Uno spettro s’aggira per i nostri device: lo spettro di Internet. Negli ultimi anni abbiamo assistito, senza quasi che ce ne rendessimo conto, alla morte di Internet, sostituita da qualcos’altro, da una «ingente infrastruttura mondiale che ha unito le tecnologie della comunicazione e le tecnologie computazionali». Questa infrastruttura, detta «CPC» (Corporate Platform Complex), somiglia poco a ciò che conoscevamo come “Internet”; è piuttosto un complesso di «servizi online di proprietà privata che si definiscono “piattaforme”», governato «da una manciata di aziende molto grandi e molto potenti». Oggi il CPC «costituisce la principale manifestazione della connettività digitale».
Questo lo scenario che si delinea già nella prima pagina dell’introduzione di Dopo Internet. Le reti digitali tra capitale e comune, la raccolta di saggi di Tiziana Terranova uscita recentemente per Nero. Ed è subito distopia: l’invenzione sulle cui infinite possibilità si era tanto fantasticato negli anni ’90 e nei primi 2000 è stata uccisa e rimpiazzata da una sorta di suo doppio tirannico: il CPC, un mondo in cui tutto è controllato da un gruppo di grandi corporation, come nella più classica tradizione della narrativa cyberpunk.
La persistente sensazione che qualcosa a un certo punto non è andato come doveva, del resto, è un sentimento comune a praticamente chiunque sia stato un frequentatore del vecchio Web, quello pre-CPC. Sarà forse la nostalgia a parlare, ma la mia impressione è che da anni su Internet si sia smesso di divertirsi o anche solo di vivere esperienze significative. O, per lo meno, è diventato molto più raro farlo, nonostante il tempo e le occasioni per collegarsi si siano moltiplicati. Penso alle ore della mia adolescenza, che non richiederei indietro, spese sui forum. Oggi mi capita di stare ancora più ore sui social e quello che ne ricavo è perlopiù nausea e senso di colpa, come se stare collegato fosse qualcosa di più simile a un vizio che a una esperienza. Credo sia una sensazione comune: un tempo l’utente poteva immaginarsi come un avventuriero, un esploratore, un pioniere, oggi è più facile che nei confronti della rete abbia piuttosto il rapporto di un tossicodipendente.
Voci e libri che hanno parlato di questo “disagio del Web 2.0” non sono certo mancati. La peculiarità di Dopo Internet è non solo che mette in campo il punto di vista, le competenze e la vasta bibliografia di una studiosa come Tiziana Terranova, teorica e attivista che ha una lunga esperienza nell’ambito degli studi critici su Internet e sull’influenza che le tecnologie digitali hanno sulla società, ma anche di poter essere letto come una cronaca in diretta della catastrofe. Il volume, infatti, raccoglie saggi scritti tra il 2009 e il 2020, coprendo quelli che l’autrice definisce «gli anni accelerazionisti»: il decennio – iniziato con la crisi finanziaria e culminato con la pandemia, che ha contribuito a stringere ulteriormente le maglie del CPC su di noi – in cui è avvenuta la mutazione di internet.
Se il presente sa di fantascienza distopica, gli scritti di questo libro possono essere letti come i prequel: i segnali di ciò che stiamo vivendo oggi erano già tutti perfettamente delineati. Tutto era prevedibile, ma forse non inevitabile: accanto alla cronaca della trasformazione di Internet nel CPC il libro è anche una ricostruzione delle possibilità che sono andate perdute nel processo, le sliding doors che non si sono imboccate. Perché in fondo quello che Terranova racconta è soprattutto una lotta tra due idee opposte di rete, la battaglia tra capitale e comune.
