“La soddisfazione di vita e la felicità tra i giovani adulti occidentali, negli ultimi dieci anni, sono in declino”, così inizia un articolo su The Vision. ”Giovani oggi meno felici rispetto alle generazioni precedenti”, titola il Sole 24 Ore. Non so se sia per via del fatto che avvertiamo l’imminenza della fine. In ogni caso, è un fatto che ci sentiamo male e stiamo sempre peggio. Negli ultimi cinque anni in Italia, oltre a un’economia in crisi che genera incertezza e paura per il futuro, collateralmente o causalmente è aumentata la depressione. E al malessere diffuso non c’è risposta: il supporto, sia sul piano economico che su quello della salute mentale, è gravemente insufficiente.
Ma forse questo malessere non è solo una conseguenza, bensì anche un sintomo. Un sintomo dell’ambiente percettivo in cui siamo immersi. In seguito a una roboante accelerazione, l’ambiente digitale è diventato parte imprescindibile della nostra esistenza, influenzando profondamente le nostre abitudini quotidiane e la nostra percezione della realtà. Oggi passiamo, in media, circa un terzo della nostra giornata online, più di sei ore al giorno, ed è un dato in piena crescita. Eppure, facciamo ancora fatica a capire quanto tutto ciò sia alla base di un cambio di paradigma antropologico.
Il rapporto simbiotico con l’Internet of Things ci lascia in balia di un’inquietudine a cui non sappiamo dare forma, come se la nostra coscienza fosse indebolita e passiva di fronte al cambiamento. Cosa succederà? Faremo finire il mondo? Sta arrivando l’Apocalisse? Francesca Coin, in un breve saggio intitolato Tecnoapocalisse, sintetizza: “è questa, del resto, l’esperienza quotidiana che molte persone hanno della tecnologia: di un’infrastruttura distopica, che sembra servirsi della vita umana più di quanto quest’ultima possa realmente servirsi della tecnologia”. Ci sentiamo impotenti e sfruttati.
Così, attuiamo strategie per metterci in salvo, cerchiamo di capirci qualcosa, esorcizziamo la paura con analisi e teorie, miti e culti. L’operazione editoriale compiuta da Tlon a gennaio 2025 con l’uscita di Ipnocrazia, saggio firmato Janwei Xun, si colloca in questo scenario di profonda crisi e perdita di punti di riferimento.
Dopo circa due mesi dall’uscita, recensioni, diverse traduzioni e perfino ristampe, la rivelazione: Janwei Xun non esiste. È solo un nome, l’identità dell’autore è inventata, dietro Ipnocrazia ci sono Andrea Colamedici, editore e fondatore della casa editrice, alcune intelligenze artificiali generative come Claude e ChatGPT e, come avviene per quasi ogni saggio, suggerimenti e pareri di altri intellettuali che si occupano di ambiente digitale, innovazione tecnologica e filosofia. Nessuna edizione originale, nessuna traduzione, nessun filosofo cinese erede di Baudrillard o Byung-Chul Han come narrato nelle finte note del presunto traduttore, nonché vero autore, Colamedici.
Molti si sono soffermati su questo aspetto e lo hanno analizzato. Ma come? Non ci siamo chiesti chi fosse, né ci siamo preoccupati di approfondire l’identità di Xun. Gli stessi ideatori parlano dell’operazione come di un esperimento sulla costruzione della realtà nell’era digitale, una dimostrazione della manipolazione percettiva insita nella struttura che il libro descrive.
C’è da dire che il clamore che si è generato attorno all’esperimento ha a che fare con la natura del saggio. L’opera già di per sé – al di là della performance editoriale – è inevitabilmente attraente. Ipnocrazia è quel tipo di libro che solo per il tema trattato lascia con molte cose da dire, oppure, allo stesso tempo, con pochissime: leggere questo saggio potrebbe anche solo rappresentare il tuffo in forma scritta nello strano periodo storico che stiamo vivendo. E non è una cosa da poco. La rarità con la quale verbalizziamo o ascoltiamo discorsi sulla struttura e sull’abitare l’oggi rende questo un testo irrinunciabile al di là delle teorie contenute al suo interno. Sfogliarne le pagine significa cimentarsi – anche criticamente – nell’esercizio di analizzare in maniera stratificata e abitare consapevolmente i luoghi, nonché i nuovi modi in cui i luoghi si conformano attorno a noi nel 2025.
