Qualche mese fa Leonardo Cococcia (che era già a New York da un anno) mi ha chiamato per dirmi che l’androne delle scale in cui Bob Clearmountain aveva registrato l’iconico riverbero che risuona su Born in the USA di Bruce Springsteen, era stato riammodernato, le mura erano state riparate e la scala rifatta. Nessuno si era preoccupato di preservarlo, non era stato registrato nemmeno un impulse response della particolare risonanza ambientale che aveva cambiato la storia del rock, era persa per sempre. Quel riverbero diventava improvvisamente un fossile sonoro che forse le future generazioni avrebbero cercato di ricostruire invano. Ci prendemmo un minuto, nessuno disse niente, non sapevamo cosa dire a riguardo o forse era un minuto funerale.
Leonardo Cococcia ha studiato al conservatorio Santa Cecilia di Roma dove si è laureato in chitarra jazz nel 2022, viene da un piccolo paese in Abruzzo, Civita di Oricola, e ora sta studiando Songwriting and Production al Berklee College di New York, un master of arts che corrisponde al nostro biennio magistrale. È un musicista espatriato per studiare negli Stati Uniti, non ci è arrivato in nave ma grazie a una borsa di studio Fulbright (l’associazione che fornisce supporto economico per scambi culturali tra Italia e Usa). La sua storia mi ricorda quelli degli zii che partivano per l’America diversi anni fa e tornavano un po’ cambiati, con un accento un po’ strano e più magri; se non tornavano significa che si erano sistemati e allora i pronipoti avrebbero dimenticato nel giro di qualche generazione quel ramo americano della famiglia. L’America ha una sua nostalgia intrinseca che è impossibile rimuovere nei discorsi che ne facciamo noi italiani, loro sono quelli oltre l’oceano, dove si va per fare fortuna o per essere dimenticati.
“Mi sono laureato alla magistrale di chitarra jazz nel 2022, ma già fantasticavo di venire a studiare negli Stati Uniti. Qualche mese dopo aver discusso la tesi ho scoperto la borsa Fulbright: cinquantamila dollari, assicurazione sanitaria e viaggio pagato. Avevo poche speranze di ottenerla perché i posti disponibili per l’Italia sono soltanto due ogni anno, due per tutti quanti gli ambiti artistici. Alla fine ho deciso di provarci perché era l’unica possibilità per poter andare. Ho cominciato a cercare diversi college negli Stati Uniti e ho trovato il Berklee a New York. Non avevo mai pensato di trasferirmi proprio a New York, semmai Los Angeles che mi piaceva di più. A dicembre del 2022 mi è arrivata la notizia che la mia iscrizione era stata accettata ma mi mancava ancora la conferma della borsa di studio. Il materiale da preparare e consegnare a Fulbright era tantissimo, c’ho messo diversi mesi a sistemare tutto ma alla fine mi hanno scritto che ero stato selezionato. Era l’unica possibilità che avevo, altrimenti avrei dovuto indebitarmi, un anno di studio alla Berkeley costa 56.000 dollari. Dovevo comunque trovare i soldi anche per vivere qui durante gli studi ma per fortuna sono stato assunto all’interno del campus e con questo lavoro ora mi pago l’affitto. Gestisco l’inventario degli strumenti musicali che ci sono qui in studio e mi occupo del set-up delle chitarre, faccio anche trouble shooting quando ci sono dei problemi con i macchinari o i collegamenti nello studio di registrazione”.
Leonardo è negli Stati Uniti da un anno e mezzo e ora per completare il percorso di studio deve fare un tirocinio in uno studio di registrazione, ha scelto il Bunker Studio di Brooklyn, che si occupa principalmente di jazz.
“Il manager del Bunker Studio era venuto lo scorso anno al nostro corso per presentare il suo studio e questa estate l’ho contattato per proporgli di fare con loro il tirocinio. Mi trovo molto bene al Bunker perché è diverso dalla maggior parte degli studi che intendono il tirocinio come una forma di lavoro gratuito e pretendono anche una certa gratitudine da parte tua. Uno degli studi in cui sono stato pretendeva che i suoi nove tirocinanti lavorassero venti ore a settimana ciascuno facendo le classiche mansioni dello stagista schiavo (pulire quando serve, correre a prendere il caffè). Se durante i tempi morti incappavi nella rara possibilità di seguire qualche sessione ti veniva espressamente vietato di interagire con i clienti, mi hanno detto proprio: «se fai il tirocinio da noi e un cliente ti chiede il contatto di Instagram, tu non puoi darglielo». Vogliono degli intern fantasma, il cliente può percepire la tua assistenza ma tu non devi risultare una presenza umana. Il problema è che qui è così diffusa la retorica del lavora-duro-che-sarai-ricompensato che una situazione del genere non viene riconosciuta come una forma di sfruttamento.
