All’entrata della libreria, l’ampia zona dedicata ai consigli di lettura provenienti dal mondo di Tik Tok è vuota e il ripiano in cui solitamente sono allineati per ordine cromatico i Classici per l’infanzia editi da Ippocampo manca di colore. Si è fatta razzia durante il periodo natalizio. Rimane ammaccata, esule contro il tutto esaurito delle sue sorelle, un’unica copia del Giardino segreto scritto da Frances Hodgson Burnett nel 1910. La copia ghiacciava lì, un po’ riversa e solitaria, pretendeva di essere letta, o almeno sfogliata, data la cura estetica con la quale era stata realizzata, arricchita da inserti cartotecnici, pop up, missive da aprire, carte geografiche da dispiegare e illustrazioni mirabilmente dettagliate. La copertina si presenta come un rettangolo ben equilibrato di arancio pastello ed eleganti filigrane oro su cui troneggia il titolo in maiuscolo, circondato da raffinati riquadri barocchi. All’interno, colpiscono l’occhio alcune scene del romanzo illustrate dalla coppia di disegnatori MinaLima; mentre sul retro l’edizione dichiara che quella che si sta per leggere sarà: «un’emozionante avventura tra difficoltà, amicizia e felicità». Neanche questa discutibile frase promozionale mi ha fatto desistere dall’acquisto. Il libro rimane, infatti, indubbiamente, un bel prodotto, appagante allo sguardo. Se poi si aggiunge che le pagine sono state antichizzate e l’odore che emanano ricorda i vecchi libri, questo testo diviene un mirabile prodotto sensoriale. Non per forza un bello e buon libro, sicuramente però allieta i sensi.
La storia contenuta nel Giardino segreto è una storia semplice, quella di Mary Lennox, una bambina nata in India da una ricca famiglia inglese. Seppur all’apparenza un’edificante parabola di formazione femminile, la vicenda di Mary Lennox è, a ben guardare, quella di una famiglia di coloni simbolo del capitalismo occidentale di inizio Novecento. L’allure del martirio pende su Mary per il fatto che, dopo aver perso i genitori a causa di un’epidemia di colera (causata da certi indiani che poco sapevano, a detta degli inglesi, di toelettatura personale), si ritrova costretta a tornare nel Regno Unito per cominciare una nuova esistenza nella vecchia dimora dello zio Craven, un castello di regale imponenza che evidenzia il potere sociale ed economico della famiglia da cui Mary proviene. Hodgson Burnett ci tiene a mettere subito le cose in chiaro, dichiarando sin dall’incipit che: «Quando Mary Lennox fu mandata a vivere con lo zio a Misselthwaite Manor, tutti dissero che era la bambina più brutta che si fosse mai vista. Ed era proprio vero». Qui, tra momenti di disperazione, abusi e tanto bisogno d’amore, Mary cresce riuscendo alla fine a diventare una bambina bella e buona. Scopre, insieme all’amico Dickon e al cugino Colin, le meraviglie naturali che si celano dentro al giardino segreto scovato negli immensi territori dello zio. Mary è così finalmente pronta per divenire una perfetta adulta, figlia di un PTSD che solo diversi anni dopo avrebbe potuto esserle diagnosticato.
Questa storia riscuote ancora oggi molto successo, tanto da svuotare le librerie sotto il periodo di Natale. È ctonio ma imperante il modo in cui, nel corso degli ultimi anni, sia dilagata la moda della lettura di questo romanzo, la cui rivitalizzazione sembra partire dal mondo di BookTok, distillato di TikTok, dove si consigliano e recensiscono testi di svariato genere. Da qui, la fama è dilagata presto su altri social, giungendo così anche su Instagram e l’ormai arcaico Facebook. Imperano, ovunque, recensioni positive e ammirate, soprattutto da utenti anglosassoni figli dell’educazione che Burnett stessa auspicava nel proprio libro. Questa moda è però arrivata rapidamente anche in Italia. Si dice, in un post sul Tiktok italiano, che il Giardino segreto «è un romanzo di formazione. Parla di amicizia, di amore, di crescita e della magia delle piccole cose. E soprattutto parla di gioia»; il titolo compare anche nelle liste di libri da regalare, e pochi sono in generale i commenti negativi, perlopiù relativi alla noia provata durante la lettura, una nenia che è comunque capace di: «riempire di emozioni, [e in grado di] coinvolgere abbastanza all’interno della trama».
