Di quanto spazio ha bisogno un archivio?

Di quanto spazio ha bisogno un archivio?
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Quando si pensa a un archivio – in particolare all’archivio d’artista – si tende ad associarlo a una serie di oggetti catalogati in sezioni e ordinati secondo un criterio logico atto alla ricerca: sono questi gli elementi che costituiscono il punto di arrivo del lavoro di un artista o di uno studioso che giunge alla fine della propria carriera, se non della propria vita. Come spazio che conserva parte dell’esperienza di una persona che può portare alla costruzione di una vera e propria memoria storica intorno a quanto conservato, l’archivio è un insieme di feticci che, nell’accezione data al termine da J. W. T. Mitchell, guidano lo studioso attraverso il desiderio di scoprire, catalogare e analizzare, se non addirittura, controllare la storia di chi lo ha prodotto. Il feticcio è tale perché, come oggetto terreno, viene elevato – e questo spesso accade dopo il sopraggiungere della morte del produttore – a oggetto ultraterreno, donandogli delle proprietà quasi mistiche, se non magiche che possano concorrere alla creazione di un’epica di chi lo ha mantenuto nella sua raccolta di studi. Questa idea, una delle tante che vengono adottate per definirne la natura  – non esistendo una definizione precisa e univoca sul tema – non tiene conto del fatto che ogni archivio è, prima di tutto e implicitamente, uno spazio di oggetti e documenti che possono essere spostati da un luogo a un altro per ragioni di studio e conservazione. L’archivio è uno spazio e non un luogo nell’accezione per cui è potenzialmente illimitato e indefinito, pronto per la collocazione al suo interno di oggetti reali. La sua ambigua natura di insieme di oggetti e spazio in cui essi risiedono, porta a ritenerlo, in alcuni casi, una specie di manufatto artistico, una vera e propria installazione concettuale all’interno della quale è racchiuso il pensiero dell’artista o dell’intellettuale di cui è stato ereditato il lavoro. Sebbene siamo molto lontani dalla soluzione per una soddisfacente definizione di archivio, sempre più spesso assistiamo a eventi o concorsi che ne richiedono un approfondimento. 

L’archivio è da sempre uno spazio di conservazione della memoria: un tentativo di immortalità dell’uomo. Cristina Baldacci a questo proposito dà al suo libro Archivi impossibili il sottotitolo “ossessione dell’arte contemporanea”. Nell’opera, infatti, si tenta di affrontare la riflessione che riguarda le forme di catalogazione ripensate dagli artisti della contemporaneità, utilizzando mezzi e linguaggi a loro disposizione. L’ossessione punta più ad analizzare l’archivio come elemento che rientra all’interno di una serie di pratiche artistiche, come vero e proprio oggetto d’arte che punta a una riflessione sulle sue pratiche e alla capacità di conservazione della memoria; nonostante questo, si può dire che tale tipologia di riflessione è più che attuale in quanto ad oggi lo studio e l’interesse per l’archivio si è acuito, dando l’impressione di una vera e propria ossessione in merito. La ricerca di spazi-dispositivo appositi per la conservazione di ciò che è importante è legata all’idea primordiale della sopravvivenza. L’archivio è un potenziale insieme di documenti che vivono all’interno di un luogo definito che è la casa o lo studio dell’intellettuale; come tale, ogni archivio è unico, in quanto specchio di chi lo produce. Come una lingua morta, alla scomparsa dell’artista, l’archivio si cristallizza nel tempo. Al contrario, tutto quello che in precedenza era parte dello studio d’artista, assumeva i caratteri di una lingua viva che poteva essere ampliata, scissa modificandone la struttura (sintassi) e le componenti (lessico). La potenzialità di spazio e documenti in fieri è l’elemento di connessione tra essere e non essere dell’archivio. Fino a quando il produttore è ancora in vita, infatti, non possiamo parlare di archivio, elemento che esiste solamente dopo che si è creato un arresto irreversibile delle condizioni di ampliamento del fondo per volontà di chi lo ha costituito. 

