Il 30 Aprile mi sono arrampicato per la salita che dalla stazione di Carrara-Avenza porta al centro della città. Luca Locati Luciani, il vicepresidente del Centro di Documentazione Aldo Mieli di Carrara ha accettato di farsi intervistare e mi farà visitare l’archivio. Mentre cerco il bar dove ci siamo dati appuntamento mi interrogo sul motivo per cui questo archivio mi attira in modo così forte.
Mi immagino l’archivio queer come un ricettacolo di senso. Un contenitore che mi può restituire risposte materiali sulla mia vita. Capisco che ciò che mi attira è un desiderio di espansione oltre ai confini storici e contingenti della mia esperienza individuale, la necessità, banalissima e vitale, di essere parte di una storia.
Probabilmente questo è stato lo stesso desiderio che ha spinto Luca a iniziare la sua collezione. Mi racconta che il Centro di Documentazione è nato da una sua tendenza all’accumulo compulsivo :
“ti parlo di vent’anni, trent’anni fa, io ora ho quarantasette anni, e avevo iniziato che ero un adolescente; quindi, senza in realtà un’idea ben precisa di che cosa ci volessi fare con questi materiali. Semplicemente, che ne so, leggevo online o in qualche testo il riferimento a una rivista dell’Ottocento in cui si parlava di tematiche queer, e iniziavo ad andare nei mercatini o su eBay a vedere se la riuscivo a trovare. Qualche volta qualcosa trovavo.”
Il desiderio che muove questa ricerca è quello di ritrovarsi, di ricostruire un’esperienza di vita collettiva che non viene sufficientemente narrata. Quando arriva, arriva frammentata e sparsa se non attivamente cancellata e invisibilizzata.
La tendenza delle persone queer ad accumulare materiali, oggetti, volantini e riviste risponde a una necessità umana; quella di vedere il riflesso del proprio vissuto e della propria esperienza. Questo è un bisogno che oscilla tra il politico e il personale e che aiuta a contrastare il senso di atomizzazione e dispersione imposto da una legalità diseguale, poiché fondata da anni sulla marginalizzazione delle diversità, invisibili e silenziose
In questo senso, l’archivio queer e il Centro di Documentazione Aldo Mieli rispecchiano perfettamente l’ambivalenza tra la sfera istituzionale e quella emotiva e affettiva. Questa oscillazione si riflette nello spazio dell’archivio: Luca mi racconta che quello di fondare un’associazione è un passaggio obbligato per accedere agli strumenti di catalogazione ufficiali, ai bandi pubblici e ai fondi, ma per chi, come Luca, si definisce più vicino a un’ideale politico anarchico è stato anche un compromesso ideologico.
Una volta istituita l’associazione, Luca ha comprato un appartamento in centro a Carrara, per iniziare la catalogazione dei materiali che aveva raccolto. L’intenzione, mi dice, era quella di non replicare lo spazio asettico e anonimo dell’archivio “tradizionale”. Il Centro di Documentazione infatti sembra una casa, un salotto di intellettuali d’altri tempi, una biblioteca. Tra i libri e le riviste esposte spuntano ritratti e volantini, mazzi di tarocchi e manifesti. In questo il Centro di Documentazione rispecchia perfettamente ciò che dice Jack Halberstam nel saggio In a queer time and place: transgender bodies, subcultural lives (2005): “L’archivio non è semplicemente un deposito; è anche una teoria della rilevanza culturale, una costruzione della memoria collettiva e una registrazione complessa dell’attività queer.” (169-170).
Nel Centro di Documentazione non è solo l’organizzazione dello spazio che contribuisce a costruire quello che potremmo definire un “anti-archivio”, un altro fattore importante è il criterio che si utilizza per il campionamento. Il tratto distintivo dell’archivio “normativo” è l’esclusione, è il processo di selezione e classificazione che rende un oggetto un oggetto d’archivio, mentre qui è l’esatto opposto:
“[accettiamo] qualsiasi oggetto, qualsiasi cosa che secondo noi può essere importante per una ricerca, per una storia, tutto veramente. A partire dai preservativi fino ai volantini. Se una persona decide di donarci qualcosa non diciamo mai di no. C’è questa politica di non rifiutare niente. Anche le cose che non ci rispecchiano. Perché è importante anche vedere che cosa elaborino i nostri nemici, che cosa dicono fuori.
