L’immagine di mia madre, la formica regina, è la prima che ho scorto schiudendo il bozzolo, poggiando le zampette sul terriccio umido dei piani più bassi del formicaio, scalciando sotto l’attenta vigilanza delle anziane: un’effigie che avrei rimirato per sempre, se non mi fosse stata strappata via con ferocia.

Il nostro regno si trovava nei pressi di una grossa abitazione umana, una tenuta di campagna circondata da ulivi e filari di viti intervallati da piantagioni di insalata, angurie, zucchine, pomodori, verze e ogni sorta di vegetale. Sotto i campi coltivati era tutto un affaccendarsi di formiche operaie, fra tunnel da scavare, provviste da trasportare, scorte da impilare, pulizie da compiere, piccoli da allevare: ho imparato presto che non ci annoiamo mai, al massimo entriamo in una specie di letargo durante la stagione fredda, ma senza mai smettere di pensare a come estendere e migliorare la struttura della nostra casa.

Da subito ho rivelato una certa precocità: nel giro di poche ore ho perso il colore smorto tipico delle neonate, un processo che di solito richiede giorni, ed ero pronta a cercare il cibo all’esterno, camminare svelta, arrampicarmi sui fili d’erba bagnati di rugiada. La pioggia che aveva accompagnato la mia nascita, però, non cessava di cadere: le gocce d’acqua appesantivano le pareti di terra, sfondavano le costruzioni, allagavano interi scompartimenti. Mentre le mie sorelle e i miei fratelli giacevano spanciati al suolo, lasciando che sgobbassero gli altri, io fremevo, sgambettavo avanti e indietro, curiosa di verificare se i miei arti reggessero, di misurarmi con piroette e passi lunghi; impaziente di mettermi al servizio della macchina infinita che mi si dispiegava dinanzi. Le mie smanie hanno finito per innervosire la regina, preoccupata per le sorti del suo reame. Ha drizzato le antenne e mi ha ricacciata in un angolo. Lì ho percepito per la prima volta l’odore che emanava da arrabbiata.

Dopo cinque notti e sei dì è tornata la luce, ha squarciato le nuvole lanuginose, si è insinuata nelle fessure del formicaio, mi ha scompigliato il campo visivo e alterato i punti di riferimento. Sono corsa da mia madre; ho turbato il suo sonno gentile rizzandomi sulle zampe posteriori, battendole il torace con colpi tenaci, morbosi, invadenti. E così ho scoperto i raggi solari, un calore che mi avrebbe accarezzata per molti mesi prima di affievolirsi un pomeriggio d’estate, quando è avvenuta la tragedia.

La mia prima gita all’aperto è stata in inverno, durante la potatura delle viti. Gli umani si spostavano lungo la vigna con i loro trattori mastodontici: armati di grosse cesoie, recidevano i rami sottili e deformi, strappavano le gemme in eccesso e le gettavano dentro secchi profondi; gli uomini bevevano vino cotto per riscaldarsi, le donne improvvisavano canti popolari avvolte nei loro scialli di lana.Io e mia madre ci arrampicavamo sul legno nodoso, procedevamo in cerca di afidi, gli insetti che producono una sostanza chiamata melata, di cui noi formiche siamo ghiotte. La regina mi aveva messa in guardia: gli umani odiano gli afidi, li considerano pidocchi da eliminare; e noi con essi.

Io ero affascinata da quel vociare, tenevo le antenne tese anche durante il trasporto degli afidi verso il formicaio, dove li avremmo allevati e protetti, fedeli a una simbiosi che dura da secoli tra la nostra e la loro specie.Il giorno della disgrazia ho sonnecchiato fino a tardi, pigra, stordita dal caldo. La vita nel formicaio era cominciata da parecchio; la sagoma di mia madre troneggiava tra le operaie, impartiva ordini, controllava lo svolgersi del lavoro, si imponeva all’occorrenza.

