La prima volta credo di aver visto un hentai. Assurdo. Era tutto così esagerato e distorto che il sesso – l’atto in sé – era diventato improvvisamente l’ultima delle mie preoccupazioni. I corpi si ingrandivano torcendosi in fish-eye impossibili, le espressioni di godimento diventavano smorfie di volti gonfi, tesi come se dovessero esplodere. Passano diversi giorni e guardando molte altre volte quel video mi rendo conto che qualcosa è sottratto, è lì ma non c’è, dovrebbe essere il protagonista ma non si vede: i genitali sono blurrati.
Come nelle migliori storie di paranoia e scoperta, inizia una piccola ricerca personale su quell’internet bidimensionale e recalcitrante degli esordi ma niente, in tutta la produzione pornografica di provenienza giapponese di cazzi e fiche e culi non ce n’era traccia. Mi sono convinta inizialmente che non erano in grado di disegnarli ma ho scartato la tesi dopo aver visto un porno vero, cioè con le persone vere che facevano sesso e pure lì tutto avvolto in una pudica nuovolina di pixel.
Forse la cultura giapponese non è più interessata ai genitali, o almeno a vederli in azione combinata? C’erano dei surrogati è vero, la proverbiale piovra – per me era soltanto un animale finto di cui avevo visto l’ombra in una vasca verdognola al circo oppure una serie televisiva Rai che per i miei genitori rappresentava un capolavoro aureo della cinematografia da salotto – che faceva le veci dei cazzi, altre volte sostituiti da forme affusolate ma pur sempre tentacolari e sempre più improbabili: piante senzienti, tubiformi esseri alieni, manicotti galleggianti da piscina.
La mia ricerca aveva già preso i connotati dell’ossessione e come in un Chinatown di serie z doveva solcare il ginepraio della giurisprudenza orientale per trovare una soluzione soddisfacente: l’articolo 175 del codice penale giapponese. Questa dannata legge sancisce che: Chiunque distribuisca, venda o mostri in pubblico un documento, immagine o qualsivoglia oggetto di natura oscena sarà punito con la reclusione fino a due anni, una multa fino a 2.500.000 yen o un’ammenda. Lo stesso si applica a chi possieda suddetto materiale con l’intenzione di venderlo.
Quindi ancora una volta è il potere che garantisce la pubblica morale avversaria della bramosia di pornazzi. I sospetti che avevo coltivato convincendomi che forse l’avanguardismo della pornografia giapponese – che già ci appare così esotica – avesse rinunciato del tutto ai genitali in quanto fasti di una sessualità ancestrale e barbara, erano vanificati. Era solo censura, è ancora censura e oggi più che mai sono stanca del blur sui genitali nei porno giapponesi.
Non che abbia necessariamente bisogno di vederli per eccitarmi ma è come quando da piccola i miei genitori mi censuravano le scene violente sulle VHS registrate da Italia Uno: il tirannosauro si preparava a sbranare l’avvocato terrorizzato seduto sulla tazza di un cesso a cui erano crollate tutte le pareti e zzzzzzzzzzz – rumore statico grigiastro sullo schermo, rumore bianco anche negli altoparlanti, poi la scena riprendeva ma il fattaccio era già successo e potevo vederne solo le conseguenze. A quel punto andavo in camera mia, guardinga che non ci fosse nessuno in giro, mi armavo di giocattoli e bamboline varie e inscenavo la morte più violenta che la mia immaginazione malata di bambina potesse partorire. E ogni volta che riguardo i porno giapponesi il mio ricordo vola sulle ali del cavallo bianco della memoria per tornare a quella sensazione di violenza simbolica frustrata.
C’è ancora qualcosa da raccontare in questa storia: la categoria hentai uncensored. I meravigliosi progressi tecnologici, si sa, sono sempre impiegati per primi negli ambiti più cari all’umanità: la guerra e la pornografia. Con i porno giapponesi è successo lo stesso, tutto l’armamentario di potenza computazionale che la tecnologia digitale oggi ci mette a disposizione è stato da tempo impiegato per stritolare finalmente quella fastidiosissima nuvolina di pixel che copre il cazzo di un impiegato della prefettura di Wakayama con degli improbabili baffetti a manubrio. E oggi in particolare è la punta di diamante dell’universo transistorizzato a essere impiegata per tale scopo: l’AI. Intelligenze artificiali addestrate a ingurgitare terabyte di porno orientali – della durata media di due ore e venti l’uno – che tentano di ricostruire quel cazzo smaterializzato dal blur.
Il risultato è quanto di più disturbante e indigesto la mia fantasia sessuale più pantanosa possa mai immaginare (o quella di chiunque altro, ci scommetto): un delirio di carne impossibile che muta ogni secondo, più viscido e sfuggente di un’anguilla aliena, che si muove come di vita propria, si rigonfia e si contrare, a volte improvvisamente si sdoppia lasciandomi esterrefatta e interdetta a domandarmi se forse questa volta non sia davvero troppo quello che ho visto sullo schermo e non convenga, una volta e per sempre, tornare a chiudere gli occhi e cullarmi nella mia sempre pepata e rassicurante immaginazione.