

Una delle prime sere, raccolsero del legno e accesero un falò verso il limitare della radura, lassù, ad ovest. Dissero che avrebbero alimentato il falò finché le cose nel cielo sarebbero state nel cielo, ma non fu così. Già al mattino, lasciarono che le fiamme si prosciugassero e gettarono acqua sui brincelli ardenti rimasti lì. Poi rientrarono a casa. Tra loro c’ero anch’io.

Quella sera mangiai fave e lenticchie e qualcos’altro. Cercai di dormire ma non ci riuscii per niente. Ogni due per tre mi alzavo dal letto e, avvicinatomi alla finestra, gettavo lo sguardo verso l’alto. Le inviai un paio di messaggi, le domandai se dormisse e lei mi rispose di no, dopodiché mi rannicchiai in un angolo del letto e attesi l’arrivo del mattino. Al mattino mi reggevo in piedi a stento, le gambe tremanti e il cuore in tumulto e la mente fervente di idee che si susseguivano alla rinfusa. Da quel giorno in poi, ogni volta che avrei alzato lo sguardo verso l’orizzonte avrei sentito le ginocchia ammollarsi.

E per la paura che oltre non ci sia un bel niente, e per la speranza che, oltre, qualcosa ci sia per davvero. 

Al mattino la cittadina era in festa. Sorridevano, banchettavano, danzavano, si sbracciavano, ipotizzavano, ridevano, indicavano il cielo. Alla luce del sole, le cose nel cielo parevano meno brillanti, meno intense, meno variegate nei colori e nelle sinuosità, ma erano comunque piuttosto visibili e spettacolari. Mi arrestai all’angolo della strada, tra la vecchia libreria e il bar di mia zia. Inspirai, abbassai lo sguardo e lo fissai sul marciapiede. Quindi mi sollevai e osservai ancora lassù. Rimasi lì per un po’ e solo quando udii la voce di mia zia decisi di darmi una mossa.

Presi un caffè e qualcosa da mangiare, lei sorseggiava un cappuccino. Il locale era mezzo vuoto e i rumori esterni penetravano appena, ovattati e attutiti. Le domandai se avesse visto quelle cose – che domanda stupida – e lei mi rispose con un cenno del capo. Le domandai cosa ne pensasse e lei mi rispose che non aveva avuto né il tempo né la voglia di informarsi e che a dire il vero neanche le interessava più di tanto.

Mia zia era una tipa in gamba, concreta. Aveva perso il marito alcuni anni prima e poco dopo mio cugino se n’era andato in città a lavorare in una grossa fabbrica, tornava di rado e a furia di spostare tralicci e reticolati gli erano venuti i calli alle mani e gli occhi gli s’erano ingrigiti. Credo che, a volte, si convincesse di averli persi entrambi. Lavorava in quel bar da che avessi memoria e quel bar, per quanto ne sapevo, esisteva da quando esisteva la cittadina.

Entrarono un paio di loro, s’approssimarono al bancone, ordinarono qualcosa, si misero a chiacchierare. Dicevano che ne avevano parlato al telegiornale. Che quella notte erano apparse altre cose nel cielo, che erano apparse ovunque, non solo nel nostro paese. Dicevano di aver seguito una trasmissione sul primo canale e che l’ospite della trasmissione fosse uno scienziato o comunque un esperto, e che questo tizio avesse parlato di spettri rossi, fulmini globulari, spettri di Brocken, aurore boreali fuori zona, fuochi di sant’Elmo, plasmi, mesosfera, campi magnetici: di tutto e niente, pensai. Dopodiché pensai a un mucchio di altre cose e poiché erano troppe non riuscii a focalizzarmi su nessuna.

«Vieni a pranzo domenica?» domandò mia zia.

Annuii.

