L’archivio digitale è quanto di più fisico si possa immaginare

L’archivio digitale è quanto di più fisico si possa immaginare
Andreas Gursky, Amazon, 2016
[Tempo di lettura: 8 pignalenti]

Specie di archivi

Capita spesso, quando utilizziamo i nostri dispositivi, di dover eliminare alcuni file perché pesano troppo o occupano troppo spazio nella memoria. Non vale soltanto per gli smartphone, ma anche per supporti fisici specificatamente deputati alla conservazione di documenti come la chiave usb o l’hard disk. Ogni archivio, al di là della propria conformazione fisica o digitale, è in ogni caso uno spazio fisico atto alla conservazione di una qualche forma di memoria. Nel testo che segue, seppur brevemente e senza la pretesa di voler essere esaustivo, cercherò di individuare delle categorie significative per descrivere l’archivio da un punto di vista spaziale, anche tenendo conto della sua evoluzione da contenitore fisico a digitale (anch’esso del tutto fisico come si vedrà).

Quando parlo di archivio, mi riferisco al suo significato più ampio. Il museo, ad esempio, può essere considerato una specie di archivio, un luogo in cui vengono selezionate dalla moltitudine di opere d’arte esistenti, alcune che valga la pena esporre, ma soprattutto “registrare” al fine di essere tramandate. È meno controintuitivo di quanto si possa immaginare, ma i musei si muovono principalmente nel passato e nel futuro, e solo in minima parte nel tempo presente: si stima che, mediamente, solo il 3% delle opere d’arte incluse nella collezione dei più importanti musei al mondo vengano esposte e risultino quindi fruibili. Il restante 97% è tenuto in caveau blindati e inaccessibili dove la temperatura e l’umidità vengono controllate costantemente. Gli archivi sono quindi una tipologia architettonica molto specifica, spazi in cui la presenza dell’uomo talvolta è persino non auspicabile, progettati e costruiti esclusivamente per contenere cose.

Non solo il contenuto degli archivi è spesso invisibile, ma essi stessi lo sono, principalmente al fine di garantire la sicurezza e la conservazione dei materiali contenuti al loro interno. Un esempio è l’archivio progettato dello Studio LAN per Électricité de France, la compagnia energetica nazionale francese. L’idea alla base del progetto è un gigantesco monolite introverso, che grazie alla finitura specchiante della facciata si mimetizza nel paesaggio rurale in cui è stato costruito. Probabilmente, nei render mostrati alla committenza, l’effetto finale doveva essere più convincente di quello che possiamo osservare oggi che l’edificio è stato effettivamente costruito: più che mimetizzarsi nel paesaggio, sembra un oggetto alieno senza relazioni con il contesto che, invece di passare inosservato, attira l’attenzione su di sé.

La caratteristica dell’invisibilità sopra citata è stata raggiunta in maniera più convincente e forse anche più inquietante dall’archivio che i seguaci della Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni, meglio noti come mormoni, hanno costruito nello Utah, dove rappresentano più del 60% della popolazione totale. La ricerca e l’archiviazione di dati genealogici è per i mormoni parte integrante della loro dottrina religiosa: archiviano da sempre documenti che riguardano date di nascita, di morte e di matrimonio. Lo fanno, formalmente, per ragioni teologiche, ovvero per favorire il battesimo dei defunti, sacramento che, anche se ricevuto retroattivamente, darebbe la possibilità di tornare a vivere tutti insieme nei cieli. La costruzione in questo caso è avvenuta per sottrazione e non, come di consueto, per addizione. Il deposito sotterraneo di Granite Mountain, questo il nome ufficiale, è infatti composto da tre tunnel scavati in una imponente montagna che conducono ad un enorme caveau sotterraneo. Qui dentro sono conservati oltre 3,5 miliardi di microfilm contenenti i record genealogici di un numero impressionante di esseri umani, risalenti anche a secoli fa, nei cinque continenti, registrati grazie ad accordi con archivi, biblioteche e chiese in più di cento Paesi, tra cui il Ministero dei Beni Culturali italiano, che nel 2012 ha firmato un accordo con i mormoni per la digitalizzazione di milioni di documenti depositati nei registri civili. È possibile avere un’idea della potenza di questo archivio e della mole delle informazioni in esso contenute consultando il sito www.familysearch.org, una versione digitalizzata dell’archivio sopra citato dove è possibile consultare milioni di informazioni e copie di documenti al fine di ricostruire il proprio albero genealogico.