Battaglia in cui (almeno per ora) ha vinto il capitale. O meglio, il «capitalismo cognitivo», per usare una formula coniata «con l’obiettivo di declinare in chiave politica la nozione altrimenti “scialba” di economia della conoscenza o economia dell’informazione». Con capitalismo cognitivo si intende un sistema di accumulazione nel quale è dominante il valore produttivo del lavoro intellettuale e immateriale. Per questo tipo di capitalismo il Web è stato una specie di Eldorado, perché un utente connesso online si trova a compiere continuamente un lavoro intellettuale dal quale si può estrarre valore, sia producendo attivamente contenuti, sia semplicemente mettendo a disposizione la propria attenzione.
La decadenza di Internet può essere sinteticamente descritta come la trasformazione di un terreno libero in una coltura intensiva da cui ricavare più profitto possibile: «un’infrastruttura tecnologica che aveva soprattutto usi pubblici o non profit si è trasformata in un gigantesco ambiente commerciale e industriale caratterizzato da alti gradi di concentrazione». Il capitalismo si è così fatto “cognitivo” perché la materia prima da cui la coltura intensiva del CPC estrae profitto siamo noi, le nostre menti, la nostra attenzione. Il Web 2.0 è in sostanza questo: il modello che spreme valore economico dall’attività cognitiva degli utenti online, che guadagna sul loro «lavoro libero», cioè «un lavoro non pagato e non comandato, ma tuttavia controllato». In altre parole, la vera ragione per cui possiamo fare quello che facciamo negli ambienti del Web 2.0 non sono le nostre motivazioni personali, ma è generare valore per la big tech di turno.
Eppure, un’alternativa come futuro della produzione su Internet era sembrata possibile: la produzione paritaria, o il peer-to-peer per usare la formula coniata da Yochai Benkler, uno dei suoi principali teorici. Si trattava di un movimento che esplorava «la possibilità di creare un’economia basata sui meccanismi della produzione sociale in rete che fosse autonoma dai meccanismi di valorizzazione del capitale». Come il Web 2.0 (che è anch’esso, a suo modo, una forma di «produzione sociale») il peer-to-peer si basa sul lavoro collettivo degli utenti, solo che il fine non è una sua capitalizzazione, ma lo scambio reciproco.
Insomma, si trattava di una fuga dall’economia capitalista per abbracciare una nuova economia basata sui beni comuni digitali (commons), concetto a sua volta fondato sul principio – celebrato dai più entusiasti teorici fin dagli anni ’90 – dell’informazione come bene non rivale: un qualunque prodotto digitale può essere condiviso con altri all’infinito, (peraltro con costi di riproduzione quasi nulli,) senza che ciò ne implichi la perdita per qualcuno.
Ma era destinata ad essere l’opzione perdente. A schiacciare quel modello utopistico di produzione basato sullo scambio di beni comuni tra pari è stata l’economia dell’attenzione. Mentre l’informazione è un bene potenzialmente infinito, l’attenzione è fisiologicamente limitata, quindi soggetta a diventare un bene scarso. Dunque, se l’informazione era un tipo di merce in grado di sfuggire agli schemi economici tradizionali, nel momento in cui l’attenzione diventa una categoria economica si possono recuperare tutti gli assiomi dell’economia di mercato perché si ritorna a maneggiare un bene scarso (e reso ancora di più tale proprio dall’abbondanza dell’informazione).
Detto altrimenti, se anche un contenuto digitale (fatto di informazione) può essere riprodotto e distribuito all’infinito gratuitamente, continua a non essere infinita l’attenzione che io posso rivolgere a quel contenuto, dunque può essere capitalizzata. Inoltre, l’attenzione non è solo scarsa, è anche misurabile: ciò rende possibile la sua commercializzazione e finanziarizzazione. Per questo nelle piattaforme si è sviluppata tutta un’industria che attraverso l’estrazione dei dati è in grado di mappare come si distribuisce l’attenzione online. Il funzionamento della grande macchina dei social è tutto qui: «la ricchezza di informazione crea una povertà che, a sua volta, produce le condizioni necessarie perché emerga un nuovo mercato; questo nuovo mercato richiede tecniche di massimizzazione dell’attenzione, tecniche di valutazione specifiche (algoritmi, analisi dati) e unità di misure proprie (click, like, condivisioni, visualizzazioni, follower, amici, tag ecc.)».