Non so immaginare altra utilità per un giovane musicista o produttore che fa un tirocinio gratuito in uno studio di registrazione se non quella di accollarsi ai clienti e, appunto, provare a scroccargli un follow su Instagram. È proprio una roba di sabotaggio chirurgico, spietata. Anche l’ultima possibilità di hackerare il sistema del tirocinio gratuito, questo passaggio obbligato dell’arrampicata sociale è meticolosamente rimossa. Davvero, pensavo che l’elevator pitch fosse ancora una costante lì da voi.
Sono stato fortunato a trovare un posto qui al Bunker, hanno chiarito fin dall’inizio che il tirocinio non era pagato ma che avrebbero sopperito con la formazione e alla fine devo dire che è vero. Sono dieci o dodici ore di lavoro in studio [ci va solo una volta a settimana per fortuna, ndr] ma passo la maggior parte del tempo ad assistere alle sessioni di registrazione. Qualche settimana fa ho visto una sessione di sei elementi con Patrick Bartley che è il mio sassofonista preferito (vivente almeno). Ha spaccato di brutto, è stata una buona consolazione: mi sono visto sei ore di concerto gratis, se fossi andato a vederlo al Mezzrow [un famoso locale jazz di NY, ndr] avrei pagato almeno cinquanta dollari. Poi qui al Bunker hanno registrato Mehliana: Taming the Dragon, un disco di Brad Mehldau e Mark Guiliana con cui sono cresciuto. Quando sono entrato e l’ho visto appeso all’ingresso insieme agli altri dischi mi sono emozionato, perché ancora oggi è uno dei miei dischi preferiti di jazz contemporaneo. Qualche settimana fa è passata a registrare una band venezuelana di dieci elementi e non avevo mai visto bere così tanto caffè in un singola sessione, hanno registrato per dodici ore di fila e senza tutta quella caffeina sarebbe stato impossibile. Capivo qualcosa mentre parlavano perché lo spagnolo comunque somiglia un po’ all’italiano ma in queste situazioni mi piacerebbe sapere qualche altra lingua, qua è davvero importante, sapere lo spagnolo o anche il mandarino.
Perché il mandarino?
C’è una grande comunità di artisti cinesi e taiwanesi qui. Recentemente poi sono stato ad una sessione di scrittura agli studi di Amazon Music a Brooklyn con JC Losada “Mr. Sonic” e in classe parlavano tutti spagnolo. Mi è capitato di lavorare con artisti colombiani o cinesi e conoscere la loro lingua sarebbe stato importante per aver una maggiore connessione in studio o anche solo per lavorare più facilmente sui testi. Devi curare molto la parte umana del lavoro, quando registri ti trovi a condividere lo studio per dieci dodici ore con quella persona e te la devi cavare, anzi, qui tutti dicono che devi essere un good hang, una persona con cui alla fine l’artista ha piacere a stare insieme oltre che a lavorare.
Ok, New York è sempre stata famosa per il suo ambiente multiculturale ma la cosa che vorrei capire è: i venezuelani suonano solo musica venezuelana? Cioè c’è ancora qualche forma di segregazione musicale o oggi queste barriere sono completamente superate?
No, devo dire che oggi la mescolanza è totale, ho un mio amico cinese, Larry Xu, che fa roba che prende ispirazione da XXXTENTACION come dal sound design più sperimentale, e lui rappa in mandarino. Questo ambiente multiculturale l’ho ritrovato anche dentro la scuola, c’è un altro ragazzo italiano che fa il corso con me: Filippo Bubbico, un musicista incredibile di Lecce, che ha fatto anche un tour con Federico Malaman. Il fatto che ci sia gente da tutto il mondo mi ha permesso di fare delle esperienza assurde: sto suonando con una musicista keniota e così ho dovuto studiare dei brani popolari keniani che altrimenti non avrei mai potuto conoscere, non avevo idea di cosa ci fosse in classifica in Kenia, le collaborazioni diventano spesso delle lezioni di etnomusicologia. È tutta una questione di ascolto, quando ti approcci ad una musica così lontana dal tuo retroscena culturale non puoi permetterti di approssimare, devi approcciarti in modo molto sobrio alla musica e cercare di aderirvi il più possibile con il tuo strumento.