Mi figuravo al suo posto, ferma, decisa, con l’ascendente di una quercia secolare. Io, però, sebbene adulta ormai, ero una formica stramba, inaffidabile; sapevo che non sarei mai stata una regina: avrei indossato la corona solo nella fantasia, accontentandomi di raggiungere la pienezza attraverso le valorose azioni di mia madre, ricolma della stima che nutrivo per lei.Siamo uscite approfittando della calma intorno all’abitazione umana. A gran fatica rimanevo in fila dietro alla regina come le mie sorelle e i miei fratelli: ero attirata ora da una vibrazione, ora da un odore, ora da una variazione di umidità.

Mentre seguivo mia madre attraverso un ampio spazio rivestito di cemento, un liquido denso ha calamitato la mia attenzione. Sembrava la schiuma prodotta dalle sputacchine, ma comprendevo da sola che non poteva trattarsi di loro: non eravamo in un prato; accanto a noi regnavano staticità e morte, la vita era come sospesa, messa in pausa. Mi sono avvicinata all’ammasso gigantesco e brillante: ci ho affondato le zampe, l’ho annusato, però non riuscivo a capire quale fosse la sua natura, da che entità derivasse. Mia madre mi ha richiamata con uno scossone, agitando le sue enormi membra, facendomi segno di pulire la sozzura in cui mi ero immersa.

Perché tanto allarme? Come può un agglomerato simile a un diamante costituire un pericolo? La risposta mi è giunta di lì a poco, quando la regina ci ha disposte in cerchio posizionandosi nel mezzo e tramite un potente rilascio di feromoni ci ha trasmesso la vera essenza degli umani.Apprendemmo che le persone sputano – per necessità, per vezzo, per noia – e che noi per loro valiamo meno del risultato di quel gesto: un miscuglio di scarti proveniente dalle labbra, un cumulo di schifezze, un’accozzaglia di saliva, resti di cibo.

Mi sono ripromessa che al pasto successivo avrei provato a sputare, per capire che effetto facesse espellere i rifiuti del corpo dalla bocca, per attribuire una rilevanza a ciò che ne sarebbe conseguito. Intanto avevo ripreso a trotterellare con le antenne dritte; mi spostavo di qua e di là in cerca di una novità, un gingillo attraverso il quale scoprire il mondo, una cianfrusaglia con cui distrarmi.

La regina però mi controllava a vista, timorosa che potessi allontanarmi di nuovo compromettendo la mia incolumità, mettendo a repentaglio la sicurezza del gruppo. La reputavo esagerata: non ero certa che fosse stata sincera millantando le virtù delle formiche e attribuendo agli umani qualità mostruose; speravo che distogliesse lo sguardo lasciandomi libera di esplorare l’ambiente limitrofo, dare sfogo alla mia sete di sapere, acquietare la mia insofferenza. Eravamo ormai al centro dello spiazzo: l’asfalto bruciava, l’aria era ferma come l’ago di un metronomo rotto; la calura estiva amplificava l’immobilità del primo pomeriggio.

E poi è successo: l’ho vista morire schiacciata da un’enorme calzatura di tela con la suola grigia di polvere e sporcizia, lurida al pari di chi ci poggiava il piede. Se a uccidere mia madre fosse stato un colpo di zappa o il passaggio di un aratro, non mi sarei disperata a tal punto, ma la putredine in cui è affogata mi si è attaccata addosso: me la sento ancora sulle zampe, sulle antenne; aleggia nel formicaio, insozza le briciole messe da parte per l’inverno. All’umana, quel sudiciume, non glielo perdonerò mai.

