Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, per la maggior parte degli italiani guardare la televisione era ormai una confortevole routine, scivolata dal piano dei riti identitari, come andare alla messa domenicale o leggere il giornale, a quello delle azioni più irriflesse della quotidianità, come lavarsi i denti o innaffiare le piante di casa. Alla centralità della tv pubblica di monopolio governativo si era sostituita un’offerta moltiplicata e distribuita tra canali pubblici tradizionali e nuove emittenti private. In questo nuovo panorama, la televisione aveva finito per adattare la forma del proprio linguaggio al carattere ondivago e insieme incalzante dell’esperienza degli spettatori. Nei decenni precedenti, il palinsesto era scandito da una serie di appuntamenti come la televisione dei ragazzi, quella del dopolavoro, il telegiornale, il Carosello, lo spettacolo serale: un’alternanza piuttosto rigida di segmenti ben distinti per funzione, pubblico e fascia oraria di posizionamento, messi in evidenza da una programmazione ordinata e di facile leggibilità. Ora invece, chi accendeva la tv si trovava immerso in un calderone di frammenti televisivi, ben esemplificato dal trionfo dei programmi “contenitore” come i “salotti” pomeridiani e i varietà serali, in cui serio e frivolo, lacrime e risate, politica e spettacolo, documentario e finzione si mescolavano senza soluzione di continuità.
Si trattava di un livellamento di toni e di contenuti funzionale al prolungamento ad libitum della visione, o alla sua interruzione e ripresa: una televisione fatta apposta per essere “guardata” per ore anche soltanto tenendola in sottofondo, con la possibilità di spostarsi compulsivamente tra i vari canali e tornare infine a risintonizzarsi su quello di partenza, senza avere l’impressione di essersi persi troppo. Più che rappresentare fatti e persone del mondo esterno, questa nuova televisione portava avanti un insistente discorso autoriferito, attraverso cui ambiva semplicemente a esserci, e cioè a stabilire e mantenere un contatto quanto più possibile diretto, immediato e confidenziale con lo spettatore. In un famoso articolo, Umberto Eco parlerà in questi termini di una “Neotelevisione” contrapposta alla più compassata “Paleotelevisione” degli albori, che era invece votata a un pubblico servizio di formazione dei cittadini. Senza più quella missione pedagogica, la Neotelevisione essenzialmente “parla di sé stessa e […] cerca di trattenere lo spettatore dicendogli ‘io sono qui, io sono io e io sono te […] ti annuncio, caso mirabile, che tu mi stai vedendo; se non ci credi, prova, fai questo numero e chiamami, io ti risponderò’”.
Da qui all’idea di “telecrazia” degli anni dei governi di Berlusconi, con la televisione usata come macchina ipnotica di esercizio di potere politico attraverso la costruzione di un immaginario, il passo sarà breve. Nel periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, però, Berlusconi era ancora soltanto il proprietario di Mediaset, l’avversaria della cara vecchia Mamma Rai, che a sua volta si presentava molto diversa dal passato, reduce da un lungo processo di riorganizzazione dei propri assetti interni. Dopo la riforma del 1975, l’emittente pubblica si ramificava ora in tre canali, dei quali il più giovane, quella Rai Tre destinata originariamente all’approfondimento sulla cultura e sulle realtà locali, non era però riuscito a trovare una propria identità fino al 1987, con l’arrivo di Angelo Guglielmi nel ruolo di direttore di rete. Intellettuale vicino al Partito comunista e al movimento artistico-letterario della Neoavanguardia, Guglielmi non solo prendeva atto del cambiamento nella relazione tra pubblico e televisione, ma cercava anche di tradurlo in format nuovi e rischiosi. Per realizzare questo progetto, aveva radunato intorno a sé una squadra di collaboratori pronti a piegare il linguaggio televisivo tradizionale alle esigenze di una continua furia sperimentale.
Tra le figure più singolari ed eccentriche di quel gruppo spiccava un giovane programmista filosofo e cinefilo, enrico ghezzi (tra le cui bizzarrie c’era anche la scelta di scrivere il proprio nome con le iniziali minuscole). Insieme ad altri due colleghi, Marco Giusti e Filippo Porcelli, ghezzi si era inventato per Rai Tre due trasmissioni intitolate Schegge e Blob. L’idea di base era tanto semplice quanto potenzialmente dinamitarda: ritrasmettere spezzoni di tv del repertorio più o meno recente, già andati in onda in anni passati (Schegge) o anche il giorno prima (Blob). Quest’operazione, innocente solo all’apparenza, aveva infatti l’effetto di confondere il confine tra la televisione e i materiali di archivio, mettendo a nudo il potere del medium televisivo di annullare le distanze tra passato e presente, tra rappresentazione e vita reale, tra serietà e scherzo. Ghezzi, Giusti e Porcelli non erano interessati a un repertorio inerte, già cristallizzato dal tempo in una forma stabile e lasciato in buon ordine su scaffali di scantinati o sale polverose, ma piuttosto a un archivio dinamico, in fieri, che la messa in onda andava in continuazione a creare e a resuscitare attraverso il passaggio delle immagini sullo schermo.