Ma se l’economia dell’attenzione è una coltura intensiva a cui sono sottoposte le nostre funzioni cognitive, ai nostri cervelli finirà per succedere la stessa cosa che accade ai terreni che non vengono mai lasciati a maggese: si impoveriscono. Secondo diversi studi neuroscientifici (qui Terranova si appoggia soprattutto agli articoli e ai libri di Nicholas Carr, saggista che si occupa soprattutto di tecnologia, noto principalmente per il libro Internet ci rende più stupidi?) il Web così come è costruito oggi tende a riconfigurare il cervello, rendendolo più efficiente nei compiti di routine (da automa), ma compromettendolo nelle attività cognitive più complesse, come la riflessione o il pensiero profondo.
Le esternalità dell’economia dell’attenzione sono un soggetto impoverito e una capacità di concentrazione non solo sempre più scarsa, ma anche deteriorata. Eppure, la capacità della rete di spostare e coordinare l’attenzione di masse gigantesche di persone è uno strumento che avrebbe potuto dare ben altri frutti. Un altro limite delle teorie dell’economia dell’attenzione è che sono «incapaci di rendere conto dei poteri di invenzione delle soggettività in rete, ricadendo invece nei modelli “stile gregge”». Insomma, un’altra potenzialità che abbiamo intravisto ma che poi è rimasta soffocata da una logica economica interamente votata al profitto è proprio l’«esplorazione dei modi in cui l’atto di prestare attenzione possa diventare una pratica in grado di produrre altre forme di soggettività e modelli economici diversi basati sulla cooperazione sociale».
Eppure, Terranova nell’introduzione ci tiene a sottolineare che «questo non è un libro triste; non è, cioè, un libro che vuole lamentare “l’ascesa e la caduta” di una promettente nuova tecnologia». C’è un modo in cui le cose sono andate, un modo in cui sarebbero potute andare, ma anche un modo diverso in cui potrebbero andare in futuro.
Tutte le potenzialità che la rete portava con sé esistono ancora. La stessa Internet anche se è stata uccisa non è scomparsa, il suo spettro – come dicevamo – continua ad aleggiare: «Internet continua ad esistere ma in modo interstiziale, in forme che non sono quasi mai percepibili per quelle grandi e potenti entità che l’hanno superata».
Un Web diverso è ancora possibile. E, d’altra parte, lo stesso dominio del CPC oggi non è privo di increspature o di bug che potrebbero metterlo in crisi un giorno. È il caso di quelle che l’autrice definisce le «psicopatologie ordinarie del capitalismo cognitivo». “Ordinarie” perché si tratta di disturbi che nel contesto creato dal capitalismo cognitivo rappresentano la normalità.
Disturbi come deficit dell’attenzione o anedonia da social (cioè incapacità di provare piacere in attività che dovrebbero essere piacevoli; sui social spesso si manifesta con quello che in gergo viene chiamato “zombie scrolling”) sono esempi di psicopatologie che da un lato sono generate dal capitalismo cognitivo, dall’altro rappresentano un’interferenza nel suo corretto funzionamento. Sono la dimostrazione che la vita mentale non si fa totalmente imbrigliare dentro i suoi schemi; sono sintomi di eccedenze o forme di resistenza rispetto al sistema che gli si è costruito attorno per sfruttarla. Resistenze ed eccedenze di quello che, secondo l’autrice, potrebbe essere «un nuovo tipo di cervello che si dispiega in connessione con i suoi dispositivi».
