Mi sembra che c’è una cosa che accomuna tutte le persone tra i venti e trentacinque che vogliono lavorare nel mondo della cultura: i genitori pensano che cazzeggi. La verità è che genuinamente non riescono a capire cosa fai. Totale smarrimento all’ascolto della parola “editing”; una risata beffarda quando racconto dell’ennesimo talk (“ma non c’è una parola in italiano per dire tolc?”) che ho moderato senza essere pagata se non in visibilità (“è un premio strega!” dico per legittimarmi, nessuna risposta dall’altra parte ma sento un’eco fortissima dei pensieri che attraversano la mente di mio padre: con il premio strega non ci paghi le bollette, hai quasi trent’anni, dovresti avere dei soldi da parte, un lavoro concreto, una certa stabilità); lo sguardo di disappunto quando dico che il lavoro fa schifo (“cosa sono i diritti senza i doveri?”, pura gioia mi verrebbe da dire); “ti è piaciuto l’ultimo libro di baricco?” (glielo dite voi o glielo dico io); “anche tua cugina di terzo grado ha studiato lettere e ora fa l’ufficio stampa per Leonardo, certo ha fatto un master alla bocconi, ma a te i soldi ti fanno proprio schifo?” (qui due strade: o si fa un momento di riflessione politica in cui ci si urla addosso oppure con serenità si risponde “sì, semplicemente i soldi mi fanno schifo”). 

Una volta ogni due-tre mesi, puntuale come il cambio dell’ ora, mi arriva su whatsapp un messaggio da mio padre: “potresti pensarci……” (i puntini non sono mai tre, quelli di sospensione, ma sei o sette, me li immagino come un sospiro prolungato) e come allegato un qualunque concorso pubblico. I più gettonati sono quelli legati all’insegnamento (saresti così brava con i bambini!), ma ultimamente si sta sbizzarrendo: concorsi come guardia museale (fare uno scritto e un orale per stare in piedi di fronte a una madonna col bambino in una pinacoteca vuota mi sembra ridicolo), concorsi per entrare al ministero della cultura (ovviamente non ho le qualifiche adatte, ma lui non è che li legge quindi mi tocca farlo a me), concorsi per entrare nell’area amministrativa (alla fine è solo lavoro, poi con i soldi che guadagni ci puoi fare quello che vuoi). Io voglio il tempo e i soldi, non voglio scegliere papà. Il pane e le rose. E l’idea che non siamo tutti d’accordo mi fa impazzire. 

All’inizio poi diventavo matta: io faccio la cultura!!!!!! sto costruendo qualcosa, pezzetto dopo pezzetto, un nome… un’identità… una firma… mi sto creando un posto nella scena culturale… poi ho capito che non c’è niente di eroico nel dire la verità ai propri genitori. Quindi ho iniziato a mentire spudoratamente: sì lavoro molto, sì mi pagano abbastanza bene considerando il mercato editoriale attuale, sì è una scelta non comprare mai niente e scroccare case agli amici per le vacanze estive, è che non sopporto il consumismo! (Sapete sono di sinistra io…), sì l’idea di comprarmi una casa mi sembra assurda, non credo nella proprietà privata e dopotutto immettere dei figli in un mondo del genere è una follia. Le mie risposte un po’ li confondono un po’ li estenuano un po’ forse li inteneriscono, quindi smettono di fare domande. “È fatta”, ho pensato. Ho vinto io. 

Qualche mese fa mi sono iscritta alle prove di ammissione del dottorato e fortunatamente l’ho vinto. Il progetto che porto mi piace molto, è la cosa che mi rende più contenta e che mi ha fatto accettare la posizione. Tre anni per produrre un documento in grado di restituire la profondità concettuale di quello che studio. Ma l’unica cosa che hanno sentito i miei genitori quando gli ho dato la notizia è stata: tre anni di posto fisso con stipendio statale.