Il proliferare dell’attenzione verso questi spazi è andato aumentando a partire dalla fine degli anni Ottanta, quando si è iniziato a dare maggiore importanza alla memoria e alla sua conservazione. Questa problematizzazione è andata di pari passo con l’avvento di internet che dagli anni Novanta in poi ha rivoluzionato la comunicazione mediale e, dunque, è stato utile alla catalogazione di grandi quantità di materiali. Le nuove tecnologie hanno accelerato l’evoluzione di modalità di conservazione e creazione di nuovi spazi digitali. La digitalizzazione comportava la creazione di una copia dell’originale fisico che poteva essere esperita attraverso uno schermo. Questo è uno dei problemi che vengono alla luce e che problematizzano il grande vantaggio di avere spazi infiniti di conservazione: da un lato, sacrificando la fruizione dell’originale, dall’altro proteggendolo dall’usura e dall’utilizzo improprio. 

Questa riflessione sul concetto di archivio d’artista e il suo rapporto con le nuove tecnologie di conservazione nasce a partire da una conversazione sul festival Archivi del Contemporaneo, che si svolge in Lombardia per tutto il mese di giugno. Questo evento è un esempio che attesta l’importanza di questi spazi nel panorama contemporaneo e può portare a riflettere anche sulle questioni tecniche che riguardano la salvaguardia e la conservazione dell’archivio come spazio di tutela del lavoro di un artista. Il festival nasce attraverso una collaborazione istituzionale attuata dalla regione Lombardia con l’obiettivo di valorizzare un’area periferica rispetto alla città di Milano, dalle zone di Gallarate verso la punta nord del Lago Maggiore, dove questi archivi sono raramente oggetto di attenzione da parte dei visitatori, eclissati dalla preponderanza della vita culturale milanese. Il progetto prevede una mappatura degli archivi di quegli artisti che hanno fatto la storia dell’arte della seconda metà del Novecento, la documentazione del loro lavoro e la testimonianza dei rapporti e degli scambi che hanno intrattenuto e costruito con la realtà dell’area interessata (archivio Bodini, Tavernari, Lucio Fontana tra gli altri). All’interno di questa zona, infatti, sono nati numerosi musei d’arte contemporanea che ruotano attorno a questi spazi di conservazione e preservazione della memoria. Tutte le realtà che vanno a comporre l’evento fanno capo al MA*GA, il museo di Gallarate, che fornisce le direttive e spiega come funziona l’archivio da tutti i punti di vista. L’obiettivo di questo festival è la riqualificazione di un territorio altrimenti invisibile, in cui gli archivi d’artista presenti a livello fisico svolgono un ruolo trainante nell’attuazione del progetto. In questo senso, l’entità-archivio ha il pregio di non essere classificata come una specie di azienda che tende ad avere autonomia e autosufficienza scalando determinati livelli, quanto uno scambio tra realtà di importanza artistica molto elevata che non riescono da sole a farsi carico di una promozione vera e propria. Il festival è, inoltre, un’occasione per riflettere sulle modalità di conservazione: data la difficoltà che la catalogazione e la ricerca di documenti e oggetti all’interno di un archivio fisico comporta, si sente sempre più la necessità di digitalizzare i contenuti, per rendere la fruizione dei documenti più agevole e meno pericolosa. Per questo motivo, dato che manca una legislazione chiara sul tema, ci si appoggia a una serie di software che, vedremo, adattano la loro offerta alla tipologia “archivio d’artista”, nonostante il loro raggio d’azione sia molto più ampio. 

