La maggior parte di noi li evita o finge che non esistano. Acceleriamo il passo, alziamo lo sguardo o ci rifugiamo nei nostri smartphone, lasciandoci dietro l’orrore tangibile che affiora come un’ombra. I clochard sono proprio questo ai nostri occhi: lo scandalo che sonnecchia, leggermente alticcio, mentre tutto intorno corre. Sono l’immondizia che riaffiora dall’inconscio, la parte della città che preferiremmo ignorare. Ci irritano, ci disturbano semplicemente esistendo e ci fanno sentire in colpa. “Perché non fanno nulla per migliorare la loro vita?”, ci chiediamo. “Come ci si può ridurre a dormire sotto un cartone?”. Almeno una di queste domande ha attraversato la nostra mente o quella di qualcuno che conosciamo.

Da bambini, nostra madre ci strattonava via quando quelle strane figure si palesavano lungo l’itinerario di festa – la Messa, un giro per i negozi e una tappa in pasticceria per i dolci domenicali. Erano per noi creature decadute, statue barocche crollate sotto pesanti coperte logore, o accovacciate ad imitazione di un cumulo di macerie, come guardiani di confine tra l’umano e l’animale. “Non ti perdere!” diceva la mamma. E così, ogni volta che ci siamo smarriti tra la folla, abbiamo temuto che loro, i clochard, si sarebbero svegliati dal loro sonno eterno. È per questo che da adulti siamo addestrati a censurare la loro presenza. Ci spaventano ancora, ci ricordano che non siamo mai davvero cresciuti. Siamo prigionieri dei moniti delle nostre madri. Potrebbero rapirti con delle caramelle! Abbiamo ancora paura dei clochard.

La verità è che i barboni ci sbattono in faccia l’infondatezza delle convenzioni in cui immergiamo la nostra vita regolare. A differenza nostra, loro si sono persi, sì, ma mi piace pensare che non abbiano tentato di ritrovarsi, e ritengo con presunzione che valga anche per coloro che non hanno scelto consapevolmente la strada, quelli che ci sono finiti contro la loro volontà. Quest’ultimi, per quanto a lungo si siano sbracciati tra le lacrime della sera e la speranza di un nuovo sole, anche loro infine hanno smesso di lottare e non per debolezza, non perché sconfitti, ma perché hanno forse capito – mi dico da persona che ha accettato le convenzioni borghesi – che la posta in gioco di quella lotta non era più qualcosa di desiderabile. 

Si sono lasciati trascinare lontano dal calore familiare, dalla sicurezza del primo comandamento: “abita una casa”. Il clochard ha attraversato quel confine. Non siamo noi a evitarlo, è lui che evita noi. Ha rinunciato a quella lotta per noi così importante che i greci chiamavano Bios, la vita astratta in società, ed è diventato un partigiano della Zoé: mangia, dormi, muori. Non possiede più nulla, i suoi bisogni sono ridotti all’essenziale. Sopravvivere è l’unico imperativo. Nessuna carta intestata, nessuna divisa ha più potere su di lui. Vive di legami fugaci, immerso in una solitudine primordiale.

L’altra volta ho guardato una serie di reel su Instagram, postati da un ragazzo del Sud che vive a Milano e racconta la sua vita “normale”. Ho provato una claustrofobia incredibile. Quella vita così ordinata e procedurale, spacciata per autenticità, mi ha disgustato. Ho ripensato ai clochard, esonerati da tanto ridicolo masochismo. Mi chiedo: perché siamo finiti in questo letamaio senza epica, senza vera esperienza? La vita di quel ragazzo, di bella presenza, con la fidanzata che a volte coinvolge nei suoi contenuti online, il lavoro dei suoi sogni in tasca – fare il social media manager di una società di calcio – quella vita così piena e allo stesso tempo così vuota mi ha fatto venire voglia di mollare tutto e finire per strada. Non è strano che l’Uomo senza Casa dorma sotto un cartone, né che non faccia nulla per “migliorarsi”, ciò che gli rimproveriamo è di aver mollato, di non voler uscire dalla sua condizione di indigenza. Di non voler cambiare, di questo lo rimproveriamo. Ma noi? Noi ci limitiamo a seguire, senza cambiarle, le regole di un altro gioco, che l’Uomo senza Casa non gioca più ed è questo che ci fa imbestialire, vogliamo che esso giochi con noi, che ci dia l’illusione dell’uno su mille ce la fa, invece di spegnere il nostro entusiasmo e ribadire che la sconfitta è sempre più probabile della vittoria. Ecco, il suo non giocare, pone l’Uomo senza Casa oltre la figura dello sconfitto. Non accettiamo questo: noi veniamo sconfitti ogni giorno ma non abbiamo il coraggio di sottrarci alle dinamiche del gioco, come è riuscito a fare lui.