Un nuovo tipo di cervello, un nuovo tipo di intelligenza collettiva; è questo ciò che Terranova sembra vedere nel futuro come possibile evoluzione della rete, se saprà liberarsi dalle pastoie dello sfruttamento: «Sotto la pressione dei dati tecno-sociali entropici che integrano ogni tipo di valore, il sogno di dominare gli algoritmi potrebbe trasformarsi in qualcos’altro, dando vita a forme impreviste di intelligenza aliena fuggitiva». Di fronte a questa prospettiva anche la vecchia utopia dei cultori del peer-to-peer appare inadeguata.
Quelle teorie, infatti, spiegavano il lavoro collettivo su Internet basandosi sempre sulla nozione di utilità, sebbene non economica in senso stretto. Per cooperare liberamente l’individuo deve avere una motivazione. Quando la motivazione non è economica , secondo Benkler e gli altri profeti del peer-to-peer, riguarda una soddisfazione di qualche tipo: ciascuno si muove per cercare la propria soddisfazione e la somma delle azioni produce, per una sorta di “mano invisibile del sociale”, un risultato collettivo. È una spiegazione coerente con le teorie economiche, anche quando il fine non è il denaro ma altri tipi di utile.
Terranova in uno dei saggi più recenti raccolti in Dopo Internet (datato 2016) fa un salto ulteriore in avanti: la sua teoria di lavoro collettivo si fonda sull’idea degli attori online come «agenti inter-individuali» capaci di influenzarsi a vicenda. Terranova, in maniera apparentemente controintuitiva, chiama questi singoli soggetti che interagiscono tra di loro “monadi”, riprendendo il termine leibniziano nella rielaborazione fatta dal sociologo Gabriel Tarde che ha parlato di «monadi aperte», che non sono punti ma «sfere d’azione» che «si compenetrano le une nelle altre». Dunque, le monadi di cui tratta Terranova sono sì individui singoli, ma anche nodi della rete collettiva.
A far agire le monadi non sarebbe qualcosa di non condivisibile come una soddisfazione personale, ma piuttosto desideri e credenze, che invece condivisibili lo sono, possono essere trasmessi da una monade all’altra. Il che complica e arricchisce le dinamiche delle loro interazioni.
Le monadi sarebbero mosse da forze assimilabili alla nietzschiana volontà di potenza, il desiderio di esprimere e imporre sé stesse. La monade «non mira tanto ad autoconservarsi quanto a diffondersi», come un virus o un meme. «Ogni monade ha il proprio “disegno”: ce la mette tutta per espandersi e proliferare fino al punto in cui riesce a trasformare il mondo a propria immagine e somiglianza». Ovviamente a limitare l’espansione del proprio disegno ci sono i disegni altrui: da qui nascono conflitti, ma anche diverse possibili forme di cooperazione.
Dagli incontri e gli scontri tra le monadi, insomma, si genererebbero strutture sociali complesse. Perché una monade non può ottenere certi risultati da sola e finisce per unirsi ad altre, attratta da ciò che di simile a sé trova altrove. Per realizzare il proprio disegno una monade può farsi aiutare da altre monadi o inserirsi nei disegni altrui; può guidare o farsi guidare; egemonizzare o farsi assoggettare. La produzione collettiva scaturirebbe da queste variegate dinamiche di simpatia-ostilità o dominio-sottomissione: «Il motore della produzione sociale collettiva e volontaria è dunque la volontà di seguire, copiare, imitare (persino di imitare sé stessi), di diventare parte di un flusso, sperando così di riuscire a portare a termine la propria piccola o grande invenzione».
La rete ha ampliato smisuratamente la portata di queste dinamiche di cooperazione e creazione: le potenzialità che si dischiudono sono qualcosa di enorme e che probabilmente non abbiamo ancora visto nella sua interezza. Ma che forse possiamo intuire osservando gli esempi di creatività collettiva sul Web, soprattutto quelli che si sviluppano più lontano dai tentacoli del CPC.