Data questa serie di problematiche che sorgono tutt’ora riguardo ai temi della conservazione della memoria, possiamo far nostre le domande che Allan Sekula si poneva nel suo saggio Reading an archive. Photography between labour and capital: ci si potrebbe chiedere come viene preservata, trasformata e dimenticata la memoria storica e sociale – che è alla base dell’intenzione di creare un archivio attuando una selezione meticolosa, ma non per forza oggettiva e imprescindibile -, e anche quale sia la funzione di  questi spazi per il futuro, che cosa hanno intenzione di lasciarci e cosa, inevitabilmente per volontà o ingenuità, decidono di tralasciare. Secondo Sekula, infatti, l’archivio fonda la sua identità sul quantitativo di materiali che riesce a conservare, possiamo aggiungere, a seconda dello spazio che ha a disposizione. Nella loro contraddittorietà, gli archivi sono infatti la “casa del possibile” in cui ogni oggetto viene cristallizzato per il suo valore come singolo e in relazione a tutti gli altri, nell’ottica di chi ha deciso di conservarlo. Allo stesso tempo, tuttavia, l’archivio è anche uno spazio di neutralità e reinterpretazione deliberata, in cui ciò che è ospitato è parte integrante di un processo di ricostruzione narrativa: ogni oggetto, a seconda delle combinazioni in cui viene coinvolto, avrà un significato rispetto a se stesso e al suo interlocutore esterno. L’apertura degli spazi archivistici al pubblico con rassegne, spettacoli e mostre – qual è il caso di Archivi del contemporaneo, per quanto possa sembrare un’azione determinata semplicemente dalla sopravvivenza a fini economici, è un tentativo di ospitare queste interpretazioni e di aprirle a un pubblico molto più vasto. Sotto questo aspetto, dunque, l’archivio si svincola dal concetto di proprietà esclusiva (ownership) di cui parla Sekula nel suo saggio, aprendosi alla comunità che, grazie alla liberazione dalle contingenze di utilizzo dei materiali, può conoscere e interpretare personalmente i contenuti, riportando lo spazio alla sua complessità e ricchezza di utilizzo. 

Quanti più elementi del nucleo originario si riescono a conservare, tanto più questo intrico di combinazioni sarà numeroso e l’obiettivo di preservazione della memoria sarà rispettato. Se fino agli anni Duemila, però, era impensabile riuscire a conservare ogni elemento della storia di un artista o di un intellettuale, grazie ai processi di digitalizzazione siamo riusciti a trasporre in spazi dalle potenzialità di raccolta illimitate una grande quantità di materiale. Alessandro Curti, nel suo libro Il futuro degli archivi fotografici e la memoria digitale problematizza il fenomeno della digitalizzazione, mostrando il bivio a cui l’archivista si trova di fronte nel momento in cui si approccia alla possibilità di portare su un supporto virtuale e non fisico i materiali d’archivio. L’avanzamento tecnologico, infatti, è direttamente proporzionale alla velocità di obsolescenza a cui vanno incontro le innovazioni: Curti, per fare un esempio spiazzante, ci mette davanti alla decrepita vecchiaia dei floppy disk, strumenti che hanno poco più di cinquant’anni (per capirci, vengono usati a partire dagli anni Settanta) e che ormai sono considerati archeologia nel campo dell’informatica. Se riflettiamo sulle trasformazioni delle innovazioni storiche precedenti all’avvento di questo tipo di tecnologia, cinquant’anni ci sembrano un soffio, una parentesi nel breve periodo della storia, in cui il lungo periodo delle grandi rivoluzioni è ancora di là da venire. Eppure il floppy, così come il CD-ROM, strumento che ha circa una trentina di anni, fa parte ormai del passato. Questo effetto di archeologizzazione accelerata è testimoniato non tanto dalla velocità con cui si creano supporti con maggior capacità di memoria, quanto dall’impossibilità di poter accedere alla documentazione contenuta in quelli vecchi, che non risultano più leggibili da nessun programma recentemente aggiornato. Non si tratta, in questo caso, di un’obsolescenza che è tale perché segue la moda e lascia in un angolo dimenticato strumenti meno avanzati che possono comunque rimanere consultabili, se si decide di farlo; con le nuove tecnologie siamo di fronte a un intrappolamento della memoria e a una sua apparente e forzata scomparsa, fino a quando non si troveranno modi per poter sbloccare quanto ormai non è più accessibile. 

Questo concetto di esclusione dall’accesso, riporta a quanto detto da Sekula nel suo saggio: per quanto l’archiviazione di materiali possa essere un ottimo strumento di conservazione, quest’ultima rende difficile l’accesso senza degli strumenti adatti; potremmo attualizzare questa riflessione concentrandoci sulla (im)possibilità di accedere in modo illimitato e completamente gratuito a una miriade di contenuti archiviati in un database o su un supporto informatico. Questa, in realtà, è un’illusione di libertà temporanea che svanisce nel momento in cui non siamo più dotati degli elementi adatti alla loro lettura. 