Nella mia testa vedo qualcosa di messianico nel loro abbandono del consesso sociale, volontario o meno che sia, esso mi appare come l’attesa di un capovolgimento che ritrasformerà la città in un campo aperto, senza più recinzioni. Li osservo come fossero morti sociali in attesa di essere reintegrati nel corpo e nello spirito, rimasti appesi al fantasma di una rivoluzione che non appare più imminente, alla possibilità di una forma di vita umana differente e per questo, nel frattempo, essi annunciano con la loro presenza la realtà deprecabile che noi contribuiamo a mandare avanti, sono loro che ci evitano come si impara ad evitare il ronzio degli insetti, da individuo piccolo borghese non posso evitare di chiedermi se non siano loro a domandarsi di noi: “Perché si ostinano a non cambiare?”.

L’Uomo senza Casa ha visto l’inganno della società e non tornerebbe mai indietro. È un liberato in vita: quale mosca, scampata miracolosamente alla tela di un ragno, tornerebbe volontariamente in trappola? Nessuno di noi riesce davvero a mettere a tacere quella vocina che ci invita a riflettere sull’assurdità delle pretese di sacrificio che la società ci vomita contro. Perché dovrei rallentare in prossimità dell’autovelox? Da quando il mio istinto di sopravvivenza, temprato da miliardi di notti trascorse nella paura che un grande predatore mi conficcasse le sue zanne dritte nella nuca, ha iniziato ad infondermi ansia e tremore per una multa non pagata? E se a trent’anni non sono ancora sposato e non ho un lavoro normale sarò in grado di restare a galla? Il mondo vuole che io fallisca ma allo stesso tempo mi impone di non farlo. 

Nella figura dell’Uomo senza Casa si nasconde il fraintendimento della figura di Pinocchio. Se il clochard è uno sbandato, allora è Lucignolo, condannato alla fine a morire come somaro in un mulino. Abbiamo sempre pensato che Pinocchio dovesse compiere una scelta – seguire la voce petulante del grillo coscienzioso oppure diventare seguace del discolo e delle sue promesse di bivacco paradisiaco. 

La storia di Pinocchio è sempre stata letta come un monito moralizzante, ma forse Collodi stava dicendo altro. Secondo il filosofo Giorgio Agamben, Pinocchio non vuole diventare un bambino vero. Sono gli altri che vogliono questo per lui, in primis Geppetto, il suo falso e anziano padre con fantasie frustrate di autorità. E poi la Fata Turchina, simbolo di una maternità mortifera che non tollera che i suoi figli si allontanino dalle regole e per questo coltiva in loro un senso di colpa opprimente. “Non fare così o mi farai morire!”. Pinocchio impara a sue spese che non c’è differenza tra la violenza del padre, della legge e quella del mondo criminale. Geppetto lo vuole instradare in una vita artificiale, fatta di soprusi e ingiustizie ma accettata da tutti e gli intima di non prendere il sentiero apparentemente opposto, quello del degrado morale. Per il genitore, che pur di essere tale ignora le rimostranze del suo fantoccio, la violenza della legge e delle istituzioni è garante dell’ordine che egli perpetua nella propria casa. Ma Pinocchio è diverso, lui fugge sempre alla ricerca di avventura, di esperienza, anche della morte. Al diavolo il grillo parlante! Al diavolo Geppetto e i suoi sacrifici che nessuno gli ha chiesto! 

Pur di essere liberi da norme prive di sostanza – cosa mai può insegnare la scuola che il teatro dei burattini non possa fare senza l’obbligo di restare composti al proprio posto? – pur di non dover rispettare imposizioni ridicole delle istituzioni, sarà meglio andare dietro a quei due loschi figuri, il gatto e la volpe, oppure rischiare di essere bruciati dalle grandi mani di Mangiafuoco, orco delle fiabe ‘fallito’, come i primi due, relitto di un mondo che non esiste più, la fiaba, sventrata dal treno a vapore e dalle diavolerie del progresso. 

Quando alla fine Pinocchio diventa un bambino “vero”, si spegne l’ultima scintilla di magia nel mondo dipinto da Collodi. È un epilogo tragico: il burattino senza fili, libero, si trasforma in un essere docile, devoto a un padre che è padrone. Nell’Uomo senza Casa si compie la promessa di Collodi, nel corpo dei diseredati del consesso civico, ritorna la marionetta senza fili che impunemente continua ad aggirarsi per la città. Egli è un bandito, nel senso letterale di essere stato messo al bando, è un fuorilegge del mercato, lontano dal tedio tragicomico delle nostre esistenze di lavoratori, seguaci della vita attiva, che non avremmo mai il coraggio di aprire gli occhi come loro visto che l’idea di perdere tutto ci provoca un senso di vertigine perché non sapremmo che fare con noi stessi. Il burattino di Collodi sopravvive tra le strade notturne, dove si celebrano i misteri della vita sotterranea, officiati da bambini tornati di legno, animati dalla scintilla di un’anarchia antica, divina, il negativo di quella esistenza beata che era la vita dell’età dell’oro. Per noi che viviamo secondo il tempo del lavoro, essi possono apparire solo nel loro sonno impolitico, una pace che ci innervosisce, sempre fuori dai nostri sogni di normalità.