Running Wild è un romanzo del 1988 scritto da J. K. Ballard e tradotto in Italia con il titolo Un gioco da bambini (Feltrinelli editore). Con la preveggenza tipica degli scrittori distopici Ballard diagnostica un fenomeno molto comune e indicato con un termine altrettanto comunemente abusato in questi nostri giorni: alienazione. Giorni, i nostri, talmente oscuri (inside joke per harrypotteriani: “sta arrivando una tempesta, Harry”) da suscitare non poche considerazioni, da parte anche di alcuni filosofi, che rientrano nella sfera semantica e concettuale dell’apocalisse. In Semiotics of the End: On Capitalism and The Apocalypse, per esempio, Alessandro Sbordoni riflette sul rapporto fra la fine del mondo e la sua rappresentazione nel XXI secolo. Nonostante il contenuto di Un gioco da bambini e le riflessioni sulla fine del mondo nell’era del capitalismo siano in realtà molto distanti, si potrebbe dire che il romanzo di Ballard parli, in un certo senso, di una piccola apocalisse privata e della fine di un mondo e, più nello specifico, della fine del mondo esterno a favore di un microcosmo controllato e racchiuso, asetticamente riparato dalle intemperie del mondo reale. Un mondo per l’appunto alienato, estraneo alla realtà perché accuratamente delimitato tramite dispositivi artificiali.
Prima di entrare nel vivo del romanzo di Ballard, un breve excursus sulla parola alienazione, che richiama alla mente molte associazioni: una fra tutte per la Gen Z (bersaglio di facili ironie generazionali), che ha un rapporto un po’ fantasmatico, un po’ al sapore di realismo magico (e questo è un complimento) con le etimologie, potrebbe essere quella con alieno, quello verde con gli occhi neri dell’emoticon Whatsapp.
Ecco che questa falsa etimologia, in realtà del tutto corretta ma che esclude il primo passaggio dell’equazione, ci riporta al baratro naturalistico dell’etimologia pura e semplice ma la cui realtà è più sfaccettata e profonda. E quindi ad alienus, a, um: estraneo, straniero; e al verbo alieno, che indica l’allontanamento, lo straniamento, ma anche il rendere avverso, nemico. La falsa etimologia, per così dire di secondo grado, ci porta invece fuori strada ma al contempo ci trasmette una forte sensazione in stile Invasione degli ultracorpi, suggerendo la vera natura dei protagonisti del romanzo di Ballard. Dei ragazzini alieni, oltre che alienati, perché vivono a tutti gli effetti su un altro pianeta, ritagliato per loro da dei genitori dell’alta borghesia, in carriera, automi di una società capitalistica, alienata e con l’ossessione verso il controllo e la sicurezza.
Torniamo ora al romanzo, ma rimanendo sempre in tema di titoli ed etimologie, che sono un ponte verso la defaillance argomentativa, ma anche verso l’ignoto.
Il libro di Ballard è molto breve e parla di un consulente psichiatrico che cerca di risolvere il mistero del ‘massacro di Pangbourne Village’, residence di lusso dove vengono brutalmente uccisi nel giro di pochi minuti trentadue adulti. Dei tredici adolescenti e preadolescenti che vivevano nel residence insieme ai loro genitori nessuna traccia. Inutile dire che i sospetti che nutre il protagonista sono gli stessi che accompagnano chi legge il romanzo fin dal principio. Fatta questa premessa, sarà più facile spoilerare che gli assassini sono quegli stessi adolescenti che si crede siano stati rapiti e che, con acume e premeditazione, hanno fatto fuori in maniera scientifica e creativa i propri genitori e tutti gli altri adulti che si trovano a lavorare nel perimetro artificialmente delimitato del residence, in quel fatidico 25 agosto 1988. L’omicidio di gruppo sembra appunto eseguito come ‘un gioco da bambini’, efficace e con ruoli predisposti ad hoc, dove ognuno agisce in base alle proprie capacità strategiche e alle proprie inclinazioni.
Il titolo italiano del romanzo ricalca proprio questa traccia e mi esime ulteriormente dalle colpe dello spoiler per via della sua eloquenza; il titolo in inglese richiama invece qualcosa di più riposto e ignoto, lontano dallo sguardo delle telecamere del residence a cui, per quanto numerose, sfugge la dinamica del delitto.