In Italia, in realtà, già prima dell’avvento degli influencer, questo romanzo ha goduto per generazioni intere di grande apprezzamento soprattutto grazie alla nostra tradizione letteraria. Il canone, infatti, ha inserito da tempo il romanzo di Burnett tra quei libri imprescindibili per una perfetta educazione infantile. E non a caso il testo viene sovente consigliato (o obbligato) tra le mura delle scuole medie.
La scelta di Ippocampo di rendere questo libro, insieme ad altri capisaldi della letteratura per l’infanzia, un classico bel prodotto confezionato, da regalare a bambine e bambini intelligenti di famiglia colta, la dice lunga su quello che, all’interno del nostro contesto sociale, viene considerato cultura, sapere imprescindibile ed essenziale per diventare grande. Basta, infatti, scorrere velocemente le pagine per trovarsi davanti l’immagine di una cartina raffigurante l’India, deformata a mo’ d’elefante e, mentre la pagina gira e lascia spazio a quella successiva, ecco davanti agli occhi un’altra eccitante illustrazione sul cui sfondo campeggia un Taj Mahal arancione circondato da cammelli ed elefanti muniti di copricapo, mentre i genitori di Mary, gagliardi, danzano al centro di tutto, protagonisti indiscussi con tanto di festone britannico.
È chiaro che leggere Il giardino segreto nel 2025 dovrebbe essere un esercizio di decodifica, un modo sovversivo per scardinare i dettami cancerogeni della pedagogia sociale insiti nella società. Ma è evidente, tra i gaudi commenti su Internet e il gran numero di versioni pubblicate e acquistate in libreria, che la maggioranza di chi lo legge, oggi, non riesce a vederci questo. Per la moltitudine Il giardino segreto non è un’opera spaventosa ma un meraviglioso libro per bambine che parla di fiori e amicizia.
È innegabile, però, quanto il concetto di romanzo di formazione sia cambiato nel tempo e quanto l’opera di Hodgson Burnett porti con sé tutti gli stilemi tipici dell’educazione di inizio Novecento che agli occhi di una lettrice odierna, fanciulla o adulta che sia, risultano ostili, fastidiosi, se non proprio anti-educativi. Quella che Mary compie nel corso del romanzo è sì infatti una maturazione ma di stampo esclusivamente culturale che poco ha d’istintuale. Il giardino, descritto come un tradizionale locus amoenus, un luogo onirico in cui Mary e i suoi amici possono essere liberi di raccontarsi a vicende storie fantastiche, ascoltandosi reciprocamente e dilettandosi con l’arte narrativa come dei novelli personaggi del Decameron boccacciano, ne è in realtà una deformata parodia: un luogo di clausura, stretto e recintato, entro cui Mary, Colin e Dickon possono solamente fingere che gli orrori e le ingiustizie del mondo lì non giungano. Fra i pop up disseminati nel testo ve n’è uno che raffigura la mappa 3D di questo fantomatico giardino. Alzando i lembi di carta è possibile scorgere un box riccamente decorato di piante rampicanti e rose rosse, recintato da un alto muro e chiuso a chiave da un cancello.
Questo è il Giardino segreto, a parole a disegni.
