Di recente il mio telefono ha vibrato, illuminando sullo schermo una vecchia foto in cui io e una persona a me cara ci abbracciamo sorridenti. Un momento felice, annunciava la notifica. Soltanto che quella persona, oggi, non c’è più. Mi sono sentita violata: tra le mani il mio telefono come un macigno. L’ho studiato interrogandomi: quest’etto, etto e mezzo, ma quant’è che pesa veramente?
La tecnologia oggi è un groviglio di input su misura, un sistema ormai imprescindibile modellato sulle nostre necessità: l’accesso immediato alla conoscenza, l’iperconnessione e l’intrattenimento modellano la nostra percezione della realtà e la nostra relazione con essa, a scapito delle competenze tradizionali. Penso, ad esempio, all’uso del GPS, che ha ridotto drasticamente la capacità di leggere mappe e di orientarsi, all’autocorrezione che ha peggiorato le abilità ortografiche, alla memoria esternalizzata che ricorda tutto al posto nostro. Osservo mia nonna che cucina e cantilena poesie imparate alle elementari; noi segniamo la lista della spesa nelle note del telefono. Abbiamo rivoluzionato il nostro modo di abitare il mondo, affidando alla tecnologia insegnamenti, informazioni, dati, dubbi, ricordi. Le abbiamo consegnato la nostra storia e, peggio, la nostra memoria. Lei ha assorbito tutto e il risultato è una creatura pulsante fatta a nostra immagine e somiglianza, che custodisce il nostro intero immaginario.
In questa matassa caotica di messaggi, foto e video stipati nella galleria, nel drive e nei vecchi hard disk impolverati, ci sono però più di semplici dati. Queste tracce sonore e questi pixel, che accumuliamo qua e là nel nostro vivere virtuale, custodiscono un sottotesto ben più potente: la sfera dei sentimenti. In questa sfera risiede il rischio che la tecnologia, addentrandosi in un territorio di intrecci misteriosi, intimi e irriducibili, possa ridurci a unità prevedibili, a schemi calcolabili. Il pericolo, cioè, è che la tecnologia maneggi l’emotività come materia grezza, e non come la manifestazione più alta dell’essere umano, l’espressione più enigmatica, in cui persino il nostro linguaggio (a cui deleghiamo il compito di tradurre la sostanza della vita in argomenti comprensibili) appare limitato. Questo aspetto della tecnologia, che si insinua nelle dimensioni più profonde dell’esperienza umana, solleva interrogativi etici su cosa siamo disposti a sacrificare per mantenere la sua onnipresenza nella nostra vita.
Nell’episodio di Black Mirror Be Right Back, una donna perde il marito in un incidente stradale e, spinta dal dolore, scarica un’applicazione capace di simulare conversazioni con il defunto, basandosi sui suoi dati digitali. La protagonista decide poi di acquistare un livello successivo del servizio: un avatar fisico, un corpo sintetico che replica il marito in ogni dettaglio. Inizialmente entusiasta di questa presenza, scopre presto che l’avatar, pur rispondendo e comportandosi come lui, manca di imperfezioni, emozioni autentiche e tratti imprevedibili che lo rendevano unico. L’episodio esplora l’intersezione tra tecnologia e lutto, mostrando come il tentativo di colmare l’assenza possa generare nuove forme di sofferenza e alienazione: cosa accadrebbe se il dolore, anziché essere attraversato e trasformato, venisse riprodotto e controllato, alterando così i delicati equilibri interiori del vivere umano?
Poco tempo fa, l’immaginario distopico di Black Mirror sembrava un’utopia tecnologica possibile ma ancora lontana; oggi i griefbot (letteralmente “robot del lutto/dolore”) trasformano quella trama in una possibilità tangibile. Attraverso fotografie, messaggi vocali e testuali, questi software permettono infatti di interagire con la replica virtuale di persone defunte. È diventato virale un video in Corea del Sud, dove una madre ha “rivisto e parlato” con la figlia scomparsa. Questo evento ha sollevato interrogativi psicologici ed etici: Il Post, ad esempio, osserva che i griefbot, pur sembrando una soluzione che allevia il dolore, rischiano di creare una versione distorta della realtà, favorendo un’illusione di permanenza dannosa; anche su Undark Magazine si è criticato l’uso dei griefbot, evidenziando che, nonostante la loro crescente popolarità, mancano prove scientifiche a supporto della loro efficacia nell’elaborazione della perdita. Tuttavia, i griefbot non sono l’unica tecnologia che penetra nello spazio sacro del lutto: anche Replika, un’applicazione nata per essere una sorta di compagnia online, ha evoluto la sua funzione diventando uno strumento per interagire con chi non c’è più. Gli utenti possono infatti “comunicare” con una versione digitale di persone scomparse tramite una chat che, oltre a rispondere a domande standard, riproduce conversazioni secondo le abitudini, il linguaggio e le emozioni che l* defunt* hanno condiviso durante la vita. Con Replika l’esperienza della perdita viene quindi sostituita da un’interazione continua che trascende la memoria storica di una persona: se un tempo il ricordo di chi avevamo amato rimaneva in una dimensione più astratta, legata alla riflessione personale o alle commemorazioni, ora è possibile chattare con un defunto. Non solo un mezzo che rievoca una persona, ma un tentativo di mantenere vivo un legame emotivo, di resistere alla separazione, spesso a discapito del processo naturale di guarigione.