La cittadina era circondata da alture e cumuli rocciosi che alcuni definirebbero colline e altri montagne. C’erano tratturi e stradicciole che s’inerpicavano tra i macigni e sentieri che s’addentravano nella fitta foresta e altri che zigzagavano lungo il crinale scosceso. Li percorrevo spesso, al mattino o alla sera. Il sole a mezz’altezza m’acquietava. Non ho mai trovato pace, né di notte né di giorno, se non nelle transizioni tra i due momenti. È qualcosa che mi ha sempre riguardato: la sospensione, l’attesa, il passaggio. D’autunno gli alberi si spogliavano dai colori vivi per diventare cumuli di zampe protesi verso la pista. Il turbinìo del vento, i rami spogli sghembi fragili, il soqquadro dei pensieri. Seguivo la traccia che conduceva sino al cimitero quando m’arrestai ancora una volta per osservare. Lassù, al vespro, lumeggiavano come non mai. A ripensarci, erano davvero belle da guardare. Cercai di distinguerne qualche dettaglio ma più le osservavo e più mi parevano sfocarsi. Fui affiancato da una coppia di anziani, il braccio di lei avvolto in quello di lui. Incrociai il loro sguardo, mi sorrisero e io sorrisi di rimando. Parlavano di quelle cose, di colori e di luci e di significati e di simboli e segnali. Mi soffermai per poco, poi ripresi la marcia.

All’ingresso del cimitero una sedia e sulla sedia il guardiano mezz’appisolato. Lo salutai, ricambiò con un cenno del capo. L’ingresso era un cancello verde-annerito zeppo di ghirigori e ricami, e che dava sullo spiazzo dov’erano le lapidi. Buttai un occhio a qualche sepoltura, un angelo di pietra e un santo piangente e una pietà stilizzata, e avanzai sino a raggiungere quella che riportava i nomi dei miei genitori. Posai i fiori, crisantemi e rose e primule e ciclamini, e allungai la mano verso la fotografia di mia madre; lo stesso verso quella che ritraeva mio padre. Ascoltai il suono della brezza tiepida e sentii il cuore stringersi in una morsa – succede ogni volta che il pensiero mi riporta a loro – e mi mancarono inesorabilmente in un modo che non può essere spiegato attraverso le parole. Più in là una signora avvoltolata in uno scialle posava i fiori accanto ad una tomba. Quando si voltò incrociai il suo sguardo e, ricordo, pensai che nessuno conosce qualcun altro quanto qualcuno che ha perso qualcuno può conoscere qualcuno che ha perso qualcuno, sebbene non ci abbia mai scambiato una parola. Mi inginocchiai e parlai ai miei: «Mancate così tanto. In cielo sono apparse delle cose strane. Delle luci simili a un’aurora boreale ma, non saprei dire, più incombenti. Più granulose. Più… …vere. Vi sarebbe piaciuto osservarle. Mi sarebbe piaciuto osservarle con voi e poi parlarne un po’. Fare ipotesi, formulare scenari e tutto il resto. Come facevamo sempre, sulle cose che riguardano il mondo. Sapete, mi piace siano apparse quelle cose. Occupano i miei pensieri e non mi fanno pensare al resto. A tutto il resto.»

Mi azzittii, sospirai, guardai di lato: il guardiano tirava via qualche foglia secca con una scopa. Sopra di noi, le cose nel cielo parevano troneggiare su una volta che andava via via a inscurirsi. Chiusi gli occhi e posai la mano sul marmo freddo. Pensai al loro abbraccio, alle passeggiate, ai caffè presi al bar mentre fuori imperversava la tempesta, alle risate nei momenti più svariati, ai pranzi di Natale, alle vacanze quando ero piccolo. Mi sembrava un’altra vita – ancora oggi, quando ci ripenso, mi sembra di aver vissuto due vite: una con loro e una da quando se ne sono andati. E da quando se ne sono andati, da allora, in me abita il silenzio.