La “politica del non rifiutare niente” posiziona il Centro di Documentazione al di fuori dei confini che determinano l’archivio tradizionale, scardinando la dinamica di potere che vi sta alla base. Per interpretare “l’attività queer” è necessario un approccio obliquo che metta in discussione la relazione di potere che è inscritta nell’atto dell’archiviare, nel controllo e nell’accesso all’archivio: il processo di inclusione o esclusione dalle storiografie ufficiali è impostato secondo criteri eteronormativi e oppressivi; quindi, un archivio che contrasti questa tendenza sarà per forza un “anti-archivio”.
La decisione di intitolare il Centro di Documentazione ad Aldo Mieli risponde alla necessità di recuperare una storia che è stata rimossa:
“Il movimento qui in italiano magari è nato negli anni Settanta, però c’erano già delle persone prima che qualcosina cercavano di fare. E una di queste persone era Aldo Mieli. Che negli anni Venti aveva cercato di portare un po’ di, come posso dire, di luce sulle tematiche legate a genere e sessualità in Italia. E non ce l’ha fatta, tant’è vero che la stessa rivista fondata da lui, che si chiamava Rassegna di Studi Sessuali, si è trasformata in una rivista fascista. Perché lui è stato pian pianino estromesso, ed è stato preso il potere poi all’interno della rivista da persone vicine al partito fascista”
Mieli, chimico e storico della scienza, è l’unico italiano che, nel 1921, partecipa al Congresso Internazionale per la riforma sessuale indetto da Magnus Hirschifeld, il fondatore della prima clinica per persone trans in Germania – (le immagini di repertorio che raffigurano i roghi nazisti di libri del 1933 raffigurano proprio l’incendio appiccato alla biblioteca dell’Istituto per la Ricerca Sessuale, fondato da Hirschfeld nel 1919. Intitolando Il Centro di Documentazione ad Aldo Mieli, quella che si è fatta è stata una scelta politica: onorare una figura poco nota ma importantissima del movimento queer italiano. La figura di Mieli rispecchia quelli che Luca definisce “momenti insospettabilmente fortunati” della storia queer: siamo abituat* a una storiografia Stonewall-centrica, che presta poca attenzione a tutto quello che è accaduto prima dei moti del 1969. È proprio per questo che tutti i materiali che attestano l’esistenza di comunità queer attive prima della cornice temporale degli anni Sessanta e Settanta sono preziosi.
Gli oggetti preferiti di Luca sono quelli che arrivano da epoche “assolutamente improbabili”: mi mostra delle riviste della Berlino degli anni Venti, donate da un collezionista olandese. Riviste lesbiche degli anni Venti, con una rubrica intitolata Der Transvestit.
“Ed era una rivista proprio dedicata alle persone trans. Sì, super preziose anche per contrastare un po’ le costruzioni che si fanno adesso, appunto, nei movimenti TERF e nei femminismi radicali che manipolano tantissimo anche il passato. […] queste sono le cose a cui io personalmente tengo di più, perché sono tutti materiali che sono finiti al rogo”.
La presenza di materiali “effimeri” come volantini, spillette e lettere è fondamentale per un “anti-archivio” queer, che deve tenere traccia di tutti quei modi “nascosti” attraverso cui la queerness è stata comunicata e veicolata nel passato. Come chiarisce José Esteban Muñoz nell’articolo “Ephemera as Evidence: introductory notes to queer acts” (1996), la queerness spesso non lascia prove tangibili di sé – ma esiste come accenno, come gossip, come atti e performances che possono essere compresi solo da chi appartiene alla stessa “sfera epistemologica”. La traccia storica della queerness spesso si compone di “indizi invisibili” che non sono leggibili dall’occhio dell’istituzione normativa. L’archivio queer si fa quindi sia ricettacolo che interprete di queste testimonianze silenziose.