Sono le forme di creatività che da anni studia un’altra autrice, Valentina Tanni. In uno degli ultimi capitoli del suo Memestetica (sempre edito da Nero) riporta un caso molto indicativo: r/place, un’esperienza a metà tra l’esperimento sociale e la performance artistica collettiva, andata in scena su Reddit nel 2017 (poi ripetuta nel 2022).
Brevemente, r/place funzionava così: Reddit ha messo a disposizione per 72 ore un grande spazio bianco di 1000×1000 pixel. Ogni utente poteva cambiare il colore di un singolo pixel e doveva poi aspettare alcuni minuti prima di poterne colorare un altro; nessun’altra regola e nessun obiettivo specifico da raggiungere, solo un suggerimento dato dagli organizzatori: «Individualmente puoi creare qualcosa. Insieme puoi creare di più». Il risultato fu, racconta Tanni, «uno dei più vasti progetti collaborativi di massa nella storia di internet», la realizzazione di un grande mosaico in movimento frutto del lavoro di oltre un milione di persone che per tre giorni collaborano o si scontrarono. Per poter disegnare delle figure un minimo complesse, infatti, era necessaria la collaborazione con altri utenti, contemporaneamente bisognava difendere i propri pixel dalle incursioni di altri gruppi. «L’aspetto più sorprendente di questo progetto risiede nelle rapide e sofisticate modalità di organizzazione spontanea introdotte dagli utenti: secondo uno studio, la versione finale della tela dell’edizione 2017 è il risultato del lavoro di oltre 800 diverse comunità, alcune piccole e improvvisate, altre vaste e meticolosamente coordinate».
A guardare il video timelapse, che condensa in meno di cinque minuti il lavoro dei tre giorni, si assiste al brulicante lavorio di un laboratorio collettivo, in cui a essere premiata è la capacità di cooperare e agire armoniosamente con gli altri; ma anche a una guerra spietata, non priva di risvolti politici, tra diverse fazioni che lottano per conquistare, conservare o espandere il proprio spazio.
Per questo r/place sembra una perfetta figurazione di ciò che potrebbe essere la produzione sociale online libera da ogni vincolo, nei suoi aspetti esaltanti ma anche in quelli inquietanti. È, come scrive Tanni, sia «un inno alla capacità che gli utenti della rete hanno di costruire legami a distanza, senza conoscersi, facendo leva sulla condivisione di idee, estetiche, esperienze e visioni del mondo», sia una riproduzione in vitro di «alcune delle problematiche più spinose emerse su internet negli ultimi anni: l’oscuramento delle voci minoritarie per mano di vaste comunità guidate dagli influencer, la polarizzazione del dibattito pubblico, l’emergere di tendenze nazionaliste, xenofobe e transfobiche, l’estremizzazione politica delle generazioni più giovani, l’inquinamento progressivo degli ambienti online da parte di bot e algoritmi».
Soprattutto è stata l’ennesima dimostrazione che la collaborazione di massa «raggiunge il suo massimo potenziale quando si slega da qualsiasi obiettivo pratico. Quando l’unico valore che esprime risiede nella capacità stessa che ha di verificarsi, nella moltiplicazione delle idee e delle personalità, nella scomparsa quasi assoluta del singolo a favore di un’entità totale». È qualcosa che trascende tanto la logica economica del capitalismo cognitivo quanto quella utopica del peer-to-peer, per avvicinarsi alla «monadologia» di cui Terranova scriveva l’anno precedente al primo r/place e che pure sembra descriverlo.
Insieme a tanti altri esempi di creatività collettiva e spontanea sparsi ai quattro angoli del World Wide Web, si tratta forse di un’anticipazione, di una prima manifestazione di quella, misteriosa, entusiasmante, sinistra «intelligenza aliena» che attende solo di liberarsi dalle maglie delle piattaforme, che oggi la imbrigliano e la sfruttano, per dispiegarsi veramente.