Dall’archivio fisico a quello digitale

Il passaggio dall’archivio fisico a quello digitale (comunemente denominato database), come nel caso appena citato, è ricco di implicazioni. La più evidente è il rovesciamento delle nozioni di ordine e caos nei due sistemi. Nel volume The second digital turn, Mario Carpo, architetto ed esperto in computazione, definisce “search don’t sort”, citando il motto originale di Gmail, il fatto che per un computer ricercare un file o un’informazione nel proprio sistema sia estremamente semplice, anche quando questi non sono organizzati. L’esempio di Gmail è rivelatore: un archivio di corrispondenza tradizionale doveva essere meticolosamente organizzato in ordine alfabetico del mittente, in ordine cronologico o secondo altri criteri, in modo tale che il documento richiesto fosse, all’occorrenza, facilmente consultabile. Con l’arrivo del computer questo sistema non aveva più ragione di esistere: i computer, infatti, sono molto efficienti e veloci nel ricercare per parole chiave e pertanto tutto il lavoro di organizzazione dei documenti non è più necessario.

Allo stesso modo, osservando due fotografie scattate a distanza di quindici anni l’una dall’altra, ci si accorge immediatamente della distanza siderale tra due tipologie di archivio almeno in teoria simili. Nella foto 99 cent, il tedesco Andreas Gursky immortala la spazialità e l’organizzazione di un ipermercato moderno. Non si tratta di un archivio in senso stretto, perché il fine ultimo di un ipermercato è il consumo e non la conservazione, ma il principio organizzativo alla base è il medesimo. La serialità, l’ordine, il rigore cromatico, l’organizzazione iper-razionale dello spazio e dei prodotti in esso disposti sono tutti i caratteri che Gursky vuole sottolineare con il suo lavoro. Caratteri di un archivio umano, del tutto razionale, di impianto “industriale”. Per comprendere il salto dall’archivio tradizionale a quello digitale, è utile osservare una seconda foto dello stesso autore, dal titolo Amazon, che ritrae un centro logistico dell’omonima azienda, rivelando un’organizzazione della merce radicalmente diversa da quella dell’ipermercato appena descritto. La differenza sostanziale è che, mentre il primo è uno spazio pensato per l’uomo, nonostante la grande scala, e che l’ordine e l’organizzazione razionale sono necessari per permettere l’orientamento dei consumatori, il secondo è uno spazio pensato per le macchine, in cui, come accennato prima, la componente umana è del tutto secondaria.

Qui l’ordine ha ceduto il posto al caos, la razionalità al caso, la linearità e la serialità alla complessità. Per meglio orientarci nel nuovo paradigma è utile spiegare, seppur brevemente, come funziona la logistica di Amazon e perché. Seppur ad una scala e con un livello di complessità enorme, l’idea dietro il funzionamento di un centro logistico di Amazon è proprio il “search don’t sort” citato prima: invece di organizzare i prodotti ordinatamente e secondo una logica “umana” come avveniva nell’ipermercato, essi vengono disposti in modo del tutto casuale, avendo cura però di registrare nel sistema lo scaffale e la cesta in cui è stato riposto il prodotto. Il sistema di funzionamento è assimilabile a quello di un gigantesco database, nel quale a ciascun prodotto è associata la sua localizzazione nel centro logistico. Questo metodo ha moltissimi lati positivi in termini di efficienza e velocità: in primo luogo perché gli operatori non devono curarsi di organizzare e ordinare i prodotti sugli scaffali; in secondo luogo, poiché il modo in cui facciamo acquisti su Amazon non è “ordinato” ed è possibile che ordineremo contemporaneamente, ad esempio, un libro e uno spazzolino, le probabilità che i prodotti siano vicini è maggiore che nel caso i prodotti fossero disposti in una logica tradizionale da ipermercato; infine, proprio a causa di questo grande disordine, per le macchine è molto più semplice riconoscere ed individuare i prodotti: se la merce fosse organizzata “ordinatamente”, sarebbe molto più facile confonderla. Ad esempio, è più facile confondere uno spazzolino blu per uno verde che uno spazzolino per un peluche. Amazon, quindi, è l’esempio perfetto di un archivio digitale, una metafora del rapporto che esiste tra fisico e digitale, originale e copia, offline e online. Un sito che mette in mostra la miriade di oggetti che caratterizzano la società del consumo in cui viviamo, a cui effettivamente corrispondono degli oggetti fisici stipati in centri logistici sparsi per il mondo, che ci raggiungono nelle nostre case al tocco di un clic.

L’archivio digitale è quanto di più fisico si possa immaginare

Nel 2020 veniva inaugurata al Guggenheim Museum di New York la mostra Countryside: The Future, curata dall’archistar olandese Rem Koolhaas. La tesi fondamentale presentata era che nonostante il presente dell’umanità sia irreversibilmente urbano (tesi messa a dura prova di lì a poco dall’arrivo della pandemia), il futuro fosse nei grandi spazi non antropizzati: la campagna. In un secolo circa, a livello mondiale, la percentuale di abitanti delle aree rurali e quelle urbane si è praticamente invertito, con una previsione al 2050 che vedrà oltre il 70% della popolazione mondiale in habitat urbani.