Schegge esordisce su Rai Tre nel 1988; come racconta Porcelli in un libro ispirato all’esperienza del programma, di fatto non si trattava che di “una sigla in testa e in coda a un documento del passato televisivo più o meno recente”. Un modo creativo di valorizzare il patrimonio degli archivi Rai, e di integrarlo con la programmazione attuale come riempimento già pronto e a costo zero per i raccordi tra i diversi nodi del palinsesto. Il pragmatismo di questo proposito nascondeva però un’affascinante ambiguità. Da un lato, l’approccio era archeologico, improntato a una filosofia che ghezzi ha riassunto come “montare poco, scegliere il meglio”: si cercava di intervenire il meno possibile sul piano della regia, e di trasmettere i materiali così come venivano scoperti e visionati in archivio. Dall’altra parte, la messa in onda del repertorio è, sempre secondo ghezzi, un momento “in cui si annulla la storia, è come se ricominciasse la storia”. Le immagini di archivio vengono inserite in un contesto che non è quello della loro originaria destinazione, e che finisce per attribuire loro nuovi valori e significati. Sotto questa luce, ghezzi può ben dire che Schegge è un programma che ha “completamente distrutto, credo, l’idea stessa dell’uso del repertorio”.
Sicuramente, qualsiasi pretesa di ricostruire fedelmente l’esperienza di fruizione della televisione di ieri è di principio anacronistica. Il punto però sta nella natura del broadcasting televisivo: un flusso ciclico e continuo che non ammette salti o vuoti, in cui ogni istante sullo schermo esiste in funzione di quelli che lo hanno preceduto e che lo seguiranno. Questa concatenazione mina alla base lo spirito filologico con cui la ricognizione dell’archivio può essere condotta. Come scrive ghezzi, la perlustrazione degli archivi dietro la realizzazione di programmi come Schegge:
recupera, rispetto a un giorno televisivo, rispetto a una settimana, un flusso reale, un flusso temporale televisivo che sostanzialmente è ininterrotto. Rispetto a questo flusso ha poco senso individuare l’interezza, la cellula significante, quella che in qualche modo deve restare intera per potersi capire o per poterci dire qualcosa e quella che invece può essere montata, interrotta, commentata. Dipende proprio da quale unità di tempo, da quale unità di misura, da quale misura oggettiva di lettura vogliamo partire. Può essere l’ora, la giornata, la settimana, un anno, una vita intera, un momento, un’occhiata. In base a cosa decidiamo che quello è l’intero e quello no?
Di fronte allo scorrere del flusso del palinsesto, la selezione di contenuti di per sé autonomi e definiti nei loro confini non può che essere una scelta arbitraria, anche quando è improntata a criteri elementari di strutturazione di senso. Questo vale tanto per l’estrazione di un frammento da un palinsesto del passato quanto per il suo inserimento in un palinsesto odierno. In entrambi i casi, l’individualità della singola parte è disciolta nell’amalgama dell’intero, di modo che la cucitura di contorni slabbrati intorno a una qualsiasi unità rilevante è un vero e proprio atto decisionale, che istituisce una nuova identità, invece di ricomporne una esistente.
La resurrezione di schegge d’archivio nel palinsesto di oggi finisce per donare loro una compiutezza e una consistenza che le avvicina alla forma del cinema: “hanno una presenza di tipo filmico, sono cose che hanno, vorrebbero avere un inizio e una fine molto forte”. In quest’aura semi-cinematografica c’è la rivendicazione di un’estraneità e di una lontananza irriducibili rispetto al ritmo e al formato della Neotelevisione: un’eco di quella Paleotv fatta di appuntamenti rituali e interruzioni del servizio che stemperavano il flusso delle trasmissioni. In quest’ottica, a proposito di Schegge ghezzi può parlare di “un effetto di risacralizzazione” del contenuto televisivo, che tutt’a un tratto apre uno squarcio, quasi un disturbo, nel procedere rapido e indefesso del palinsesto. Rispetto al flusso uniformante, la scheggia è l’introduzione di un’alterità: una vera e propria spina nel fianco, “che si infila nella pelle, che dà fastidio, oppure […] addirittura arriva in pioggia dopo un’esplosione […] una sorta di ricaduta, di detriti di un immaginario che è in gran parte esploso, che comunque è difficile da recuperare”.