Eppure non è solo questo: la quantità di questioni che il testo solleva mi portano a non fermarmi alla sola contestualizzazione di questo saggio ma ad andare più a fondo. Il primo ambito di questioni è quello derivante dal metodo con cui Ipnocrazia si presenta, ovvero come esperimento, fatto che solleva la questione della verità, dell’identità e di come ci rapportiamo con esse, oltre all’interrogativo etico sulla possibilità di servirsi delle intelligenze artificiali per produrre il ragionamento filosofico.
Il secondo ambito di questioni è quello invece rappresentato dalla teoria vera e propria che Ipnocrazia propone. Per parlare di Ipnocrazia occorre quindi analizzare i due livelli e poi provare a metterli in relazione. Sulla questione della verità, dell’inganno legato all’identità dell’autore e di come le verità si costruiscono, Colamedici risponde alla giornalista Sabina Minardi su L’Espresso: “È vero, per quanto il mio scopo non sia stato quello di mostrare la debolezza del giornalismo, la fragilità del meccanismo dell’informazione si è resa palese”.
Nonostante non fosse l’obiettivo primario dell’esperimento, questa affermazione lascia il lettore con un interrogativo importante: fino a che punto un saggio filosofico si presta davvero a testare il fact-checking? Le teorie non sono affermazioni verificabili nel senso giornalistico del termine. Se l’obiettivo fosse stato testare la credulità, o meglio la tendenza ad accettare informazioni senza verificarle, non sarebbe stato meglio che l’esperimento avesse riguardato ambiti percepiti come “oggettivi”, rilevanti o immediatamente spendibili nella realtà quotidiana?
Secondo un recente studio pubblicato su Nature, inoltre, pare che le persone siano molto più spinte a dubitare piuttosto che a credere alle notizie in generale, tanto da ritenere false perfino quelle vere. La pretesa dell’esperimento di dimostrare qualcosa di significativo sulla suggestionabilità dell’informazione nell’era dell’ambiente digitale è messa in discussione non solo dall’ambito di interesse, quello filosofico, ma anche da alcuni fattori che gli ruotano attorno. In primis, non si tratta di una notizia poco attendibile pescata online, ma di un libro di filosofia pubblicato da una casa editrice.
È naturale, in questo contesto, che il lettore non senta il bisogno di verificare ogni dettaglio sull’autore perché attribuisce valore a chi ha scelto di pubblicare quel testo. Si affida, cioè, all’editore come garante di una certa legittimità culturale. Un gesto di fiducia più che di credulità. In secondo luogo, quello su cui dobbiamo concordare è anche cos’è il pensiero filosofico per sua natura, un atto creativo umano o una struttura logica plausibile? Inoltre, qual è il valore che diamo alla figura dell’autore in relazione alla teoria? Come dice Francesco D’Isa in un articolo uscito su Italian Review, l’autore potrebbe anche solo rappresentare una funzione diffusa, ambientale, che prende forma all’interno della rete di relazioni tra il libro, chi lo legge e il contesto in cui si diffonde.
L’esperimento non dimostra la nostra ipnosi, piuttosto la fiducia nell’istituzione culturale e la possibilità di integrare e impiegare l’intelligenza artificiale nel ragionamento e nella scrittura. E questo è il secondo punto della prima questione. Lo stupore e la paura generati dall’utilizzo dei sistemi LLM (Language Large Model) e NLP (Natural Language Processing) hanno alimentato nuovamente il mito dell’intelligenza artificiale pronta a sostituire la specie umana, questo stato inquieto è aggravato dal senso di straniamento che ci provoca l’idea che la scrittura o il ragionamento filosofico – in questo caso –, così come l’arte nelle sue molteplici espressioni, non siano peculiarità strettamente umane, essendo in realtà un patrimonio che può appartenere ad un’altra specie e a forme di intelligenza non sovrapponibili alla nostra. Come scrive D’Isa, la creatività è il risultato di un processo condiviso, dello scambio tra individuo, strumento e ambiente. In questo senso, cosa cambia davvero se un libro viene scritto con l’ausilio di un’intelligenza artificiale? Su quali elementi dovrebbe basarsi il nostro giudizio?
In quasi tutti i casi guardare al “come” un libro è stato composto non basta, bisogna valutare cosa viene detto e Ipnocrazia è, a tutti gli effetti, una teoria filosofica. È stata elaborata da Andrea Colamedici attraverso l’uso consapevole di un’altra intelligenza – quella artificiale. Un gesto che non si discosta poi molto dal confrontarsi con altri pensatori durante la stesura di un’opera. Lo strumento non sostituisce l’autore: lo accompagna, come un elemento in più all’interno di un processo – quello della produzione del pensiero filosofico – che è già, per sua natura, relazionale.