Volevamo gridare, ma le formiche non possiedono voce: noi non parliamo, non urliamo, non piangiamo; cerchiamo di articolare un qualche suono, per poi finire a struggerci nel mutismo, involucri impotenti che si dimenano convulsi, fendendo l’aria lì dove è più prossima al suolo, immonda per definizione. La carcassa di mia madre riposava schiantata sul grigio, distrutta, con l’addome spiaccicato al terreno, una pozza di vomito accanto alla mandibola, le antenne flosce, le zampe rattrappite, contratte in un ultimo sforzo. Un attimo prima di spegnersi deve aver provato odio verso chi ci disprezza perché diverse, inutili all’apparenza, microscopiche nei nostri corpi neri, unti, scivolosi, ripugnanti alla vista e al tatto. O siamo fastidiosi animaletti da sopraffare o spettri invisibili la cui scomparsa definitiva è un evento irrisorio: nell’uno e nell’altro caso rappresentiamo delle nullità.

Ci siamo caricate il cadavere, abbiamo iniziato a trascinarlo verso il formicaio con movimenti pesanti, tristi, dolorosi. La giovane e smisurata umana continuava a tenere la testa rivolta nella nostra direzione; senza che li esternasse, riuscivo a indovinare i suoi pensieri, mi pareva di captarli grazie alle antenne protese in avanti: ci considerava animali selvaggi, bestie prive di anima, contenitori imbottiti di organi e sangue; non si aspettava che conoscessimo lo strazio, che potessimo viverlo.

Le spoglie della regina erano disfatte e ben presto sarebbero anche imputridite. Me la immaginavo sepolta sotto il suo regno, rosicchiata dai ragni, ridotta a una poltiglia scura per nutrire i vermi, declassata a cibo per i parassiti. Ho ributtato anche io, proprio come lei prima di esalare il suo ultimo respiro, nauseata dal marciume dell’universo, che poi si riversa nelle carogne. Di colpo mi sono ricordata dei moniti di mia madre, ho compreso che aveva ragione: per gli umani noi formiche valiamo meno di uno sputo. Nessuno si sognerebbe mai di calpestare con violenza uno sputo – che senso avrebbe? – mentre delle nostre carcasse le scarpe sono piene.

L’umana ci scrutava sorpresa, con la postura fissa, attenta a non lasciarsi sfuggire neanche un passo delle cinque formichine che strascicavano la salma della loro madre, una formica regina che lei aveva ucciso senza motivo, solo per il gusto di affermare la propria superiorità; nella mano destra stringeva un gelato ormai sciolto, gocciolante, appiccicoso. Con le pupille ci ha seguite fino all’ingresso del formicaio. Di tanto in tanto mi voltavo, la scorgevo ancora intenta a domandarsi se davvero le formiche avessero un’anima e come mai lei non se ne fosse accorta; leccava il cono con la sua lingua viscida, somigliante a quella di un formichiere.

Mi sarebbe piaciuto trasformarmi in umana soltanto per ergermi in piedi di fronte a lei, sbatterle in faccia che sì, le formiche possiedono un’essenza, un cuore; provano dei sentimenti su cui le persone non si fermano mai a riflettere, perché non vale la pena perdere tempo a interrogarsi su una congettura che si ritiene inferiore alle scorie espulse con noncuranza da una qualsiasi mucosa del corpo. Prima di far scivolare la spoglia della regina dentro al formicaio, mi sono girata un’ultima volta: l’umana, sorda ai richiami di un uomo al suo fianco, seguitava a mangiare, a studiare i nostri gesti con il viso inondato di lacrime, la bocca sporca di cioccolato e un atteggiamento sconvolto. Poi, d’un tratto, ha sputato qualcosa.

La vista mi si è annebbiata ancora più di quanto non lo sia già per natura; ho avvertito l’istinto di ammazzarla staccandole la testa a morsi, ma alle formiche nemmeno questo è concesso. Noi moriamo – di rado per vecchiaia, più spesso disintegrate da altri esseri viventi – però non causiamo la morte di nessuno: siamo indifese, minuscole, inermi; la nostra condanna è valere per tutti, anche per noi stesse, meno di uno sputo.