A questo si ricollega anche l’accusa di spettacolarizzare eventi drammatici, spesso rivolta a Schegge come lo sarà anche, successivamente, a Blob. L’impressione di enfasi è un effetto della selezione e della riproposizione dei frammenti televisivi al di fuori della loro cornice originaria, nella quale anche le immagini più dure trovavano una loro giustificazione, editate attraverso il montaggio e accompagnate da appropriati inserti, introduzioni, commenti audio-visivi. Questa cornice garantisce sempre un elemento di mediazione: quando il singolo frammento è integrato insieme ad altri contenuti, la potenza che avrebbe preso singolarmente risulta smussata, più facile da assimilare. L’intervento di giornalisti e opinionisti serve a imporre una chiave di lettura; gli accostamenti studiati di momenti di pieno e vuoto, di intensità e leggerezza, di informazione e pubblicità, servono a ricordare al pubblico che quella che stanno guardando è pur sempre televisione. Ricordando il clamore suscitato da uno speciale di Schegge sulla strage alla stazione di Bologna, ghezzi scrive che “questo momento di televisione lunga su un tema così civile, doloroso, caldo era parso una specie di sfruttamento spettacolare di per sé per il fatto che usciva da un uso da tg, dove naturalmente se viene fatta vedere una cosa del genere magari è perché viene intervistato uno storico, un critico”. Tolti gli usuali meccanismi di mediazione, lo spezzone già trasmesso è visto in maniera nuova, e diventa qualcosa di diverso da ciò che era. Rimane l’immagine nuda, trasparente, che senza più filtri sfrega contro la superficie del medium e preme per recuperare un contatto con il reale che rappresenta.
Dal 1994 si affiancava a Schegge un nuovo programma, Blob, nel quale si provava a condensare in montato di una ventina di minuti la televisione del giorno immediatamente precedente. L’obiettivo si sarebbe potuto definire come quello di repertorizzare il presente; rispetto alla dialettica tra archivio e messa in onda, però, la nuova trasmissione compiva un’operazione opposta a quella di Schegge. Invece di contestare e rompere il flusso del palinsesto, Blob sceglieva di accettarlo, assecondandolo e casomai rimescolandolo a proprio modo. Secondo la testimonianza di Porcelli, il lavoro di Blob si svolgeva su un doppio binario, quello della scelta dei materiali e quello del loro assemblaggio:
ogni fine settimana, tanto per cominciare, la redazione si riuniva per decidere visioni e turni di montaggio per i giorni successivi. Così che, quotidianamente e a rotazione, tutti si guardava la televisione per un certo numero di ore mentre due di noi montavano. Non era possibile vedere tutto e la scelta dei programmi da visionare era quindi fondamentale […] Infine si provvedeva a far registrare il tutto in modo che fosse in sala di montaggio la mattina dopo. Dunque, a turno, c’era chi visionava e chi montava.
In questo modus operandi ritorna il tema della selezione arbitraria, ma con l’aggiunta della componente del montaggio a re-immettere i materiali selezionati in un nuovo flusso in miniatura, che riproduce, senza esserlo davvero, il flusso televisivo. In questo nuovo contesto, le immagini si contaminano tra di loro, facendo emergere nuove connessioni, rimandi nascosti e valenze impreviste: nelle parole di Porcelli, “si trattava cioè di realizzare una specie di sguardo […] che mette a fuoco l’impercettibile dei frammenti testuali per ricondurli a una possibile struttura di correlazione”. È l’immagine a guidare la direzione del nuovo flusso e la definizione del suo significato, in una maniera quasi automatica e impersonale, che fa da contrappeso all’arbitrio e al giudizio soggettivo degli autori.