Passiamo all’ambito teorico. Ipnocrazia ha una struttura ben precisa, quella, appunto, di una teoria, una metafora concettuale che poggia salda sull’idea che i tempi contemporanei siano caratterizzati e scanditi dal realizzarsi di un’ipnosi collettiva, da uno stato di trance di cui tutti siamo vittime e che si articola in modo molto complesso e pervasivo, senza un’apparente via di scampo. L’ipnocrazia si dispiega mettendoci in condizione di sperimentare stati alterati di coscienza, attraverso i quali essa si compie sfruttando la nostra inconsapevolezza.
Per queste ragioni, soffermarsi sull’operazione editoriale lascia il tempo che trova. In primis perché, appunto, un’opera scritta utilizzando l’intelligenza artificiale non possiede intrinsecamente e obbligatoriamente caratteristiche differenziali, in secondo luogo perché essa non dimostra in maniera così netta “come si costruisce la verità nell’era dell’intelligenza artificiale”, lo fa, piuttosto, in generale, descrivendo dinamiche che pur tolto il fattore IA non sarebbero intaccate – se Xun fosse stato solo un nome falso tutto si sarebbe svolto allo stesso modo, le persone si sarebbero fidate di Tlon come casa editrice, il filosofo cinese sarebbe comunque esistito fino al suo outing come entità collettiva. Tutta la narrazione che ci presenta Ipnocrazia come un grande inganno, somiglia più che altro a una manovra commerciale perché, come abbiamo visto, l’esperimento dimostra ben altro.
Così viene conclusa la descrizione del volume da Colamedici nelle già citate note del traduttore: “[…] Nella prima parte [Xun] analizza l’homo social, per poi offrire nella seconda parte qualcosa di ancor più prezioso: è una mappa per orientarsi nel territorio confuso e affascinante della contemporaneità, per scoprire nuovi modi per disertarlo, sabotarlo e abitarlo”. Queste righe vengono riprese anche nella quarta di copertina e nella descrizione del volume sul sito della casa editrice.
Proviamo a parlare del libro seguendo questa descrizione. La prima parte presenta un insieme di ambiti in cui le nuove tecnologie influenzano la nostra esistenza online e offline, alterandone percezione e funzionamento. Si tratta, quindi, della situazione e dei suoi effetti sulla nostra specie. Tuttavia, la mancanza di una struttura chiara, tanto nella prima quanto nella seconda parte, rende difficile associare il testo all’idea di una mappa. Un lettore che si aspetta uno strumento di orientamento — una guida concettuale chiara, progressiva, articolata per orientarsi nel caos della contemporaneità — potrebbe trovarsi spaesato. La struttura del libro, infatti, è tutt’altro che lineare: gli argomenti emergono in modo frammentato, connessi più da suggestioni emotive che da una logica argomentativa precisa. Xun, chiunque esso sia, ci accompagnerà in un viaggio dall’atmosfera sci-fi. Ma quello che abbiamo di fronte non è un romanzo, è un saggio filosofico; una descrizione, si spera, sincera della realtà per questa entità autoriale. Il testo oscilla tra narrazione evocativa e proposta teorica, ed è proprio questa ambiguità ad allontanare l’opera dall’idea di strumento utile all’orientamento, avvicinandola piuttosto a una provocazione concettuale. Ipnocrazia sembra mettere in crisi l’idea stessa di orientamento, mostrando che il reale è troppo fluido, manipolabile, ipnotico per essere cartografato in senso tradizionale. La mappa, in questo senso, non serve ad uscire dal regime ipnocratico, ma a mostrarci quanto ne siamo già immersi.
In questo scenario, anche il ruolo del lettore cambia radicalmente. Non è più il soggetto guidato attraverso un percorso di comprensione, ma piuttosto un osservatore immerso, coinvolto in un’esperienza quasi estetica di disorientamento. Non riceve un ordine del mondo, ma ne sperimenta la disgregazione. È chiamato a intuire connessioni più che a seguirne di predefinite.