Tutto questo grande afflusso di musicisti che arriva a New York da ogni parte del mondo poi dove è che suona? Qual è la situazione dei locali jazz a New York e quali stai frequentando?
Ci sono molti locali che organizzano dei concerti negli speakeasy [spazi accessibili dal locale principale ma che generalmente restano separati da una piccola porta poco in vista, nascono a New York negli anni del proibizionismo: qui si continuava a vendere alcolici di contrabbando nonostante il divieto, ndr.] dove puoi trovare degli open mic davvero interessanti a cui partecipano giovani musicisti, qui si può sperimentare e suonare insieme. Ne ho visto uno recentemente dove cantavano solo attori di Broadway, è stato pazzesco. I locali storici del Jazz sono nel Lower West Side, vicino Soho, come Smalls e Mezzrow che sono vicinissimi o il Village Vanguard, il Blue Note, il Birdland vicino Times Square. Ce ne sono poi altri che frequento più spesso perché sono più accessibili economicamente e con un’atmosfera più popolare: a Harlem molti locali fanno jam jazz di domenica, qui l’atmosfera è sempre da festa, molto lontana da quella dei locali più salottieri del centro, qui la gente urla e balla, anche il modo di suonare cambia di conseguenza e diventa molto più energico, l’età media del pubblico è più bassa. Ecco, questi locali che trovi anche nell’East Village o nel Lower East Side a me ricordano certe atmosfere che frequentavo a Roma, al Pigneto o San Lorenzo quando uscivo da Celestino o al Bar dei Brutti.
Anche se stai studiando produzione musicale continuiamo a parlare di musica suonata dal vivo e di locali jazz. Quindi penso sia il momento giusto per chiederti: come hanno interagito la tua formazione come chitarrista jazz con lo studio sulla produzione che stai facendo adesso? Credi che possano influenzarsi a vicenda e in che modo?
Sotto questo aspetto mi ha aiutato Rob Mathes che lavora come arrangiatore per Sting e in questi anni è stato un po’ il mio mentore. Io avevo esperienza soprattutto nella registrazione delle chitarre e lui mi ha spinto a partire da là per trovare una mia firma creativa in quello che facevo. Trovare un modo originale di usare la mia formazione da chitarrista jazz nelle produzioni facendola convivere in modo creativo con altre mie fisse musicali come la sintesi sonora e il sound design o, parlando di generi musicali, il minimalismo americano, Philip Glass o anche il minimalismo sacro europeo di Arvo Pärt. Inserire in mezzo a queste influenze l’istintività del jazz, quel modo di suonare a orecchio.
L’approccio di cui mi parli mi fa pensare a qualche ascolto che ho fatto ultimamente: Endelessness di Nala Sinefro e Promises di Floating Points, che hanno recuperato l’approccio al jazz più introspettivo e mistico di Alice Coltrane e l’hanno declinato in maniera più elettronica legandolo a una certa ricerca speculativa che aveva il minimalismo americano (ci butto dentro pure l’ultimo di André 3000, minore, ma qua ci sarebbe da aprire un discorso a parte…). Però dato che siamo finiti a snocciolare i dischi, ora devo proprio chiederti: sulla base di quello che mi hai detto, delle pieghe che sta prendendo il tuo percorso artistico, come sono cambiati i tuoi ascolti?