Parlai al telefono con lei dopodiché mi preparai un boccone e mi misi a guardare la tv. Ne parlavano su ogni canale, di quelle cose. Esperti di qua e di là, politici, opinionisti, star del cinema improvvisatesi scienziati, presunti candidati al premio Nobel, fisici, complottisti, chimici, filosofi, teologi e chi più ne ha più ne metta. Questo è ciò che mi ricordo delle ipotesi fatte da ognuno: gli esperti dicevano che si trattava di una specie di fenomeno atmosferico dovuto ai cambiamenti climatici, i politici dicevano che bisognava aspettare per avere un quadro più chiaro e capire il da farsi, gli opinionisti asserivano che c’era da aspettarselo che sarebbe successa una cosa del genere, le star del cinema improvvisatesi scienziati ricordavano che ne aveva previsto l’arrivo un film russo dal titolo impronunciabile negli anni ’70, i presunti candidati al premio Nobel dicevano che il governo ne aveva già raccolto dei campioni che i risultati delle analisi sarebbero stati disponibili a breve, i fisici dicevano che avevano a che fare con la rifrazione e con la legge di Snell-Descartes, i complottisti raccontavano di agenti provocatori e depistaggi e ologrammi e colori senzienti, i chimici davano ragione ai fisici e pure agli esperti, i filosofi dicevano che si trattava di manifestazioni dell’Io e che esistevano e non esistevano e che per questo dalle analisi dei campioni non se ne sarebbe cavato un ragno dal buco, i teologi parlavano di segni e di parusie e di fratelli senza corpo venuti a trasmettere un messaggio. C’era un gran trambusto e un gran fermento in quei giorni e le idee erano confuse e contraddittorie. In men che non si dica tutti, dacché ascoltatori, si misero a dire la loro. Agli angoli delle strade e ai bar e alla vecchia rimessa e al molo per la pesca giù al fiume. A dirla tutta me la sarei immaginata diversa, una roba del genere: più solenne, forse; ma noi umani abbiamo questa capacità innata di trasformare ogni cosa: di deturpare la purezza, di accettare l’inaccettabile, di ridicolizzare persino la tragedia.

Ripenso ai volti di quelle persone: alcuni preoccupati, altri curiosi, altri ancora in fibrillazione o emozionati. Io ero tra questi ultimi. La presenza di quelle cose nel cielo mi dava una strana sensazione, una sensazione che aveva a che fare con la distanza dalle cose della terra. Non mi sono mai piaciute le cose della terra. E da quando loro non ci sono più mi piacciono ancora meno. Ho sempre identificato una sorta di capacità corruttiva nelle cose della terra e ricordo che, crescendo, vedevo i miei amici inseguirle mentre io ho sempre preferito guardare a ciò che non può essere visto e non può essere toccato e non può essere calcolato. È a furia di guardare a queste cose che sono rimasto indietro. Forse è per questo che, quando apparvero le cose nel cielo, cominciai a sentirmi meglio. Mi trasmettevano una sorta di speranza, la possibilità che le cose della terra non fossero le uniche cose, il miraggio di non aver sprecato la mia vita.

Durante quei giorni, scrissi anche a lei. Le mandai dei messaggi per domandarle cosa pensasse di tutto quello che stava succedendo. Mi rispose a monosillabi. Non so se per disinteresse verso l’argomento o verso di me. Allora, se n’era andata via giusto da qualche mese. E quando se n’era andata avevamo deciso di farla finita. Avevamo vissuto insieme nella casa dove abitavo allora, giusto per un po’, ma le cose non erano andate granché bene e quando ha avuto l’occasione di trasferirsi in città non se l’è lasciata scappare. Non le ho mai dato torto.   

Iniziarono a organizzare degli incontri. Per partecipare ad alcuni di questi bisognava affiliarsi a certi forum online mentre ad altri erano tutti benvenuti. Ci si radunava nei luoghi più disparati e si discuteva e ci si scambiava opinioni e talvolta si leggeva un bollettino che raccoglieva gli ultimi aggiornamenti su ciò che stava accadendo. Sì perché, ne eravamo tutti sempre più convinti, qualcosa stava effettivamente accadendo. A volte si ascendeva il crinale di notte o al mattino presto e si andava a osservare le cose nel cielo dall’altopiano che sovrastava la cittadina e le valli circostanti. Alcuni restavano in silenzio a osservarle, altri bisbigliavano, altri avevano gli occhi lucidi, altri pregavano, altri guardavano altrove. Presenziai anche io a qualche incontro. Si tenevano una volta a settimana nel seminterrato adiacente alla chiesa. Veniva adibita una tavola con acqua, caffè, brioches e tutto il resto. Disponevamo le sedie pieghevoli in semicerchi ordinati e, prima d’ogni inizio, si poteva osservare la gente starsene in piedi di qua e di là o gironzolare nei pressi del tavolo a rimpinzarsi lo stomaco.

Prima che succedesse, lo avevo immaginato molte volte. Forse lo avevo persino desiderato.

Me l’ero immaginato diverso.