A livello narrativo colpisce sin da subito il modo in cui Mary (una bambina che da pochissimo ha perso entrambi i genitori e che vive, di rimando, una condizione di lutto e di enorme solitudine e isolamento dagli affetti) viene severamente rimproverata per essere cattiva, aggressiva, detestabile da tutti. Mary, in realtà, è solo una bambina vittima del proprio ambiente, cresciuta in una realtà ostile, senza nessun amico e a cui erano riservate poche cure da parte degli adulti. L’autrice afferma – senza però alcuno sguardo critico a riguardo – che per sfuggire all’epidemia di colera in India: «Mary si nascose nella stanza dei bambini e fu dimenticata da tutti. […] Nessuno veniva; mentre lei aspettava, la casa sembrava sprofondare sempre più nel silenzio». La solitudine, l’isolamento infantile e il doversela cavare da sé di cui questo libro è intriso, erano parte integrante del sistema educativo della cultura occidentale di inizio Novecento. Con gli occhi attenti e con la sensibilità psicologica e pedagogica che ci è stata consegnata dal secolo scorso, invece, si può vedere in Mary un personaggio vittima della società e non una creatura mostruosa, nata cattiva di per sé.
Ed è per questo che Katharina Rutschky, sociologa e scienziata dell’educazione nata nel 1941 a Berlino, avrebbe definito Il giardino segreto il manuale della pedagogia nera; termine da lei stessa coniato e presente per la prima volta nella sua opera Schwarze Pädagogik pubblicata in Germania nel 1977. Lo scritto di Rutschky è stato a lungo ignorato, soprattutto in Italia, vedendo solo recentemente una sua traduzione per Mimesis Edizioni nel 2015. In quest’opera, l’autrice delinea le violenze agite su bambine e bambini, attraverso esempi tratti da testi pedagogici e di educazione infantile che risalgono fino al Settecento. Si denota, così, una connessione tra i traumi vissuti in giovane età e le ripercussioni che essi hanno sulle generazioni future. Come scrive Paolo Perticari, docente di Pedagogia generale e Filosofia della formazione all’Università degli Studi di Bergamo, nell’introduzione all’edizione italiana dell’opera, la pedagogia nera è un «adattamento alla vita che giustifica l’abuso emozionale in nome dell’esercizio di un potere esacerbato». Rutschky spinge a riflettere sul concetto di educazione occidentale e su quanto esso sia correlato a discorsi sulla violenza, sulla distruttività dell’autostima dell’infante e sul rispetto quasi dittatoriale che si deve assumere nei confronti di chi ci educa. La concatenazione di traumi delle persone cresciute attraverso la pedagogia nera, che diventano genitori e perpetrano a loro volta sulla propria prole questi atteggiamenti, diviene un ciclo infinito di violenza. Questo approccio educativo assume infine i connotati di una mentalità collettiva, un «virus cancerogeno» come lo definisce Perticari, un «trauma transgenerazionale» che legittima, anzi concepisce come unica educazione quella del potere violento e del sopruso infantile, creando così negli esseri umani, adulte e bambini, un’abitudine alla sofferenza: i fiori del Giardino segreto profumano di silenzi obbligati, e marcescente è l’idillio che attraverso la propria illusoria bellezza si fa mezzo di pedagogia del male.
Sin dalle prime pagine assistiamo alla brutalità dei trattamenti che subisce la piccola protagonista, il tutto per evitare che cresca debole e dedita ai capricci, un atteggiamento che viene descritto da Hodgson Burnett come del tutto conforme e normalizzato per la società dell’epoca, tanto che: «La signora Medlock non si preoccupava minimamente di [Mary] e dei suoi pensieri. Era quel tipo di donna che non tollerava sciocchezze da parte dei ragazzi». L’aspetto emotivo era considerato qualcosa a cui non dare troppa importanza. Si considerava che bambini e bambine non provassero vero e proprio dolore. L’autrice, a questo proposito, descrive la protagonista come una bambina che pensa solo a se stessa, completamente incapace di provare empatia o sentimenti d’affetto nei confronti degli altri esseri umani: «Mary […] non piangeva per la morte della sua balia. Non era una bambina affettuosa e non si era mai preoccupata per gli altri»; addirittura si dice di Mery che le: «piaceva guardare sua madre da lontano […] ma […] quando morì non ci si poteva aspettare che l’amasse o che ne sentisse la mancanza».