Di titoli e della loro difficoltà parlava una ventina di anni prima dell’uscita del romanzo di Ballard Theodor Adorno (Note per la letteratura) dicendo che “cercare titoli è una cosa altrettanto senza speranza quanto mettersi a riflettere su una parola dimenticata…in ogni opera, se non ogni pensiero fecondo, è nascosto a se stesso; mai trasparente a se stesso”. Ci si potrebbe chiedere cosa ne avrebbe pensato Adorno del titolo di Ballard. Con un riuso trasformativo della critica letteraria, mi azzardo a dire che il titolo inglese Running Wild reca in sé quel quid di non trasparenza che ci suggerisce Adorno nel suo whimsical (bizzarro) saggio sui titoli.
Riannodiamo quindi il filo di questa matassa altrettanto bizzarra ritornando sulle etimologie.
Nell’Oxford Dictionary Running Wild è associato a due diverse accezioni, che si includono a vicenda e richiamano piani diversi di uno stesso riferimento insieme mentale e concreto. Uno indica proprio il ritorno allo stato di natura di un animale o di un vegetale, che si espandono o crescono in modo incontrollato e dilagante. (Ulteriori dettagli sul termine Wild per gli abbonati all’Oxford Dictionary). A questo primo significato si associa quello traslato di Running Wild come running amok, astray e quindi ‘perdere la strada, perdersi moralmente’, che riportano proprio all’idea di andare fuori strada, come l’alieno verde dagli occhi neri.
Si potrebbe dire che quelli che si pensa possano essere ‘tredici piccoli indiani’ di Ballard, e che sono in realtà tredici piccoli psycho, riuniscano su di sé queste due etimologie nel loro ritornare allo stato di natura (che ci spiegarono a scuola con la dicitura homo homini lupus) e nel loro andare astray, fuori strada moralmente, perché valicano il confine del moralmente accettabile per convenzione sociale. Ma il loro ‘divagare’ psicologico, che terrorizza ma al contempo diventa perfettamente comprensibile agli occhi del consulente psichiatrico, simboleggia il rifiuto di soggiacere ai limiti di una società che è andata altrettanto fuori strada.
Nella fortezza che racchiude la vita perfettamente scandita delle famiglie tradizionali protagoniste del romanzo, non manca niente di tutto quanto può essere considerato un bene agli occhi di una società ultra-capitalistica, includendo anche e soprattutto l’illusorio palliativo della sicurezza e della sorveglianza.
Questi ragazzi che hanno tutto mancano chiaramente dell’amore genitoriale non mediato da oggetti, patendo una sindrome forse simile ma decisamente più orrorifica dei bambini degli esperimenti di Renè Spitz sull’isolamento sociale (svolti negli anni ’40 del secolo scorso, analizzavano le conseguenze della privazione del contatto materno). I piccoli assassini vivono a stretto contatto con le loro famiglie, ma è una contiguità fisica che assume la forma di prigionia nei confronti di un mondo esterno da cui vengono costantemente deviati e protetti. È proprio per porre fine a questo deviato Running astray imposto dai genitori carnefici sui bambini alienati, estranei e non appartenenti (altro significato di alienus che conferma la correttezza delle intuizioni sugli alieni, che sono tali perché non fanno parte del nostro pianeta) al mondo esterno che alla fine i tredici commettono un delitto. Quest’ultimo, commesso in modo meccanico ed eseguito con una precisione scientifica che solo delle persone alienate, e quindi completamente dissociate, forse potrebbero mettere in pratica, consente un Running astray correttivo, la cui immoralità fa da controparte all’immorale e ipocrita volontà di sottrarre i propri figli al mondo esterno e alle sue presunte deviazioni.
Nel suo saggio sui titoli Adorno scrive anche che “quanto fatale sia oggi la situazione dei titoli concreti ce lo insegna la letteratura americana contemporanea, soprattutto quella drammatica, che ha addirittura l’ossessione dei titoli di genere”. (Ho usato questa citazione perché con il dovuto rispetto verso la letteratura americana, come dice sempre Adorno in un altro passaggio un po’ whimsical ma forse molto vero, i libri si sottraggono al nostro controllo e non sempre è facile rintracciare la citazione che stiamo cercando). Quello che segnala Adorno qui e in altri luoghi è il peso delle logiche capitalistiche sull’industria libraria, o meglio il fatto che il libro sia entrato a tutti gli effetti nelle dinamiche del commercio capitalistico. I concetti di apocalisse capitalistica e della sua rappresentazione potrebbero richiamare, con le dovute differenze, la capitalistica ossessione della sicurezza, del controllo, dell’abbondanza di svaghi e oggetti e alienazione dal mondo esterno, che inducono sulla via dell’autodistruzione i genitori dei tredici bambini Ballardiani.
Forse questa associazione un po’ inappropriata non è del tutto etimologica e calzante, ma a volte sono proprio le false etimologie che restituiscono almeno in parte ciò che è “nascosto a se stesso”.