Il cambiamento maggiore che ho avuto nei miei ascolti è dovuto al fatto che ora capisco di più i testi anglofoni, anche prima di arrivare qui vedevo film o ascoltavo podcast in inglese ma con la musica la concentrazione mi finiva più sulle melodie che non sui testi. Ora che sono esposto allo slang americano, l’hip hop mi si è proprio rivelato, per capire i testi non devo per forza leggerli, questo ha cambiato tutto, a volte devo dire a mio malgrado (non sono sempre il massimo, a volte avrei preferito non conoscerli…). Poi se devo farti il nome di qualche album, direi We’re here, my dear di Frank Dukes, un produttore che ha lavorato con tantissimi musicisti del pop americano, da Post Malone a Frank Ocean, è famoso anche per aver creato la Kingsway Library, un sample pack enorme, poi a quarant’anni ha deciso di fare anche un album personale che è una sintesi tra il rock lo-fi anni ’90 e una produzione molto moderna. Sono innamorato di come tratta la batteria che entra nella title track – super distorta, super compressa -, sto usando moltissimo quello stile nelle mie produzioni. Poi sto ascoltando molto Juice Wrld che è stato importantissimo per la scena trap ma che non conoscevo prima di arrivare qua; dopo aver visto un’intervista in cui ne parlava Benny Blanco ho ascoltato Goodbye & Good Riddance e sono rimasto davvero colpito dal timbro vocale e dalle melodie, non è un genere che ascolto spesso ma mi è stato davvero utile per il mio lavoro come produttore (insieme anche ad XXXTENTACION e quella wave là). Per ultimo un disco che mi ha fatto conosce una mia amica qualche anno fa e ora sto riascoltando continuamente, in realtà è un EP, sono quattro brani, Albatros dei Raze de Soare, un duo di musica elettronica rumeno con forti influenze dalla musica popolare rumena).
Mi dici anche qualcosa sugli studi di registrazione a New York? Per adesso abbiamo parlato del Power Station che è lo studio del Berkeley Collage dove tenente anche le lezioni e poi del Bunker Studio dove stai facendo il tirocinio. Quali sono gli studi di registrazione più importanti e dove sono collocati nella città?
Gli studi in realtà sono sparsi un po’ ovunque. Power Station e Electric Lady (fondato da Jimi Hendrix) sono sicuramente i più importanti, sono studi storici e sono a Manhattan. Per tutti gli altri dipende, è una cosa legata molto alla disponibilità dei locali in cui si può costruire uno studio di registrazione, qui a New York è difficile trovare degli spazi adatti, come potresti invece fare in una zona meno verticale e più periferica. Alcuni studi però sono sviluppati all’interno di condomini, come il Flux Studio che è gestito da un francese che si chiama Fab, otto studi di registrazione all’interno di un condominio, ci hanno lavorato anche Frank Ocean o gli Strokes, uno studio che tratta moltissimi generi; ce ne sono altri invece specializzati che fanno solo hip-hop o jazz (come il Bunker Studio). O studi come quelli di Republic Records in cui fanno principalmente mixing, arrivano lì vecchi dischi dell’etichetta e lavorano su quelli: hanno remixato i dischi di Marvin Gaye in Dolby Atmos o recentemente anche Heroes & Villains di Metro Boomin.
Come funziona per il mastering invece? Sono affezionato al mastering perché è un procedimento che lego molto all’editing che si fa su articoli e racconti, prendi qualcosa di già compiuto e ci lavori su per potenziarlo, lavori di fino, nell’ombra, sei quasi invisibile ma poi è fondamentale per il risultato finale, un procedimento quasi esoterico anche nell’ambito musicale…
Si per il mastering è tutta un’altra storia, non tutti gli studi hanno una stanza adatta a farlo. Ho visto qualcosa al Bunker Studio dove c’è una sala mastering tutta in analogico. È proprio qualcosa a sé: l’ingegnere che lavora ai mastering lo vedi la mattina e poi la sera alle nove, nel frattempo prende un tè verde a metà giornata e resta chiuso in quella stanza una decina di ore.
Ora vorrei fare un passo indietro. Un flashback, che non so se è una tecnica che si usa nelle interviste. Mi racconti di come hai iniziato a interessarti alla produzione musicale? Avevi già fatto qualche lavoro in Italia?
In Italia il mio primo progetto vero e proprio in cui ho lavorato è stato LEAVEYOU con Livio Ricciardi, che ora lavora come influencer nell’ambito della psicologia; abbiamo lavorato insieme ad un ep di cinque brani, Spintria, durante la pandemia, è stato da lì che ho capito che avrei potuto intraprendere la strada della produzione musicale. Dopo la pandemia abbiamo lavorato insieme, questa volta in presenza, a due nuovi singoli: Immagine e Nuda. Poco dopo ho lavorato per un ep di cinque brani con David Actual, il progetto di Tommaso La nave, un bravissimo trombettista. Nel frattempo avevo anche un duo con Giacomo Belli con cui riarrangiavamo per due chitarre dei classici del jazz.