Queste trame tecnologiche si insinuano in tutti i pertugi digitali, riducendo il passato a un sistema di codici e dando vita a un’equazione tanto logica quanto inquietante: abbiamo modificato in modo radicale il nostro approccio alla vita e, di conseguenza, anche l’esperienza del lutto assume nuove sembianze. Lo fa ad esempio attraverso algoritmi, che con la loro logica predittiva ci spingono a interagire con chi non c’è più: “Ehi, perché non scrivi ad Anna? È un po’ che non vi sentite”; Facebook ci suggerisce di celebrare “questo giorno, dieci anni fa”, perché un algoritmo decide che è il momento giusto per ricordare. I social sono autonomi e fanno così, ripropongono video o post che ritornano nei nostri feed, senza preavviso: compleanni di persone defunte, anniversari di eventi che non abbiamo ancora superato o ricordi che non abbiamo voglia di spolverare.
Come possiamo confrontarci con una memoria digitale così pervasiva, che non si ferma mai, che agisce priva di sensibilità? Il rischio è duplice: da una parte, prolungare l’attaccamento a una rappresentazione statica, congelata, del defunto; dall’altra, alterare il nostro rapporto con il dolore che è, forse tra tutti, il sentimento più complesso da raccontare, e che oggi rischia di essere trasposto in dimensioni che lo snaturano. In un’epoca in cui si inneggia all’ubiquità e all’eterno presente, dove i confini geografici e temporali si fanno fragili e sfumati, la vera sfida non è più conservare la memoria, ma imparare a gestirla; l’impressione, invece, è che l’innovazione tecnologica stia scardinando l’equilibrio umano. Social e dispositivi personali ci intrappolano in un eterno presente, manipolando il nostro passato e ridisegnando il nostro rapporto con il tempo.
Il lutto, tradizionalmente, aveva i suoi tempi, i suoi riti; oggi sembra accelerato, schiacciato tra ritmi frenetici. La memoria non sfuma: rimane lì, immutata, pronta a riaffiorare attraverso immagini perfettamente nitide, mentre le tecnologie raccolgono dati digitali per creare avatar postumi. Oltretutto, gli “io digitali” sono statici, limitati ai dati disponibili online, e rischiano di cristallizzare un’immagine parziale e non evolutiva del defunto.
Il ruolo delle tecnologie nella memoria e nel lutto trova ulteriore approfondimento nel concetto di ‘lutto impossibile’ introdotto da Sherry Turkle, sociologa e psicologa statunitense, esperta nell’analisi dell’impatto delle tecnologie digitali sulle relazioni umane e sull’identità. Nel libro Alone together. Why we expect more from technology and less from each other (di cui approfondisce le tematiche in questo TED del 2011), Turkle sostiene che nell’era dei social siamo connessi in modo troppo pervasivo, o semplicemente troppo, per poter lasciar andare. Qualcuno potrebbe obiettare che questa forma di memoria digitale è una possibilità preziosa per conservare ciò che ci è caro, ma c’è una differenza fondamentale tra conservare e rifugiarsi in una realtà ingannevole: nel primo caso, il passato si colloca in un tempo separato, dandoci la possibilità di accettarlo ed evocarlo quando ne abbiamo desiderio, nel secondo il confine tra passato e presente si dissolve, e il dolore può diventare un vortice. Della fragilità emotiva che contraddistingue l’epoca del digitale, Paolo Crepet dice: “Il persistente confronto col passato rende impossibile alla sofferenza di sfumare. Questo stallo emotivo non permette più alla persona che ha subito una perdita di elaborare il lutto in modo naturale, ma la costringe a vivere una condizione sospesa, la imprigiona in un ciclo di memoria in loop”. Con l’avvento dei social e delle piattaforme di comunicazione, abbiamo infatti imparato a convivere con una condizione di memoria permanente, dove le immagini e i suoni che rievocano il passato si mescolano alla vita quotidiana, senza lasciare il tempo necessario per elaborare le emozioni.
La questione del lutto nel XXI secolo è un invito a ripensare la nostra relazione con il tempo, la memoria e la sofferenza. Il digitale, se da un lato ci consente di mantenere il contatto con ciò che è stato, dall’altro ci costringe a convivere con fantasmi che essa stessa alimenta, in una condizione di “non distacco” dove il lutto non ha la possibilità di decantare nel tempo e ci ingabbia in una dimensione senza fine. Interrompere questa perpetua ripetizione dei ricordi e fare spazio al dolore non è solo un atto di disconnessione tecnologica ma è anche, e soprattutto, un movimento interiore, che ci restituisce il tempo che meritiamo per elaborare. Scriveva Simone Weil in L’ombra e la grazia: “Accettare la perdita è accettare il vuoto, e il vuoto è ciò che permette di ricominciare”. Forse la risposta sta nel rendere questo vuoto uno spazio in cui il dolore può sedimentarsi, lasciando che il silenzio, l’assenza e la nostalgia ritrovino il loro ritmo. D’altronde la sofferenza non è lineare, e non scompare: cambia forma. Per questo motivo, l’accettazione del vuoto diventa un atto di liberazione, e di coraggio.
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