Semplificare tagliare e pulire; sottrarre ridurre e limitare; sistemare, c’è da sistemare. Com’è o come non è, solo questo c’è da fare. Ai minimi termini, chiaro e limpido, non esiste altra opzione, perché così c’è poco da sognare, così si soccombe, si muore, si viene presi per la gola – e Gesù, quanto fastidio nell’esser presi per la gola – e trascinati in uno spiazzo di ghiaia e cemento spaccato, pregni di una solitudine che non si vede, che non s’incarna, che non ha luogo e somiglia solo a quella di Luciano, che sosteneva di poter trovare qualche genere di compagnia alle due di pomeriggio d’una estate incommensurabile, in una piazza offuscata, i sedili e i frassini da manna in un tutt’uno di inservibilità, quando pure le fontane si annoiavano e sputare l’acqua diveniva un inutile fastidio, pari solo al deglutire dopo aver fumato troppo. Dio, Luciano, che fine.
Questo baluginò in testa ad Andrea, fissando il faro circolare della sua moto; spenta e che non voleva ripartire. Attorno a lui, un angolo di silenzio non si trovava, la violenza di una realtà frastornante gli premeva le tempie, non lasciandogli alcuna possibilità di imbastire un ragionamento che conducesse a un esito pratico. Tutte le auto i taxi gli autobus – sia di linea che colmi di turisti esposti e incappellati – di Piazza dell’Indipendenza parevano in cima a un taboga, già sul loro tappetino infeltrito e consunto e in attesa solo di un assenso del giostraio, l’ultima spinta da darsi giusto nel momento in cui il suo cervello avrebbe pronunciato due parole: e ora? Uno scivolo con destinazione nota: l’incavo tra clavicola e faringe, dove non potevano che ammassarsi tutte le sventure di un minuto di una città intera. La moto non partiva e lui doveva andarsene. Ma, date le condizioni, pensò che non gli rimanesse altra soluzione che perdere del gran tempo nell’attesa di un’illuminazione imprevista, del rumore cessato.
Così decise di mettersi un secondo seduto sul bordo del marciapiede, tentando l’abituale truffa: dar forma all’incongrua sensazione che lo componeva e scomponeva, lo aggregava e poi lo lanciava contro un alberello scarno e deboluccio, di quelli che si piantano dopo aver dissotterrato un pino marittimo pericolante: «Quindi, i fatti: la moto non parte ma il quadro si accende. Poi, premo il bottone e tutto si resetta. Non è che serva un genio, qui è la batteria che è partita. E se la batteria è partita, che si fa? Ma poi dico, no, com’è possibile che due minuti fa la moto era accesa, non dava nessun problema e ora non mi resta che una vertigine di bestemmie e improperi e il caldo che mi martella la testa e la camicia di lino sudata e soprattutto, una cazzo di moto ferma e che qui non può stare, miserabile, e io che devo entrare in ufficio, e quindi non mi resta nessun’altra opzione che spingere, ma ci sono duecento gradi e la gente è tutta matta. Mi pare, diciamoci la verità, un po’ troppo. Ma io lo so, certo che lo so, che questo non conta nulla, che una volta raccontato ciò – e del vittimismo a buon mercato ce lo metto, oh sì, certo che ce lo metto – in ufficio o a casa, cosa otterrò? Lievi sguardi consolatori, guaste parole di circostanza e sopracciglia che rivelano il recondito sollievo che sia capitato a me e non a loro. Questo è. E io qui, con 180 chili di ferro e tubi e liquidi e macumbe in mano, senza benzina, senza energia e con un’altra dannatissima giornata davanti. E che cazzo».
