Non mi arrendo alla vulgata: senza la spinta dell’impresa al profitto non c’è democrazia. La nostra è sconsolante. Già. Però non ti finisce con due pallottole nel cranio in un sotterraneo. Si è uccisi da meccanismi astratti, non hanno un nome e cognome. Nessuno ha colpa, lo spettacolo catartico della punizione non può avere luogo. E poi di sistema si muore soprattutto altrove, lontano o marginali. Se ne parlo, perfino alle amiche che più mi sono legate, parlo a voce bassa, mi scuso, annoio.

_ Rossana Rossanda – La ragazza del secolo scorso

In un periodo imprecisato della mia esistenza la gente ha cominciato a chiamarmi comunista, il perché non mi era assolutamente chiaro ma continuavano a farlo. Deve essere stata la barba, sicuramente è stata la barba. Perché quando ho cominciato a farmela crescere e con la macchina andavo a Roma a comprare un maglione in qualche mercatino dell’usato, quando tornavo al paese qualcuno mi diceva: «sembri proprio un comunista» – il tono, se non offensivo, era almeno di scherno; comunque a certe ragazze il maglione e la barba piacevano e a me andava bene così.

Io di comunisti non ne avevo mai visti, avevo certo una vaga consapevolezza che in ambito politico qualcosa era andato storto, conoscevo Stalin (con Mussolini e Hitler faceva parte della trinità malvagia del nostro Novecento), nella collezione di classici della letteratura di Famiglia Cristiana che i miei tenevano in casa c’era Arcipelago Gulag di Solzenicyn. Poi sono cresciuto ascoltando i CCCP, che non hanno aiutato molto a chiarirmi le idee, magari un po’ di più Guccini ma era troppo vecchio, più tardi gli Offlaga Disco Pax ma erano troppo puntigliosi e non capivo. Ma giuro che di comunisti in giro proprio non ne avevo mai visti, partiti comunisti nemmeno (la mia conoscenza politica si limitava alla rivalità tra PDL e PD, sigle astruse e simili, il PD erano i buoni ma Berlusconi era più figo).

Poi la rivelazione: Marx, il padre dei comunisti. Quando, per un caso un po’ fortuito, all’università sono incappata in un esame di filosofia marxista la mia visione del mondo e della storia è cambiata radicalmente: il materialismo storico era uno strumento ermeneutico importantissimo e dava la possibilità di inquadrare i processi storici che inconsapevolmente e quotidianamente vivevo sotto una nuova luce razionale.

Più tardi quindi ho cominciato a leggere dei libri per tentare di capire meglio questa strana faccenda che ero comunista senza saperlo – Hobsbawm mi è stato molto utile ed era anche simpatico a leggerlo e poco pedante – e ho cominciato a capire che in Italia era successo qualcosa di molto particolare, di comunisti ce n’erano stati tanti e il loro partito era anche stato molto importante per la Liberazione, per la Costituzione, per le Rivendicazioni dei lavoratori. Poi accadde l’inaspettato, era un’intervista in tv? o qualcuno mi passa un articolo («leggilo, è scritto benissimo»), era di Rossana Rossanda, una giornalista del Manifesto, comunista.

Esistevano anche le comuniste, la barba non era condizione necessaria ma un vezzo tutto maschile. Rossanda non solo era comunista ma aveva anche litigato con il partito comunista, per questo motivo l’avevano buttata fuori e lei di risposta aveva fondato una rivista in cui poteva rispondere a tono (le cose non sono andate proprio in questo ordine, sto drammatizzando).

Era meraviglioso: anche io avevo appena fondato una rivista con delle amiche, una rivista contro tutto e tutti e sono certo che nessuno di noi avesse la tessera di un partito o (ipotesi assurda) fosse stato buttato fuori da un partito. Il comunismo era qualcosa che si poteva scrivere, poteva rivendicare una propria libertà ideologica (eterodossia?), era in dissenso perfino con il comunismo stesso, e il dissenso produce sempre novità feconde, è il motore che muove.

Qualche anno dopo ho deciso di scrivere la mia tesi proprio su Rossana Rossanda. La cosa più difficile da comprendere per me quando mi sono avvicinata all’argomento [Rossana Rossanda e il suo rapporto con politica, editoria e intellettuali, ndr] è stato quello di trovarmi a leggere diversi testi di persone che apparivano estremamente ragionevoli – intendo soprattutto i comunisti – e nonostante questo erano fermamente convinte di poter cambiare il corso della storia, che il mondo fosse ancora malleabile e con un misto di strategia, coesione e utopismo si potesse arrivare all’obiettivo di rovesciare il capitalismo e costruire insieme una società nuova. In quell’educazione altalenante che ho ricevuto frequentando le scuole in un piccolo paesino abruzzese era quantomeno sempre stato chiaro che la storia fosse finita anni fa, ora il presente è per sempre, il secondo novecento è qualcosa che deve interessare gli accademici o al massimo gli ubriachi al bar, e quindi a noi conveniva farci una ragione di tutto questo e magari – se si sentiva qualche strana vocazione – dedicarci all’arte più disinteressata: fare musica pop o dipingere bei quadri astratti (tanto avremo comunque scoperto che non potevamo permettercelo ma questo gli adulti non te lo dicevano).

L’ultimo gradino della mia attuale formazione comunista è stato reso possibile da due testi che ho letto quasi contemporaneamente e reputo complementari: Rivoluzione di Enzo Traverso e Il sarto di Ulm di Lucio Magri: entrambi avanzano l’idea della necessità impellente di storicizzare il comunismo, cioè inserirne tutta l’esperienza storica all’interno di un quadro reale fatto di contingenze, errori, incomprensioni, necessità, vittorie e rimpianti che permetta finalmente di trarre delle nozioni dalla sua storia che possano essere attualizzate e usate fattualmente oggi.

Mi sembra ragionevole che questo sia l’unico modo di non abbracciare o rifiutare in blocco qualcosa di estremamente stratificato, complesso e contradditorio. Ma per fare ciò bisognerebbe evitare di ammalarsi della più grave malattia del nostro secolo: la semplificazione, la riduzione a sillogismo, l’opposizione manicheista. Per non perdere una ricchezza storica e politica inestimabile ma soprattutto per non dimenticare uno strumento pensato e realmente costituito per cambiare il mondo. Si può rompere la bolla del presente – come Truman Burbank che esce dal grande teatro di posa – e pensare che la storia sia ancora fluida (magari è impreciso ma può essere utile pensarla così).

Insomma alla fine avevano tutti ragione: sono un comunista ma non lo sapevo. È strano come nella vita non si dia mai ascolto a quello che ci dicono e le verità più difficili da accettare sono proprio quelle che ogni giorno ci crescono sulla faccia, come la mia barba.