Luca mi racconta di aver trovato, in dei giornali locali toscani, la notizia di una protesta fatta da persone omosessuali in seguito a una retata avvenuta in luoghi di battuage fiorentini un mese prima di Stonewall. Durante le proteste erano stati distribuiti volantini che Luca descrive come “già molto rivoluzionari”. Recuperare momenti e sprazzi di coraggio avvenuti prima della nascita di un movimento “strutturato” da conforto, mi dice Luca.
È questa dimensione affettiva e emozionale che plasma e informa l’archivio queer, è ciò di cui Anne Cvetkovich parla in An archive of feelings (2003): “La storia lesbica e gay richiede un archivio radicale delle emozioni per documentare l’intimità, la sessualità, l’amore e l’attivismo”.
È questa stessa componente emotiva, di identificazione, che ha la potenzialità di mobilitare a livello politico chi si interfaccia con il materiale d’archivio. Luca, infatti, racconta di come la raccolta di materiale queer del passato lo abbia aiutato a sviluppare una coscienza politica maggiore:
“Per me è stato uno shock enorme studiare la storia tedesca. La storia queer tedesca. Cioè capire che negli anni Venti in Germania, soprattutto a Berlino, c’era una vita queer che era pazzesca. Con 200 locali, associazioni di tutti i tipi. Anche le cose più estreme, associazioni di persone che amavano il BDSM. Cioè c’era veramente di tutto. E poi immediatamente, veramente da un giorno all’altro è sparito tutto. Questa cosa mi ha scioccato. E mi ha permesso allo stesso tempo di non sottovalutare mai quello che accade nel presente”
Alla luce di questa consapevolezza, l’archivio assume quindi un preciso ruolo politico, che impone di non rimanere ancorati a visioni “passatiste” ma di prendere un preciso posizionamento:
“cerchiamo di essere uno spazio materiale in cui ci sono i vari documenti, ma anche un luogo in cui si elaborano idee politiche. In cui ci prendiamo la responsabilità del prendere parola quando ci sono delle cose che ci sembra che non vadano bene”
Il Centro di Documentazione ha organizzato varie mostre e iniziative per “portare fuori” i materiali dell’archivio: tra le ultime, una mostra sulle riviste queer organizzata insieme all’associazione Omphalos di Perugia e una mostra sulla “prepornografia” – “cioè la prepornografia prima degli anni Settanta” a Bologna.
Il posizionamento politico riguarda anche la scelta concreta di un territorio: quella di aprire il Centro di Documentazione a Carrara è una scelta consapevole: “Noi ci rivendichiamo di essere marginali. Perché abbiamo scelto di essere qua, in una città piccola, in un luogo dove ci sembra che ci sia ancora tanto da fare, sotto tanti punti di vista”. La marginalità però comporta una serie di sfide a livello pratico e gestionale: “non abbiamo un numero di persone adeguato per fare un lavoro costante, non abbiamo grandi finanziamenti. […] Il Centro a Carrara è ancora visto un po’ come un alieno”.
Interfacciarsi con le istituzioni è un passaggio obbligato se si vuole accedere ai fondi necessari per la catalogazione e la digitalizzazione dei materiali, che spesso richiedono risorse maggiori. Luca mi racconta che, come associazione, sono quindi dispost* ad accettare “qualche compromesso” pur di rendere accessibili i materiali dell’archivio. L’obiettivo rimane infatti quello di perseguire quel desiderio che ha mosso Luca anni fa ed espandere la portata politica di mobilitazione dell’archivio.
Come dice Hil Malatino nel suo saggio Trans Care (2020), l’archivio queer da la possibilità di ritrovare traccia di casi in cui “altri soggetti abbiano incontrato e siano sopravvissuti alle stronzate transfobiche e cis-sessiste con cui io mi confronto quotidianamente”. Dentro l’archivio queer si ritrova quella che Malatino definisce una “mappa per un altro modo di essere”.