Il fatto che il testo sia stato composto anche con il supporto dell’intelligenza artificiale non è irrilevante. L’assenza di linearità, l’organizzazione per nuclei percettivi o immagini ricorrenti, possono essere letti come esito di questo uso, e anche Colamedici/Xun tiene a sottolineare questa peculiarità del libro nella prefazione, giustificandola come il tentativo di risimulare l’ipnosi – probabilmente accortosi di questa caratteristica data dall’uso massiccio di IA. Anche questo aspetto rimane in linea con la visione del mondo che il libro propone: una realtà fluida, frammentata, senza centro, invasa da forme di potere dalle stesse caratteristiche. Se vogliamo proprio chiamarla mappa, lo stiamo facendo uscendo dall’accezione più intuitiva del termine.
Dal secondo capitolo in poi scorrono una serie di spiegazioni dettagliate delle varie dinamiche che contraddistinguono, per Xun/Colamedici, la contemporaneità, che proverò brevemente a sintetizzare. Innanzitutto, per funzionare, il regime ipnocratico deve trovare un modo per ottenere potere, questo potere, nell’epoca della decentralizzazione, attecchisce in uno spazio grigio tra coscienza e incoscienza: nello stato ipnotico. Esemplari acclamati in questo sistema sono coloro che si immergono nelle sue logiche e le alimentano – Donald Trump e Elon Musk. Ma quali sono gli elementi che permettono la costruzione dell’ipnosi? In primo luogo abbiamo lo stato di trance scaturito dalle verità multiple e dalla ricorsività propria del sistema algoritmico, poi il modo particolare in cui la soggettività si forma in dialogo costante con la macchina e come la corporeità e la singolarità si perdono in questo processo. Questi elementi generano stati di coscienza alterata che confluiscono in una vera e propria struttura, un’architettura della suggestione e questa architettura ci porta a cercare di ottimizzare ogni aspetto della nostra vita. In questo scenario di simulazione totale perdiamo la capacità di agire e rimaniamo incollati a un sistema che ci fa del male perché ne siamo dipendenti.
A prescindere dalla fondatezza di queste analisi, è molto interessante guardare l’elenco stilato di ambiti nel suo complesso. Non siamo abituati a parlare di stati di coscienza, di ambiente digitale o di algoritmi e i pensieri che facciamo a riguardo sono spesso più al livello di percezione, difficilmente verbalizzabili. Già solo per questo aspetto, Ipnocrazia — come molti saggi recenti — offre strumenti per decifrare le forme di questo nuovo modo di abitare e vivere, emerso negli ultimi vent’anni.
Tutta la prima parte di Ipnocrazia, quindi, si muove all’interno della cornice concettuale dell’ipnosi collettiva, che funge da metafora guida per descrivere la condizione contemporanea. Qui arriviamo a un altro dubbio che mi ha lasciata perplessa: per ipnotizzare, non serve un’intenzione? Qualcosa, o qualcuno, dovrebbe voler esercitare un’influenza sulla coscienza altrui. Ma nel caso della nostra contemporaneità, così frammentata, decentrata e distribuita, dove sarebbe questo ipnotizzatore? Se non esiste un centro, se nessuno sembra detenere il controllo, possiamo davvero parlare di ipnosi? O forse non siamo tanto ipnotizzati, quanto semplicemente in balia — di stimoli, dispositivi, conversazioni. Eppure, in questo passaggio di Ipnocrazia, seppur ambiguo, ci sono alcuni spunti importanti. Il libro mette a fuoco dinamiche percettive, relazionali e cognitive che meritano attenzione a prescindere dalla presenza o assenza di “ipnotizzatori” e dell’adeguatezza dell’ipnosi collettiva come metafora per il mondo odierno.
Nella quarantina di pagine che completano il volume e ne costituiscono la seconda parte, troviamo un invito in forma di saggio a prendere attivamente coscienza del funzionamento dell’ipnocrazia per disertarla. La condizione preliminare è quella di cambiare il modo in cui percepiamo la realtà, renderci consapevoli delle dinamiche, trovarne i bug, le crepe, i glitch, e infilarcisi dentro. La resistenza all’ipnocrazia non si configura come opposizione frontale, ma come deviazione minima, come presa di distanza percettiva e simbolica. È una pratica individuale, quasi intima, che ha più a che fare con il posizionarsi che con l’agire. A tal proposito, anche la diserzione e il sabotaggio risultano quando non vere e proprie pose, posizionamenti. Fino a che punto la consapevolezza diserta quando è individuale e rispetta il ritmo dei fisiologici punti deboli dell’algoritmo?