Gli incontri si svolgevano seguendo un iter prestabilito basato su un modello dal basso, pseudo-democratico; in realtà c’erano un paio di loro a tirare le fila della conversazione e a tirare in ballo i temi e gli argomenti che preferivano. Erano strani quegli incontri, e forse anche un po’ inutili, ma ricordo che mi fecero riflettere su alcuni aspetti interessanti di quella vicenda. Ricordo, ad esempio, di quando ci si raccontava delle sensazioni che ognuno provava osservando le cose nel cielo. Per alcuni avevano un effetto calmante, per altri eccitante, taluni parlarono di conseguenze di test governativi sull’aria, altri riferirono di avere sogni bizzarri, incubi, attacchi di panico. Ricordo di una donna che disse di aver sognato di centinaia di metri di neve che sprofondava su se stessa in una voragine che si ripiegava nel sottosuolo sino a diventare la bocca di una grotta. Disse che, nel sogno, aveva varcato la soglia della grotta e aveva barcollato nell’oscurità sino a giungere a una sorta di balcone che dava su uno squarcio di mondo impossibile: picchi che luccicavano alla luce perenne di soli che si sovrapponevano in base a strane congiunzioni astrali, colonne di simil-basalto che s’innalzavano sino a squagliarsi verso il limitare dello spazio interstellare, orizzonti fiammeggianti e severi e terribili, nubi o nere nerissime o bianche bianchissime dotate di occhi obliqui e sinapsi fatte di fulmini e saette, voci perenni e onnipresenti che narravano storie di mondi lontani in lingue sconosciute, musiche risalenti all’origine dei tempi originate da oboi affondati nell’abisso, e cose simili ad aurore boreali – forse le cose nel cielo, disse lei – che nascevano da quella congerie e che, seppur in maniera diversa da come possiamo intendere noi, vivevano e pensavano. Dopo che la donna ebbe raccontato il suo sogno, agli incontri successivi, anche altri dissero di aver sognato qualcosa di simile. Si incominciò a ipotizzare una sorta di legame psichico tra noi e le cose nel cielo. Allora taluni congetturarono che le cose del cielo fossero da venerare e iniziarono a intonare canti e lodi e a inginocchiarsi e a spalancare le braccia. Ebbi paura e non andai più a quegli incontri. Ebbi paura non delle cose nel cielo ma degli uomini. Non ho mai avuto paura del cielo, quello che mi ha sempre spaventato è il mondo.

A volte, in quel tempo, mi svegliavo alla buon’ora, m’infilavo il cappotto e me ne uscivo. Percorrevo sempre quel sentiero e, arrivato a metà strada, mi fermavo. Pochi metri di là dalla pista c’erano certe rocce distese a mo’ di panchine: mi ci sedevo, fissavo lo sguardo all’insù, osservavo le cose nel cielo. Avevo la sensazione che i loro colori – sebbene difficilmente distinguibili per davvero – non fossero mai uguali e talvolta avevo l’idea che si trascinassero lungo la volta celeste. In realtà, una delle caratteristiche che aveva incuriosito di più gli studiosi era la loro immobilità, la loro tenacia rispetto ai venti e agli spostamenti delle nuvole e alle piogge. Per questo, in quel tempo, iniziò a circolare insistentemente l’idea che si trattasse di un fenomeno luminoso legato al magnetismo e alla forza di gravità e alla rotazione terrestre. Tra l’altro, di lì a poco gli americani e i russi avrebbero fatto dei grossi passi avanti riguardo la comprensione di ciò che stava accadendo. In molti diranno che ci è stata rivelata solo una parte di ciò che è emerso dalle analisi ma io non credo che sia così. Credo che finanche i migliori scienziati non c’abbiano capito granché ma che noi uomini abbiamo il bisogno di credere a certi segreti perché, in un certo senso, è consolatorio. Credo che ci siamo sempre sopravvalutati, che in realtà ci capiamo ben poco di qualsivoglia argomento. Che brancoliamo nel buio e che da misere briciole caviamo idee e teorie onnicomprensive perché non siamo in grado di ammettere la nostra ignoranza. È più facile credere alle favole piuttosto che accettare la realtà per ciò che è: un caos che tende alla distruzione.

Di fianco a me, una di quelle mattine, passò una coppia di vecchiarelli. Non era la prima volta che li incrociavo e li salutai con un cenno del capo. Si tenevano per mano e sorridevano e parlavano tra loro e osservavano le cose nel cielo e osservandole dicevano che erano bellissime e che erano fortunati ad aver vissuto abbastanza da poterle vedere. Dopo poco proseguirono. Io rimasi lì.

Pensai che mi sbagliavo. Che forse non tutto era così brutto. 