Il Giardino segreto di Burnett è anche una sorta di Paradiso terrestre, in quanto fortissima risulta l’impostazione educativa a stampo cristiano, un approccio che la sociologa Katharina Rutschky annovera tra i fondamenti della pedagogia nera. La religione, infatti, così come le regole, la disciplina ferrea e i dettami impartiti intransigentemente dalle figure adulte servono a rendere fanciulle e fanciulli servi del potere, persone che pian piano perdono – per via delle ripercussioni fisiche e mentali che subiscono se non rispettano la legge adulta – la propria voglia di scoprire il mondo: «Dickon era in piedi tra gli alberi e i cespugli di rose e cominciò a cantare con semplicità, con una voce molto chiara “Lode a Dio per tutto ciò che crea / Lode a Lui da tutte le creature della terra, / Lode a Lui dei cieli / Lode al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. Amen”». Così tra invocazioni, riti sacri e rituali laici da seguire pedissequamente si abbandonano gli istinti naturali: gli impulsi sono assoggettati a un volere di predominio che ingloba qualsiasi sua spinta vitale. Mary, infatti, giunta nella sua nuova casa presso i Cover, viene subito ammonita: «E non aspettatevi neppure che ci sia qualcuno a parlare con voi. Dovrete giocare e badare a voi stessa da sola. Saprete in quali stanze potrete entrare e in quali non dovrete mettere piede. […] Quando sarete in casa non dovrete gironzolare e ficcare il naso dappertutto».
Che dire poi del ruolo dell’adulto in tutto questo? In Burnett persiste l’idea che l’educatore, come un giardiniere, abbia il dovere di coltivare il proprio terreno, cioè il ragazzo, al fine di farlo crescere rigoglioso, sano, dai giusti principi. A questo concorre il valore positivo che viene attribuito alla vita di campagna e all’aria aperta in severo contrasto con la vita di città. È così che il giardino della villa dei Cover diviene l’emblema della rinascita di Mary: «In un luogo si recava più spesso che in altri, ed era il lungo viale all’esterno dei giardini». Se, infatti, all’inizio del romanzo «Mary Lennox […] era la bambina più brutta che si fosse mai vista. […]», alla fine diverrà una bambina bella e sana, forte e benvoluta, proprio grazie all’influenza che la puericultura ha avuto su di lei.
«Dopo alcuni giorni passati quasi interamente all’aria aperta una mattina [Mary] si svegliò sapendo cosa volesse dire aver fame». Essenziale in questo quadretto di sana e robusta costituzione, l’aria fresca: toccasana e fondamentale per temprare i caratteri, per rendere i corpi agili e forti. Non è un caso che le prime illustrazioni del libro riportino una Mary dalla corporatura più grassa e con la faccia corrucciata, man mano sempre più leggiadra e serena nelle ultime rappresentazioni del romanzo. A questo concetto si lega la riflessione sui corpi forti e sui corpi deboli, i corpi che sopravvivono alla catastrofe e quelli che ne soccombono. L’iniziale magrezza di Mary viene associata alla sua secchezza emotiva, al contrario nel corso del romanzo il suo aumento di peso sta a indicare il suo progresso come essere umano, la sua capacità di smussare gli angoli caratteriali, diventando una bambina più morbida e buona. Uno strano e quasi sbalorditivo contrappasso rispetto a come siamo oggi abituati a vedere il corpo. Un atteggiamento che, però, allora come ora, compara i corpi alle caratteristiche intrinseche delle persone.
