Sto per andarmene di casa per l’ennesima volta. Questa volta non è proprio una cosa voluta, diciamo che è accaduto che io debba andarmene. A volte succede: arriva una chiamata, è il momento. Abitare è una cosa transitoria. A volte vorresti rimanere e sei costretta ad andartene; oppure accade il contrario. A volte il posto in cui stai è come se scottasse: non è che ci stai male ma non puoi fermarti troppo a lungo su quella superficie, devi costantemente cercare un altrove dove lasciare che le cose si raffreddino un po’ prima di tornare. Abitare, è un discorso complicato. Per questo quando ho preso in mano il libro Filosofia della casa di Emanuele Coccia (Einaudi, 2020) ho sperato di trovare qualche spunto per capire meglio questa relazione turbata con lo spazio domestico. La filosofia, riflettendo sulle esperienze di vita e reimpastando il tutto con parole dette da altri – fili invisibili che attraversano le ere umane – ti fa capire che non sei l’unico a sentire la pelle che brucia quando viene sfiorata dallo spostamento d’aria che produce l’esistenza. Ma abbiamo un limite: non siamo capaci di vederci da soli. Abbiamo bisogno di uno specchio e, per quello che riguarda le faccende dell’anima, lo specchio sono le parole di altri e di altre che si sono interrogati sullo stesso pensiero che ti fa stare così scomodo nella tua vita, ora. Filosofia, letteratura, poesia, teatro, cinema, arte, sono tutte forme di riflessione di sé, di ripiegamento dell’Io in sé dopo essere uscito da sé – movimento dialettico.
Filosofia della casa è un libro che cerca di affrontare un discorso che non è stato affrontato spesso dal logos, dal pensiero razionale. L’autore, attraverso la sua esperienza di innumerevoli traslochi, si è confrontato senza ripari con gli spazi che la sua esistenza ha occupato nella quotidianità. E ora propone in questo libretto un percorso che vuol far rivivere a chi legge questo spostamento di prospettiva, come un’ape che diventa improvvisamente consapevole dell’arnia e dei telai in legno a cui lo sciame ha ancorato i favi, costruendovi innumerevoli cellette esagonali. Ci accorgiamo così che le abitazioni sono strutture che hanno bisogno di essere dormienti nella coscienza per far sì che la vita possa svolgersi senza intoppi. Talvolta si risvegliano, per un motivo o per l’altro, ed ecco che lunghe ombre si distendono nella nostra psiche. Bisogna affrontare urgentemente questa presenza: una strada è fronteggiare la struttura nel suo campo materiale, riparando, ristrutturando, cambiando l’arredamento stantio; quando la via materiale non è percorribile, rimane la via della elaborazione psicologica e della riflessione filosofica.
“Ogni casa è una realtà puramente morale: costruiamo case per raccogliere in una forma di intimità la porzione di mondo – fatta di cose, persone, animali, piante, atmosfere, eventi, immagini e ricordi – che rendono possibile la nostra stessa felicità.” Così l’autore ci svela cosa ha raggiunto nel suo divagare. La morale diventa la teoria della felicità, che “non è un’emozione, né un’esperienza puramente soggettiva. È l’armonia arbitraria ed effimera che stringe per un attimo cose e persone in una relazione di intimità fisica e spirituale.” La casa diventa lo spazio in cui ricercare questa combinazione.
Nel libro emerge spesso l’intimità del privato. Ricordi d’infanzia spolverati con un tenero soffio danno corpo ad emozioni intense che solo i bambini sanno provare. La paura del buio, la cameretta, il letto, spazi dell’immaginazione. La mia relazione con la cameretta è stata per tanto tempo l’anticipazione che poi avrei avuto con le case: non sentirla mai mia, costretta a dividerla con qualcuno che non volevo (chi ha fratelli può capire), privacy inesistente. Crescendo, andando all’università, mi sono ritrovata a dover dividere un appartamento con altri nella stessa situazione. Quando la casa non è tua perché è dei tuoi genitori, sono loro a decidere chi e cosa entra. Quando dividi un appartamento con altre persone, la gestione raramente è priva di conflitti. Giovani adulti che cercano di crescere portandosi appresso abitudini domestiche appartenenti a famiglie sconosciute – tribù che non si sono mai incontrate prima di allora – il compromesso è un traguardo che richiede impegno. L’addestramento alla convivenza tra coinquilini è un compito infame, forse è per questo che spesso gli annunci di stanze in affitto dicono espressamente “no matricole”. Quando non sei il proprietario, o l’unico inquilino a detenere il diritto contrattuale di occupare quello spazio da chiamare casa, trovare in essa l’armonia necessaria alla felicità diventa improbabile.