Tu come me sei abruzzese, e sappiamo quindi che non è facile trovare luoghi per la musica nella nostra regione. Qualcosa c’è, penso al Garbage Live Club di Silvio Pizzica a Pratola Peligna, oppure (è già nel Lazio, ma lo consideriamo un vicino di casa) il Container Audio Room di Roberto Proietti Cignitti. Ora a parte queste cattedrali nel deserto, tu come ti sei mosso per i tuoi primi lavori? Sei dovuto andare a Roma o hai scelto la via diy e hai fatto tutto in casa?
Si, hai ragione, da noi a parte lo studio di Roberto [che comunque sta in un’altra regione, ndr] davvero non c’è nulla, nelle aree rurali siamo abituati ad arrangiarci, questo però è stato un ottimo modo per imparare a fare molte cose che altrove altri possono fare per te a pagamento. Tu per esempio ti sei buttato molto sull’hardware e hai trovato lì il tuo stile di produzione, io invece mi sono chiuso con Serum e tutta la sintesi virtuale, che poi ho studiato anche in conservatorio con Enrico Cosimi, e nello stesso periodo ho cominciato ad addentrarmi di più nel mixing e nel mastering, quindi proprio quella parte dell’ingegneria del suono che è una parte fonamentale del processo di produzione.
Non solo, mi ricordo una volta che ero venuto a trovarti ed eri nel bel mezzo di lavori di carpenteria… Cosa avevi costruito? Dei pannelli acustici isolanti?
Sì, ho cercato di trattare acusticamente la mia stanza (dove facevo le registrazioni audio) e anche per quell’aspetto ho dovuto muovermi da solo: stavo costruendo dei pannelli in fibra di poliestere insieme a mio padre, avevo fatto delle misurazioni sulle riflessioni acustiche della stanza con Room EQ Wizard e un microfono omnidirezionale specifico, il Behringer Ecm8000 (che per fortuna si trova a una trentina di dollari…) per capire come posizionarli nella stanza. Alla fine sono rimasto stupito da quanto effettivamente abbiano migliorato le registrazioni. Poi erano anche beige, che è il mio colore preferito, belli. Tutto quello che sapevo l’avevo cercato soprattutto su forum di nerd audiofili, qualche utente però era davvero un ingegnere e condivideva i suoi paper. Setacciando Gearspace e Reddit, dopo l’iniziale entusiasmo, ho capito che molte delle voci che girano sul trattamento audio degli spazi casalinghi sono degli scam: le famose basstrap non funzionano. Uno dei vantaggi di non delegare è che, oltre a imparare tutto quello che riguarda il processo creativo, devi necessariamente avere dei rudimenti anche di tutte quelle competenze strettamente acustiche e ingegneristiche. Purtroppo la mia camera da letto era diventata un ambiente ibrido, ho dovuto prendere uno di quei letti che si richiude nella parete per avere spazio nelle sessioni di registrazione. Mi ricordo di questa cantante di Roma che era arrivata a casa mia, a Civita di Oricola, per registrare ed era rimasta sorpresa che dovevamo chiudere le finestre non tanto per il traffico ma per non registrare i rumori del pollaio che stava là vicino. Però alla fine proprio quei lavori sono gli stessi che ho presentato nel portfolio per la commissione Fulbright e alla Berklee. La mia ispirazione è sempre stata la cultura della collaborazione che vedevo nella scena musicale di Los Angeles, lì è comune che a un brano si lavori in tantissime persone, prendi per esempio i pezzi di Sabrina Carpenter che sono adesso in classifica, molti sono stati scritti da Aimee Allen (una delle autrici che mi hanno ispirato di più in assoluto e anche lei ha fatto la Berkeley, ma a Boston) e nei credits di questi brani oltre a lei trovi una lista lunghissima di persone che ci hanno lavorato. Una buona parte del lavoro del produttore alla fine è anche fare delle chiamate: chiami un trombettista perché sai che può valorizzare quelle parti melodiche. Quindi ho cominciato a pensare al processo di produzione come un’opera aperta, in cui l’ingresso era consentito a chiunque potesse dare un valore aggiunto al brano. Invece, nelle esperienze che avevo fatto in Italia il lavoro di produzione musicale mi era sempre sembrato un po’ più chiuso, al massimo nel pop arriviamo al duo, pensa a Sanremo: da Battisti e Mogol a oggi che ci sono Blanco e Michelangelo.