E di corpi in questo romanzo se ne parla molto e al centro di tutto, oltre a quello sano di Mary, vi è un corpo disabile, quello di Colin. Il motivo abilista con cui viene trattato questo argomento vede una parabola ascendente che culmina nella ritrovata capacità di camminare da parte del bambino. Rimpolpato, sbaragliata la propria depressione e la propria somatica cagionevolezza, in grado di camminare e dal colorito meno cadaverico, Colin può finalmente ricevere l’amore e l’attenzione del padre. Solo acquisendo un corpo “valido” e sano egli può meritare l’amore della sua famiglia e degli amici. Ed eccolo infatti, nell’illustrazione che conclude l’opera, per mano con suo padre, in piedi, le guance pallide aggraziate da due piccoli soli rosa: «a testa alta e con gli occhi ridenti, camminava, con il passo fermo e sicuro dei ragazzi dello Yorkshire… Il signorino Colin!», commosso e promosso alla sezione degni alla vita.
Un testo inquietante dunque, Il giardino segreto, apologetico, storicamente disturbante e pregno di pedagogia nera che non a caso viene ripresa a livello cinematografico dal regista Michael Haneke nel nel film del 2009 Il nastro Bianco per riflettere sulle radici nel nazismo e i debiti morali che questo tipo di educazione ha sui corpi e sulle menti di ragazze e ragazzi.
Ma quello di Burnett è un libro che nonostante l’orrore riesce ancora a catturare un qualche bisogno delle persone adulte. Siano esse nostalgiche, insegnanti, genitori convinti che operazioni come quella di Ippocampo siano un ottimo modo per inserire precocemente la prole di cui si occupano nel mondo del successo e dell’onore culturale: se hai letto il Giardino segreto a dieci anni non potrai mai essere, da grande, un outsider. L’edizione piacevole, poi, arricchita da colori accecanti e da illustrazioni favolose, non fa altro che diffondere in modo carino quelle idee nere che hanno plasmato e che continuano, cancerogene, a diffondersi nella società.
Il professor Gianluigi Simonetti nel saggio La letteratura circostante delinea il presente letterario come estremamente povero di genio, così asfittico che l’unica soluzione parrebbe rimaneggiare la tradizione, rituffarsi nel Novecento per tirar fuori qualcosa che abbia un proprio peso, un valore seppur lontano dai bisogni contemporanei ma che culturalmente si possa considerare “valido” (un po’ come il corpo di Colin quando torna a camminare). Sembra, per Simonetti, che la scrittura di oggi, storpia e quindi non buona, non sia più in grado di piacere al canone, entrarvici dentro. Ci sono secoli che più di altri hanno formato la nostra percezione di ciò che viene considerato “cultura”. Il fine Ottocento da cui proviene Burnett e l’inizio Novecento durante il quale Il giardino segreto è stato scritto sono per noi, ancora, dei modelli da seguire a fini letterari. Sono archetipi narrativi che, nonostante il passare degli anni, contribuiscono a determinarci come società.
Genitori, lettrici e lettori appassionati e insegnanti legati alla tradizione credono ancora che queste opere siano pietre miliari della Storia, quella in cui figlie e allievi debbano imprescindibilmente inserirsi. Vedono nel Giardino segreto una vicenda innocua proprio perché capace di stimolare la mente infantile a diventare come la loro, a condividerne i principi e i valori. A demarcare il giusto dal non giusto.
Forse oggigiorno questo testo non è poi così imprescindibile, se non per stimolare riflessioni sul tempo e sul concetto di formazione. Sta di fatto, però, che nella versione di Ippocampo, insieme ai suoi fratelli, ordinati per colore, anche Il giardino segreto, immerso nei mortiferi pavimenti di marmo o dentro le aule dalle pareti neutre, è capace di rendere l’ambiente vivace, azzarderei vivo.
Come albi illustrati non funzionano male.
Sulla mia libreria, almeno, confermo che non sfigurano.
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