Prima facevo riferimento al fatto che il discorso razionale, intendendo la filosofia, non si è mai interessato molto alla domesticità. Proviamo a fare un discorso inverso: quando si parla di casa nella tradizione filosofica? L’autore stesso riconosce che essa è stata a lungo ignorata. Possiamo trovare qualcosa nelle utopie, il cui tentativo di immaginare una società diversa è consapevole del ruolo centrale delle infrastrutture nel condizionare le sue modalità di espressione. Tommaso Campanella immagina una società in cui la famiglia nucleare non esiste più (le donne vengono condivise, o meglio, nessun uomo si appropria più di una donna) e quindi non ci sono case ma dormitori; i falansteri di Fourier diventeranno modelli edilizi ripresi da Le Corbusier nel suo concetto di unité d’habitation. La casa diventava una machine à habiter, come se l’abitare fosse una funzione meccanica che il nostro corpo deve espletare.
Per lungo tempo la dimensione privata della vita non ha interessato il pensiero: il pensiero spettava agli uomini, la casa alle donne. Questa divisione sessuata del pubblico e del privato era alla base della società nei secoli passati ed è stato necessario il femminismo per rompere questa tradizione. È quando le donne cominciano a prendere la parola infatti che la casa entra nel discorso. La troviamo in Mary Astell, che nell’anno 1700 pubblica le sue “Reflections upon marriage” in cui chiede: “se tutti gli uomini sono nati liberi, come mai tutte le donne sono nate schiave?”. Con questa domanda vuole mostrare l’incongruenza del discorso moderno, in particolare di Locke che aveva definito l’individuo razionale come morale e naturalmente libero. Astell si indigna: come possono gli uomini accusare le donne della loro ignoranza, se loro impiegano anni di studio e di pratica per diventare tanto “saggi e istruiti”? Il monopolio maschile del discorso comincia da una educazione diversificata e reitera l’ambiente domestico come l’arena dove si gioca lo scontro uomini contro donne, vedendo i primi vincitori almeno da quando possiamo dare un significatoalla parola patriarcato.
In filosofia, il tema del privato, la privacy, è stato il terreno in cui si svolgeva la concettualizzazione della libertà, penso ad esempio a Hobbes. Per i giusnaturalisti il privato si contrapponeva al pubblico sul piano normativo perché la discussione politica e la legge riguardavano esclusivamente i rapporti interpersonali. Il privato (espressione della proprietà privata) era invece lo spazio in cui l’uomo godeva della sua libertà inalienabile, se si intende la libertà come una assenza di ostacoli all’agire. È solo grazie alle femministe del XX secolo che oggi riconosciamo il privato come politico tanto quanto il pubblico. Quello che facciamo quando si chiude la porta di casa va detto, va nominato, perché se per l’uomo il privato è il luogo della libertà, per le donne è rimasto per troppo tempo luogo dell’oppressione. Grazie alle lotte per i diritti civili cominciate in America con gli abolizionisti e le suffragette sono cambiate molte cose nella società, anche se ben sappiamo che il sesso assegnato ai corpi influenza ancora oggi l’esperienza del mondo che quel corpo può fare. Tutto questo si manifesta anche nella casa, nell’abitare: nella mia esperienza da studente fuorisede a Bologna, in teoria l’esperienza più libera, c’era pur sempre una divisione tra femmine e maschi: chi puliva casa e chi no. In particolare le convivenze miste facevano venire a galla questa cosa: beate le ragazze che avevano un bagno separato. Raramente i miei amici maschi si impegnavano nelle pulizie di casa. C’erano bagni che venivano puliti forse due volte all’anno, ed era perché la ragazza di turno si era stancata della nullafacenza dei propri coinquilini e si metteva all’opera.
La prospettiva di Coccia nella sua riflessione “Filosofia della casa” è in linea di massima universalizzabile, ma rischia di rimanere intrappolata in un universale maschile. La filosofia cerca di astrarsi dalle condizioni materiali per analizzare il mondo nella sua generalità, nella sua astrattezza, restando vulnerabile all’attacco del dogmatismo. In questo caso, viene dato per scontato che chi abita la casa possa effettivamente dirsi padrone o padrona di quello spazio, che oltretutto identifica una condizione economica e sociale ben precisa. Io ancora non sono padrona di nessuno spazio e la casa dove abito mi sfugge di mano. Continuerò ad accumulare libri e piccoli oggetti che mi terranno compagnia anche nella prossima stanza dove costruirò il mio rifugio temporaneo, da sempre antidoto alla frammentazione e incantesimo aggregante l’unità della mia esistenza.