Anche perché storicamente in Italia abbia sempre avuto questa idea che l’artista sia una singolarità isolata e illuminata che fa le cose da sé nella completa libertà creativa, invece l’idea di industria culturale che c’è negli Stati Uniti (anche quella ovviamente ha i suoi lati negativi e non sono pochi) cambia radicalmente questo paradigma, penso alla classica diatriba cinematografica del dopoguerra tra l’autore europeo e la macchina dei sogni statunitense.
Oggi però anche il panorama in Italia sta lentamente evolvendo, guarda Mace che per fare l’ultimo disco ha chiamato moltissime persone a collaborare, tra le quali anche artisti molto lontani dal suo approccio tipo Marco Castello.
Marco Castello è un esempio interessante perché nella sua produzione artistica ha sempre avuto un ruolo importantissimo la collaborazione, dal progetto della Compagnia con Erlend Øye, fino alla collaborazione con tanti jazzisti nel suo ultimo album Pezzi della sera, o il lavoro sui suoni che su quell’album hanno fatto i Nu Genea. Questa attitudine immagino tu l’abbia ritrovata ampiamente quando ti sei trasferito a New York, come sono iniziate lì le tue prime collaborazioni?
A Berklee la spinta alla collaborazione è fortissima già dai primi giorni di studio, è una scuola che nasce negli anni ’70 con un forte approccio internazionale. Ha sempre fornito visti statunitensi per gli studenti stranieri, per esempio a Joe Zawinul quando è arrivato qui dall’Austria. Il mio corso che è il Master of Arts in Songwriting and Production nasce per riflettere il più possibile il funzionamento dell’industria musicale americana e anche per questo si tiene a Power Station che è uno studio storico di registrazione dove quell’industria lavora tutti i giorni. Teniamo qui un corso che si chiama appunto “principi di collaborazione” e il suo scopo è proprio creare quella rete di rapporti di cui ti parlavo, per me è stato sicuramente il corso più interessante. Io sono arrivato qui con un’idea molto ingenua, se vuoi utopica, della collaborazione e poi mi sono scontrato con i fisiologici momenti di attrito tra le persone con cui lavoravo ti trovi a collaborare con personalità molto forti che portano in studio problematiche o semplicemente modi di fare musica molto diversi. Ho capito che l’atmosfera che si crea mentre si lavora è prioritaria e non è sempre detto che un artista riesca a lasciare il proprio ego al margine del lavoro, non è nemmeno detto che tutte le sessioni debbano portare al risultato finale del brano. Mi ricordo una sessione in particolare con due miei colleghi, avevamo avuto una settimana davvero dura e il lavoro si è trasformato in un confronto su quel periodo di difficoltà che stavamo affrontando. È anche un modo di recuperare, soprattutto nel lavoro artistico, un’idea di vulnerabilità che troppo spesso era stata rimossa, è successo qualcosa di simile nell’hip hop, dopo il soundcloud rap con XXXTENTACION, Lil Peep, hanno abbandonato un certo machismo che faceva parte del genere per trasformarlo in un linguaggio che può proiettare quel tipo di disagio nella musica, prima magari c’era stato spazio nel genere per il disagio sociale, ora può esserlo anche personale, strettamente psicologico.
Tra le collaborazioni che stai portando avanti in questo momento quali sono le più importanti per te?
In questo momento sto lavorando con Danny Ritz e con Momo Chapin, entrambi sono di Philadelphia, con Danny ho prodotto tre brani che usciranno in autunno. Ho anche registrato le chitarra per Dexter nel suo brano Sentimental Kid, a cui Billboard Indonesia ha recentemente dedicato un articolo, e con lui sono in uscita altri sette brani a cui abbiamo lavorato insieme.
Che differenza hai trovato nel tuo lavoro di produzione musicale nel lavorare sul tuo pc da casa rispetto a ora che invece lavori in uno studio professionale con molta strumentazione hardware?