I punti d’osservazione furono istituiti nei luoghi più disparati, e spesso inospitali. Uno era sull’orlo di un precipizio, un altro era il cucuzzolo di una montagna, uno sorgeva nel mezzo di una foresta. Presso ogni punto d’osservazione fu eretto un qualcosa: un totem, una statua, un tempietto. Inizialmente, le comunità religiose si opposero e, insieme a loro, i politici locali e nazionali. Poi, non s’è mai capito perché, mollarono la presa e si disinteressarono dei fatti. Le persone si riunivano presso i punti d’osservazione e lì cercavano un contatto con le cose nel cielo. Stavano perlopiù in silenzio, pregando immaginando pensando. A volte danzavano e cantavano.

Anch’io mi ci recai una volta. Era oltre i paesi della provincia, il paesaggio era brullo e la terra sfregiata sia dalle piogge che dall’assenza di piogge e c’erano montagne tutt’attorno e una vecchia miniera di nonsoché abbandonata: crateri, pozzi profondi, fiumi di magma ispessito. Io c’ero arrivato con la corriera – da quando era diventato un punto d’osservazione avevano aggiunto nuove corse a tutte le ore – ma tutt’attorno c’erano camper e motociclette e automobili e biciclette. C’era chi s’era portato cibo e acqua e chi teneva la musica accesa e se ne stava a fumare per i fatti suoi. C’erano frati, suore, tizi tutti in tiro, vagabondi, simil-barboni, hipster. Mi parve – lo ricordo bene – una malriuscita imitazione di un rave degli anni ’80.

Non me l’ero immaginato così.

Non fu un granché d’esperienza – infatti non l’avrei più ripetuta – però ricordo di aver avuto qualche conversazione interessante.

Verso sera ci radunammo intorno a un falò e ognuno si mise a esprimere il proprio parere su quelle cose e ognuno finì per raccontare qualcosa di sé. Rimasi colpito. Era come se le cose nel cielo avessero a che fare con la memoria, col dolore, col rapporto tra passato e futuro. E questa valeva per tutti. Raccontai anche io qualcosa. E quel qualcosa aveva a che fare con mia madre e con mio padre. Con le parole raccontai che non c’erano più e che mi mancavano, il resto lo raccontò il silenzio. E quelle persone, quegli sconosciuti, quella sera ascoltarono il mio silenzio e per questo sarò loro sempre grato.

Alcune settimane dopo arrivò in paese una mia vecchia amica. Con lei c’era la sua ragazza: una tipa snella che indossava degli occhiali che le riempivano il viso. Quando le incontrai al bar di mia zia, inizialmente, la mia amica fu stupita di vedermi. Fece il nome di lei e mi disse ch’era convinta fossi andato in città anch’io. Le dissi che il suo trasferimento era una cosa momentanea e che io non avevo potuto seguirla a causa del lavoro e che quindi avevamo deciso di prenderci del tempo, dopodiché glissai e le domandai cosa ci facesse in città. Mi rispose che volevano vedere le cose nel cielo, che dov’erano loro non c’erano e che così lei avrebbe potuto presentare la sua ragazza alla famiglia.

Mi offrii di accompagnarle al punto di osservazione e l’indomani, di buon mattino, eravamo già lì. Ricordo i loro sguardi mentre, mano nella mano, osservavano le cose nel cielo. Vidi il dolore di ieri e la luce incerta del domani e pensai che, forse, quelle cose erano venute proprio per farci vedere che nel domani la luce c’è, anche se non la vediamo. È strano come certi accadimenti che apparentemente non hanno nulla a che spartire con qualcosa, ti facciano pensare a quel qualcosa. E con le cose nel cielo era così. A me facevano pensare all’oltre, a ciò che viene dopo, a ciò che non può essere visto, alle cose alle quali smettiamo di credere, e alla speranza che esista davvero un oltre, un dopo, che esista ciò che non può essere visto, che esistano davvero quelle cose in cui abbiamo smesso di credere. A volte penso che credere in ciò che vorremmo esistesse sia l’unica cosa che possa dare un senso a tutto, e che le cose nel cielo abbiano a che fare proprio con questo.