Il merito di Koolhaas è stato quello di sottolineare un fenomeno non evidente ma di sicuro interesse. In molte aree del mondo, infatti, rurale o non antropizzato, non ha più lo stesso significato che poteva avere anche solo qualche decennio fa. Oggi il countryside assume forme così automatizzate da non contemplare la presenza umana. Uno dei casi più emblematici è proprio quello dei data center, enormi archivi digitali, spazi pensati per essere abitati da macchine e non da uomini. Uno degli esempi citati da Koolhaas è quello del Tahoe Reno Industrial Center, un enorme comparto industriale nel deserto del Nevada, in cui si trovano i data center delle maggiori compagnie informatiche occidentali. Essi sono la materializzazione della rivoluzione informatica, la prova che digitale può significare etereo e immateriale solamente a patto di delocalizzare la sua componente fisica al riparo dai nostri sguardi. Anche in questo caso, come abbiamo visto per gli archivi fisici, l’invisibilità e l’inviolabilità sono le caratteristiche principali che ne garantiscono la sicurezza e il funzionamento. A fare da contraltare al mastodontico esempio appena citato, un esempio europeo, più misurato, ma altrettanto interessante: si tratta di Mare Nostrum, vincitore nel 2017 del premio “Most Beautiful Data Center”. Il data center si trova all’interno della cappella Torre Girona, nel campus dell’Università Politecnica di Barcellona. Nonostante sia oggi sconsacrata, la cappella conserva un’aura mistica, esasperata dal fatto che buona parte del suo spazio è occupata da un asettico volume vetrato contente decine di rack occupati dai server in funzione. Più che a un futuro distopico, dal punto di vista dell’architettura sacra, il parallelo più evidente è con le celle inaccessibili dei templi antichi, spazi e architetture senza uomo.

Vorrei concludere questa carrellata insistendo sulla componente fisica degli archivi digitali, non solo in termini spaziali come abbiamo visto fin qui, ma su quelli propriamente materiali. Mi piace accostare l’immagine del Tahoe Reno Industrial Center nel deserto del Nevada a quella delle miniere di litio nel Salar di Uyuni in Bolivia. Dal deserto al deserto, il litio – come molti altri metalli e terre rare- viene estratto per diventare una componente essenziale dei nostri archivi digitali. E ancora, nonostante sia difficilissimo da visualizzare, il carattere energivoro di questa infrastruttura, così grande da essere difficile da immaginare. Ci prova Guillaume Pitron, in La guerra dei metalli rari a fornirci un’immagine, tanto nitida quanto mostruosa:

Un documentario dedicato all’impatto ambientale di internet segue il percorso di una banale e-mail: parte dal computer, arriva nel router, scende dall’edificio, raggiunge un centro di raccordo, transita da una linea privata verso snodi nazionali e internazionali, poi passa attraverso l’host di posta elettronica (che di solito ha sede negli Stati Uniti). Nei centri di archiviazione dati di Google, Microsoft o Facebook, la mail è trattata, archiviata e poi inviata al suo destinatario. Risultato: ha percorso circa 15.000 chilometri alla velocità della luce. Tutto questo ha un costo ambientale: “L’ADEME ha calcolato il costo elettrico delle nostre azioni digitali: una mail con un allegato utilizza l’elettricità di una lampadina a basso consumo di forte potenza per un’ora” precisa il documentario. Ogni ora vengono scambiati nel mondo dieci miliardi di email, “quindi 50 gigawatt/ora, l’equivalente della produzione elettrica di quindici centrali nucleari in un’ora”. E per gestire i dati in transito e far funzionare i sistemi di raffreddamento, un solo data center consuma ogni giorno altrettanta energia di una città di 30.000 abitanti… Più in generale, uno studio americano stima che il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) consumi il 10% dell’elettricità mondiale e produca ogni anno il 50% in più di gas a effetto serra rispetto al trasporto aereo. “Se il cloud fosse uno Stato, sarebbe il quinto al mondo in termini di domanda di elettricità” spiega uno studio di Greenpeace.

Una volta chiariti anche i costi ambientali legati alla conservazione dei file e alla loro consultazione, sarebbe opportuno chiedersi, senza voler essere ingenui¸ cosa vale la pena conservare e cosa lasciare andare, in una società che produce miliardi di informazioni al secondo. Pensare all’archivio in termini ecologici non è solo necessario, ma auspicabile.

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