È questo il modo in cui Blob, come scrive ghezzi, “archeologizza il reale, è […] archeologia e archiviazione instantanea”. Fin dai suoi esordi, espressioni subito divenute idiomatiche come “è un momento da Blob” o “finirà su Blob” hanno implicitamente riconosciuto al programma la funzione di fissare una sorta di canone che rilegge, riorganizza e conserva il patrimonio televisivo. Questa funzione però non si esercita contro i meccanismi della televisione, come faceva il lavoro di Schegge, ma dentro di essi, rimettendoli in scena in un modo straniato e deformato. Anche Blob, proprio come Schegge, sottrae le immagini alla mediazione del palinsesto consueto, e indulge alla spettacolarizzazione: stavolta, però, questi sono gli effetti di un gioco che consiste nel mimare il funzionamento del flusso, o, secondo l’efficace immagine proposta da ghezzi stesso in un’intervista, nel “calare una sorta di modellino del funzionamento televisivo stesso, come se fosse un batiscafo, dentro il mondo della televisione”. Nella sua attitudine trickster, che sbeffeggia il proprio oggetto prendendolo al tempo stesso molto sul serio, Blob può così offrire una guida e un commento all’esperienza di guardare la televisione, e non solo un catalogo di materiali messi in onda in un dato momento.
Ecco quindi che Blob “forma un’enciclopedia più che un’antologia, che trovo spaventosamente esatta, spaventosamente precisa”, laddove invece, in Schegge, “la campionatura con pezzi sostanzialmente a larga durata dal passato televisivo è meno esatta, è più lunare, più astrale […] rappresenta un’operazione in cui noi siamo in controllo”. Con Blob, qualsiasi aspirazione al controllo deve concretamente scontrarsi con i tempi propri dello scorrere ininterrotto del broadcasting, come rivelano varie annotazioni di ghezzi sui tempi molto stretti della realizzazione del programma. Una trasmissione basata sul palinsesto del giorno prima, e destinata al palinsesto del giorno stesso, ha tempi di lavoro che non permettono né uno studio analitico e distaccato del girato di partenza, né una progettazione accurata del risultato. Spiega ghezzi che Blob “non si rivede, non si rimonta, non si trucca allo specchio, deve sempre correre all’appuntamento. Nessuno (noi tanto meno) lo vede e controlla prima della messa in onda”. E tuttavia, proprio questa fretta costringe a eliminare nella pratica percorsi solo possibili e connessioni solo immaginate nel mare magnum del materiale; obbliga a una “reattività istantanea” e a una sensibilità epidermica all’immagine, che guidano la scelta e l’accostamento di certi segmenti. La mancanza di tempo fa sì che l’aspetto finale di Blob sia quello che alla fine è, al di là di quello che idealmente, nelle intenzioni degli autori, vorrebbe essere. Blob non può sottomettersi allo stesso controllo autoriale di Schegge proprio perché prova a adeguarsi al tempo della televisione, la quale a sua volta prova a adeguarsi al tempo della vita extra-televisiva. Per questa fondamentale ragione, per dirla ancora con ghezzi, “no, non è possibile controllare questo montaggio, non è più possibile che controllare la nostra vita: ci sfugge da tutte le parti, non ci appartiene più proprio mentre crediamo di possederla e indirizzarla”.
L’archivio impazzito di Blob è forse l’unico archivio possibile della Neotelevisione, in cui ogni immagine non conta di per sé stessa, in isolamento, ma solo nel legame con quella successiva, che può rafforzare o capovolgere il senso della precedente. Sia la lavorazione del programma sia il risultato finale ricalcano la mutata esperienza di fruizione del piccolo schermo, con il suo passaggio da rito a riempitivo di ritagli di tempo, movimentato da una schizofrenica navigazione a vista da un canale all’altro (lo zapping).
In Schegge come in Blob, l’incontro tra la logica della televisione e quella del repertorio dà vita a una forma ibrida di tv-archivio, stralunata e dissonante, ma al tempo stesso capace di mettere davanti agli occhi dello spettatore i moduli espressivi del linguaggio televisivo. Se però Schegge mette in risalto la dimensione del controllo autoriale su quel che viene messo in onda, Blob fa emergere invece l’ingovernabilità del flusso delle immagini, nella resistenza che la progettazione d’archivio incontra di fronte all’autarchia del broadcasting. Nella vita, si tratterebbe di un’alternativa netta: adottare o uno sguardo demiurgico, che prende le distanze dalla catena dei vissuti per selezionare e archiviare nella memoria la propria personale mitologia, o uno aperto e cedevole, che si lascia trascinare in luoghi imprevisti dal fluire degli eventi. La televisione invece è tanto generosa da ospitare e far dialogare tra loro entrambe le dimensioni dell’archivio e del flusso; e proprio in questa ambivalenza, forse, sta il segreto della sua voce insieme intima e autorevole, con cui negli ultimi decenni del secolo scorso ha conquistato un pubblico in cerca di nuovi punti di riferimento.