Sono stata tre giorni in una città che non è la mia. Ero lì per fare un corso. Mi sono appoggiata a casa di un amico. In casa sua il cellulare non prendeva e lui non aveva un router. La sera rientravo, cucinavo, mangiavo, mi aprivo una birra e seduta sul divano senza fare niente smanettavo col cellulare. Completamente inutile. Là ho capito. Non è tanto la noia, che è una cosa buona. Internet – in tutte le sue forme – ci aiuta a nascondere la solitudine. Non tanto quella spirituale, in cui scrivi e pensi da sola, ma quella brutta: non sai chi chiamare, pensi a tua madre che non è stata molto bene e senti che è lontana, davvero tanto lontana.
Una solitudine legata a doppio filo col silenzio assurdo della notte: ti guardi intorno in una casa vuota, troppo piccola o troppo grande, e non ti riconosci. Perché non hai una strategia, sei sola, davvero sola, e non hai nessuna informazione che ti dica “tranquilla, seguimi, sono io tutti quegli altri”. Sei sola e se ti guardi intorno tutto è inanimato. Sei sola e se ti fermi ad ascoltare, tutto è silenzio.
Fumi e ascolti il friggere del liquido nella sigaretta elettronica, ma se smetti di fumare hai finito le cose da fare, e allora fumi di nuovo. C’è questa strana e sottilissima sensazione di caduta nella solitudine, una caduta ininterrotta, senza fine, come quei cartoni in cui il grido continua a riverberare mentre il personaggio cade in un buco, fino a spuntare dall’altra parte della terra e cade di nuovo all’indietro. Quello è finto e questo è vero. Sai perfettamente che nel fondo del tuo buco di silenzio c’è un grumo – soltanto ipotizzabile – di attrazione gravitazionale senza scampo, cadrai per molto tempo, fino a che non ti ritroverai nel suo centro. Ferma ma non caduta, sospesa in una caduta infinita e immobile,senza ritorno.
Il centro di qualcosa è sempre un’ipotesi. Un calcolo matematico permesso dall’approssimazione. Sappiamo però che quel punto ipotetico è sicuramente il più lontano da qualunque periferia. La circonferenza sono gli altri e tu – senza internet – sei appena caduta il più lontano possibile da loro. Sei nella tana del tempo fermo. Dove il silenzio diventa ancora più silenzioso. Dove anche il suono ripetitivo e inquietante del bassotto asmatico, che abita al piano di sopra e percorre senza sosta il terrazzo che contorna l’atrio della scale del piccolo condominio in cui sei ospite, viene risucchiato nel vuoto. Si scioglie in un disturbo della percezione. È un riverbero del buio, indistinguibile.
Sono sola su questo divano di un bianco sfinito, ora sto pensando che vivere è molto più complesso di come tutti in coro cercano costantemente di farti pensare. E trovare se stessi è esattamente abbandonare se stessi. Perché essere se stessi – esserlo per davvero – nell’incommensurabile e falsa unicità della propria vita è, ed è sempre stato, semplicemente insostenibile.
La morte è negli angoli, come la polvere. Presente nella sua delicata assenza. Resistente allo zelo della vita decorosa, come allo scandalo più profondo della ragione. È pietà per gli altri, ma appena più piccola di quella che, in questi momenti assurdi, si ha per se stessi. Una pietà dolorosa che non concede alcun ristoro di orgoglio. È solo pura sensazione, priva delle conseguenze che potrebbero significarla diversamente, al di fuori del suo essere puro e profondissimo dolore.
La vita, priva di orpelli lucentissimi, è quel senso di incompletezza e assurdità. Un grumo che cerca un senso, un respiro che getta soltanto vuoto nei polmoni. L’aria è sparita. È la decompressione di una stazione spaziale orbitante abbandonata. È la stagione appena successiva all’estinzione di ogni forma di vita sulla terra. Rimangono gli oggetti, ma sono così lontani da sé stessi, che ormai è impossibile unirli in una rete rassicurante di senso. Un pescatore ha gettato la lenza, qualcosa ha abboccato, ma quando ha tirato su la canna appeso all’amo c’era il nulla.


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