La voglia di giocare con tutto quello che hai nello studio è sempre fortissima, ti trovi davanti a delle macchine che non potresti mai permetterti, però devi anche capire come e quando usarle. Le voci ora le passo sempre dentro un Teletronix LA-2A, un compressore fenomenale che suona sempre naturale indipendentemente da quanto comprimi il materiale di partenza. Ma la cosa di cui mi sono davvero innamorato è il riverbero a piastre, qui a Power Station lo abbiamo, ma ti serve praticamente una stanza soltanto per quello, è forse l’unico strumento che secondo me è irraggiungibile dall’emulazione digitale, il plug-in funziona, suona bene, ma il riverbero vero è un’altra storia, la differenza rimane clamorosa, senti questa enorme piastra di metallo che vibra, hai quella spigolosità, quelle risonanze che è difficile trovare nel digitale. E poi infine l’Empirical Lab Distressor, che uso per emulare il suono, che come ti dicevo mi piace molto, delle batterie di Frank Dukes, ma su questo devo dire che anche l’emulazione digitale funziona più che bene, quindi spesso uso anche quella.
Per un po’ hai tenuto una rubrica su Instagram che si chiamava “gears i can’t afford” – di cui sono un grande fan – in cui facevi vedere come usare questi strumenti che probabilmente abbiamo visto in mille video su YouTube ma nessuno si è mai potuto davvero permettere. Ora che parliamo, appunto, di cose che non possiamo permetterci vorrei approfondire anche il lato economico di tutta questa faccenda. Per me è importante sottolinearlo, perché non è scontato. Partire per studiare negli Stati Uniti in una situazione come la tua, ovvero di precarietà economica, è stato possibile solo grazie alla borsa di studio e poi al lavoro che ti sei sobbarcato parallelamente agli studi…
Per quanto il sacrificio sia lodevole e sicuramente un indice di grande motivazione, nasconde degli ostacoli sistemici che non bisogna ignorare, specialmente negli Usa, dove gli studenti internazionali possono solo contare su lavori on-campus e borse di studio e solo in casi rarissimi possono essere autorizzati lavori off-campus. Però è certo che se hai una famiglia abbastanza abbiente è più facile arrivare qui a studiare, ho conosciuto persone che sono qui per fare tirocini non pagati ed è evidentemente una cosa che fai solo se te lo puoi permettere perché non è così comune poterselo permettere. È ovvio che le persone più abbienti hanno un maggiore accesso a queste esperienze e proprio per questo resto critico verso qualunque politica di immigrazione che alla fine non porta ad una reale inclusione sociale (slegata dalla disponibilità economica di partenza). Se ottieni una borsa di studio per studiare qui, dovresti anche poter lavorare parallelamente allo studio per pagarti da vivere e non sempre il visto lo permette, anzi quasi mai. Io con il mio visto Fulbright (che è uno J-1) fortunatamente posso lavorare anche al di fuori del campus e questa è stata una grande opportunità per suonare legalmente in diversi locali, cosa che con un visto normale (F-1) da studente non avrei potuto farlo. In Italia la situazione è molto diversa: da studente internazionale sei autorizzato a lavorare durante il periodo di studio. È stato complicato per molti musicisti che conosco rimanere qui, soprattutto perché non poter lavorare per loro significava non poter suonare nei locali, e per un artista questa è una mezza tragedia. Ora vivo in una residenza internazionale, dove ti danno un affitto a prezzo agevolato e anche questo per me è importantissimo. C’è anche un lato positivo però, dato che qui è tutto molto privatizzato (non c’è l’ISEE come in Italia e la possibilità di richiedere aiuti in base al reddito) questo ha creato una forte tendenza all’aiuto informale: non ci sono graduatorie dove iscriversi per ricevere aiuti economici, ma se vai da qualcuno spesso è disposto ad aiutarti, trovi molto supporto da questo punto di vista. Quando qualcuno a scuola ha avuto problemi economici è stato aiutato, anche perché il suo talento serviva alla scuola e questo è stato indubbiamente un incentivo.
Come pensi di muoverti per il futuro?
Il mio obiettivo è di continuare a lavorare a New York ma vorrei avere più tempo per tornare in Italia e magari iniziare delle collaborazioni tra qui e lì.