In un certo senso, alcuni indizi lasciavano intendere che fosse effettivamente così. Alla televisione dissero che i campioni d’aria analizzati non avevano evidenziato alterazioni nella composizione atmosferica e che nessun fenomeno ottico o magnetico conosciuto fosse in grado di giustificare l’esistenza del fenomeno, senza contare che nessuna evidenza chimica o fisica o metereologica o chicchessia era stata riscontrata. Le cose nel cielo non erano misurabili. Non erano riconducibili a nulla. In un certo senso: non potevano essere lì. Non potevano esistere. Eppure, c’erano e il fatto che ci fossero, nonostante tutto questo, doveva pur significare qualcosa.

Trascorsi con loro – parlo della mia amica e della sua ragazza – diversi pomeriggi e diverse serate. Mi faceva piacere trascorrere del tempo in compagnia, ridere e scherzare. Mi allontanava temporaneamente dai pensieri che mi attanagliavano. Ricordo con piacere che una sera andammo al bar di zia, poco prima della chiusura, facemmo un aperitivo e mi presero in giro perché parlavo di nient’altro che di scelte di vita e di bivi e robe così. Mia zia s’accomodò con noi per un po’ e allora non parlammo né di lavoro né di scelte di vita né di futuro né di ambizioni o chicchessia.

A volte più che di cosa parli, conta di cosa non parli.

Fuori cominciava a far buio e le cose nel cielo brillavano più che mai. In quel periodo alcuni iniziarono a parlarne come fosse nient’altro che una sorta di aurora boreale, molti gruppi d’incontro si sciolsero, la gente tornava a pensare alla quotidianità. È strano come si faccia l’abitudine anche alle cose più impensabili.

Ricordo della vita che scorreva sotto alle cose nel cielo: il lavoro e i pensieri e la palestra e l’insonnia e le paranoie e i caffè e gli incontri e le proiezioni riguardo il futuro. A differenza degli altri, però, non mi ci abituavo mai – alla presenza delle cose nel cielo – e di tanto in tanto, verso sera, cercavo un punto isolato e mi mettevo a guardarle. Una sera mi affacciai al porto e mi accomodai su una panca nei pressi del molo. C’erano le luci della città e c’era una barca che ormeggiava, il suono dell’acqua, una coppia che passeggiava, qualche gabbiano. All’orizzonte iniziava ad apparire la luna – enorme e gargantuesca – e il concerto delle stelle faceva da sfondo al lumeggiare delle cose nel cielo. Pensai un po’ a tutto: a lei, a come sarebbe andata con lei, ai miei, a come avrei voluto condividere quel momento con loro, a me, a come avrei voluto sentirmi meno smarrito, a come avrei voluto avere una bussola.

Quella sera erano stupende, le cose nel cielo. Invadevano la notte a mo’ di convoglio stellare e lumeggiavano senza sosta e irradiavano e si riflettevano sull’acqua calma quasi a voler imitare il sole. E chissà che, in un certo senso, non volessero imitarlo per davvero. E chissà se non osservassero noi in maniera simile a come noi osservavamo loro.

Fu l’ultima sera in cui le cose nel cielo furono nel cielo.

L’indomani, al risveglio, trovai il telefono invaso da messaggi, accesi la tv e alla tv non parlavano d’altro.

Se n’erano andate. Le cose nel cielo se n’erano andate.

Sono passati molti anni da allora e da allora sono cambiate tante cose. Ci sono ancora studiosi che si occupano di decifrare ciò che accadde in quei giorni ma la ricerca non ha fatto mezzo passo in avanti, le teorie sull’origine delle cose nel cielo sono sempre le stesse e nessuna riesce ad essere suffragata da prove tangibili. Ma forse ci sono cose che non hanno bisogno di essere provate.

Mi piace pensare che un giorno torneranno. Che i cieli si tingeranno di nuovo di quei colori impossibili e che gli esseri umani guarderanno di nuovo verso l’alto e che i loro occhi verranno di nuovo bagnati dal riflesso di quelle luci sconosciute.

A volte guardo il mondo e vedo delle cose che non capisco, cose terribili alle quali non riesco a dare una spiegazione. Quando mi succede penso alle cose nel cielo.

Mi piace pensare che fossero venute qui per una ragione. Forse per dirci qualcosa. Qualcosa che ha a che fare con l’oltre, con la memoria, con la vita. Qualcosa che non siamo stati in grado di comprendere, che non eravamo pronti a conoscere. Mi piace pensare che torneranno quando lo saremo. Ma certe volte, guardando al mondo, mi viene da pensare che non lo saremo mai.   

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