Sembra che Piazza dell’Indipendenza non possa decidere da che parte andare; è incerta, caracolla: brillanti neolaureati in divisa blu e bianca, trascinati al piano dall’energia inestinguibile del simulacro di una promessa di carriera, la osservano e la bramano, scorgendola – s’intende, i più fortunati – da dietro gli acciai e i vetri delle finestre della Grande Società di Consulenza; gli elmetti marmorei, le nostalgiche scritte in bassorilievo e le dichiarazioni d’imperitura, inevitabile giustizia del Palazzo dei Giusti perimetrano le occhiate sornione di uomini e donne che sanno che se stendessero il loro fazzoletto di potere coprirebbero mezzo paese; tra la Grande Società di Consulenza e il Palazzo dei Giusti, il grattacielo – così spropositato pareva ad Andrea quella mattina, avendolo dritto davanti a sé – dell’Informazione Sportiva si fa puntello di un tentennamento: questo modo di vivere è finito o continua? Al quarto angolo, le cose non cambiano e neanche la memoria si persuade a prendere una strada. Una targa come tante, impolverata e in sordina, commemora la casa dove morì Giuseppe Tomasi di Lampedusa, oggi trasformata in camere arredate in stile provenzale, con letto in ferro battuto, finestre che non fanno trapelare nulla, televisioni e bagni e asciugacapelli e set di cortesia. Recensite, senza misericordia, 2,6 stelle su 5: deludenti e menzognere, stando a quello che si dice. A Piazza dell’Indipendenza, ci si può arrivare da quattro strade e ce ne si può andare da sei. Due coincidono: via Solferino e via San Martino della Battaglia. Quella mattina, seduto sul marciapiede, la moto ferma, la camicia sudata, quella mattina Andrea si accese una sigaretta e decise che della moto di sarebbe occupato dopo, bastava spostarla un poco, metterla più vicino all’ufficio. Mise in folle e iniziò a spingere.
A via San Martino, un bus lo costrinse a fermarsi: l’autista era un uomo serio, preciso, meticoloso; aveva dei tempi da rispettare, non poteva attendere l’incedere lento e affaticato di Andrea. Fumava tabacco riscaldato, l’unica concessione che si permetteva a bordo. Il suo sguardo conteneva l’indolenza di chi aveva sperimentato a lungo la sensazione che una giornata di otto ore duri più di quattrocentottanta minuti. Sbuffò fuori un rivolo di fumo, si grattò il naso e premette. Il clacson frustò il cuore di Andrea, che iniziò a roteargli dentro come se fosse all’interno una betoniera. E ora gli pulsavano le dita delle mani, lo stomaco bussava contro gli addominali, le ginocchia ticchettavano come fossero un orologio inceppato, un po’ in avanti e poi bloccate. E ricominciava il giro: mani stomaco ginocchia, mani stomaco ginocchia. Andrea si voltò e nei suoi occhi non vide impeto né rabbia, ma quieta rassegnazione che ammoniva che il mondo non poteva che andare così, si spostasse dalla carreggiata che lui doveva andare. Così fece e accostò, incapace a reagire. Provò a respirare ma entrava solo materia rovente, solida, fangosa. Alzò il collo per aprire i polmoni e un pensiero lo centrò: «chissà, dico io, quante delle persone che stanno qui ora sono mai state a San Martino. Nessuna, dico, è chiaro. San Martino è una via, non un paese; una battaglia, non delle persone con delle vite. A San Martino della Battaglia, non può essere successo niente se non la battaglia. E che cazzo, questo è, per tutti. La gente è matta, mica lo sa cosa ho detto a quella, a San Martino, dietro al campo dell’oratorio, su quella panchina sudicia, come si chiamava non me lo ricordo. E mica s’immagina cosa ho pensato, la paura che mi teneva per le palle, che freddo che faceva. Non può saperlo, chiaro». Si guardò le mani, continuava a tremare. Le apriva e le chiudeva, sperando che la circolazione si riattivasse. Riprese: «Ma tu poi, sei così convinto di saperle, queste cose? Te le sei mai dette? Vabbè ma senti, ora ce la stavamo prendendo con gli altri, ecco, continuiamo. Loro mica lo sanno che quel mercoledì c’era la nebbia e mi ero fatto accompagnare col motorino da un amico dopo scuola e non sapevo dove nascondere le mani per scaldarle e l’aria nel naso era gelatinosa, e io non è che non volessi baciarla con la lingua, quando le dicevo che non avevo intenzione di metterle la lingua in bocca. Non sapevo come fare, non avevo proprio idea. E mi vergognavo come un ladro, queste cose si devono saper fare, come fai non saperle fare. Non hanno la minima idea del suo sguardo implorante, della richiesta insistita: ma come non mi vuoi mettere la lingua in bocca, mi diceva, cosa ho che non va, si impuntava. Ma vaglielo tu a spiegare che lei non c’entrava niente, che ero io a non essere in grado. Certo, che ne sa l’autista che suona che a San Martino c’era vita».
Così facendo, Andrea arrivò sotto l’ufficio. Guardò il portone e si stupì d’essere ancora vivo. Avvenimento che ritornava come una freddo eco tenace: una nuova giornata sarebbe cominciata, vecchi pensieri l’avrebbero sminuzzato.