Oltre questo, nonostante la ricorsività a tratti estenuante di cui soffre, la seconda parte del saggio si sofferma su tre questioni interessanti. La prima è quella di abitare la soglia, la seconda quella del sé conversazionale e la terza l’invito a curare i momenti di blackout e rivalorizzarli. Questi tre aspetti ci dicono molto sul mondo di oggi e sulla prospettiva dalla quale osserviamo quello di domani.Abitare la soglia significa vivere consapevolmente nel liminale spazio tra realtà fisica e digitale. Quindi riconoscere e navigare tra i diversi stati di coscienza che questi mondi generano, mantenendo uno spirito critico e riflessivo. Come suggerisce Sabina Minardi all’inizio della sua intervista a Colamedici per L’Espresso, il libro vuole invitarci ad “abitare con consapevolezza – dei rischi, delle possibilità – il futuro”. E questa della soglia e dei layers è sicuramente uno dei punti cruciali della riflessione filosofica dei prossimi anni.
Un’altra descrizione che ho trovato particolarmente interessante è quella del sé conversazionale. Con questo concetto si fa riferimento alla trasformazione dell’identità individuale nell’era digitale. La nostra coscienza non è più autonoma, ma assistita, si configura come un nodo dinamico all’interno di una rete di interazioni costanti con algoritmi, piattaforme digitali e intelligenze artificiali: una conversazione. Questa prospettiva suggerisce che la nostra coscienza e identità siano continuamente modellate e rinegoziate attraverso queste conversazioni e interazioni mediate dalla tecnologia. Molto interessante leggere nero su bianco la descrizione di questo modo di relazionarsi con la propria coscienza. L’ultima questione è quella della riappropriazione dello spazio offline, della rivalorizzazione, nella rivalutazione come arma raffinata contro l’informe circuito algoritmico. Non si tratta solo di staccarsi, ma di restituire valore all’assenza, al silenzio, all’inefficienza. È un invito a guardare con rinnovata attenzione ai momenti di blackout, alle disconnessioni fisiologiche e mentali, non come cedimenti ma come potenziali punti di fuga dal circuito dell’ottimizzazione algoritmica.Su quest’ultimo punto abbiamo già i primi dati positivi. Nonostante in media, gli utenti spendano più di due ore al giorno su piattaforme come Facebook, Instagram e TikTok, questa cifra rappresenta una diminuzione di otto minuti rispetto all’anno precedente. Questo suggerisce una possibile saturazione o un cambiamento nelle preferenze degli utenti. È vero, il tempo che trascorriamo online continua a crescere, con i social media che giocano ancora un ruolo centrale nelle nostre vite quotidiane. Tuttavia, emergono segnali di cambiamento nelle abitudini, con una maggiore attenzione alla qualità del tempo trascorso online e una diversificazione delle attività digitali.
Possiamo dire che Ipnocrazia individua i sintomi giusti, ma arriva in un momento in cui il mondo che descrive — quello della massima immersione algoritmica — sta già iniziando a cambiare, il bersaglio si sta spostando, il tempo dell’ipnosi totale si sta già trasformando. Una porzione rilevante del nostro tempo è ancora spesa sui social, è vero, ma per la prima volta da anni il tempo medio inizia a diminuire. Otto minuti in meno non cambiano una condizione, ma la incrinano. Soprattutto, iniziano a emergere nuove posture, analisi teoriche e consapevolezze scientifiche. È questo, in fondo, il suo limite più evidente sul piano teorico: ci mostra lo scenario ipnocratico al suo apice, ma non considera abbastanza i segnali di rottura, di stanchezza, di saturazione. Non tiene conto, forse, che un’altra forma di abitare sta già tentando di emergere. Inoltre, non descrive sufficientemente quali dovrebbero essere questi modi di abitare la liminarità che anche in questo caso sembra un posizionamento.
Eppure, anche così, alcune cose restano preziose: perché ci invita a riflettere sul ruolo che avranno in futuro le nuove tecnologie, cos’è l’intelligenza, cos’è l’autorialità, cos’è un ragionamento; e anche perché nomina la paura e la stanchezza diffuse e prova a dargli forma, invitandoci — se non altro — a prenderne atto. Non serve troppa teoria per avvertire la necessità di spezzare il flusso, per posizionarsi trasversalmente, lo si può fare anche subito, rispondendo seriamente a una semplice domanda: “cosa faresti durante il blackout?”. Ma non sarebbe abbastanza.
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