Nonostante questa consapevolezza, molti archivi attualmente nascono digitali, cosa che comporta la necessità di trasporli in formato fisico per aumentare la sicurezza della loro conservazione. è una necessità in controtendenza con la digitalizzazione degli archivi materiali che cercano di affrontare lo stesso problema. Curti ammette che non c’è, ad oggi, una soluzione che possa risolvere questa contraddizione. Un altro problema dato dalla digitalizzazione è che spesso i metadati che costituiscono il file non sono rinominati correttamente e, ad esempio, nel caso della fotografia ci si trova spesso con miriadi di immagini che non hanno un titolo, un autore o un anno di produzione. Questo è un danno non da poco: l’archiviazione dell’immagine, per quanto importante, è annullata nel suo fine di conservazione della memoria dell’autore, oltre che dello scatto, dalla mancanza di informazioni essenziali che ne compromette la fedeltà del file all’originale, l’autenticità e lo scopo. Inoltre, finché non ci saranno delle direttive univoche che indichino agli archivi come muoversi, non ci saranno reali possibilità di crescita e di organizzazione a più ampio raggio. L’unico ente che possiede tali direttive in Italia è l’Archivio di Stato che però rimane sempre un’isola staccata dagli altri archivi pubblici o privati che siano. 

L’inesistenza di una traccia unica, banalmente di una sorta di Opac archivistico che aiuti la catalogazione, comporta una serie di scelte, tra cui l’appoggio a gestionali privati da cui comprare un abbonamento per il mantenimento del software per caricare e rendere fruibili i documenti all’utente. Tra le varie possibilità offerte in questo campo, anche i vari archivi che fanno parte del festival Archivi del Contemporaneo fanno affidamento a vari sistemi.

 Uno di questi è il SIRBeC, Sistema Informativo dei Beni Culturali di Regione Lombardia, creato tra gli anni Novanta e l’inizio del Duemila, che si definisce una “vera e propria infrastruttura della conoscenza di lungo periodo: un sistema di catalogazione compartecipata del patrimonio culturale lombardo, pubblico e privato, diffuso sul territorio o conservato all’interno di musei, raccolte e altre istituzioni culturali”. L’obiettivo di questo portale è quello di arrivare, insieme ad altri enti sparsi per il territorio italiano, a realizzare un catalogo unico dei beni culturali. Tuttavia, per interfaccia e modalità, nonostante l’immenso patrimonio catalogato e l’ampiezza dell’area di lavoro, non si è discostato molto dalle funzionalità che poteva avere all’inizio del secolo. 

A livello nazionale, inoltre, troviamo AITART, “associazione italiana archivi d’artista”, unico ente che al momento dà delle direttive univoche. Costituita nel 2014, questa realtà ha lo scopo di incentivare la “promozione della cultura e dell’arte ed in tale ambito persegue lo scopo di promuovere in ambito prevalentemente nazionale l’instaurarsi di interessi e pratiche comuni agli Archivi d’Artista e la promozione di attività di carattere culturale al fine di perseguire comportamenti virtuosi e scientificamente qualificati nelle attività degli Archivi”. Molto importante, in questo contesto, sono i corsi di formazione che AITART propone per la curatela di un archivio. Tuttavia, questa realtà è una vera e propria forza centripeta che punta a rendere autonomo un archivio che resta collegato a tutti gli altri che aderiscono al modello proposto solo per quanto riguarda la condivisione delle direttive a cui sottostanno, in quanto soci. 

In opposizione al SIRBeC, alle stregua di uno Steve Jobs dell’archivistica, MUSEUM, piattaforma sviluppata da COMWORK, è un’azienda che nasce grazie alle ricerche dell’Università Cattolica e che ha coinvolto al suo interno varie realtà, tra cui lo stesso MA*GA. L’obiettivo di MUSEUM è la conservazione del patrimonio artistico e culturale in formato digitale, come recita il motto “Il presente è il passato del futuro”. Ciò che offre è una piattaforma che supporti l’archivio che vi si affida nell’adozione di processi innovativi, come un vero e proprio motore di ricerca googleiano che ospita miriadi di enti culturali in tutto il territorio. In realtà ricopre i panni di un plug-in da inserire sul sito WordPress del museo, in modo che la migrazione dal fisico al digitale richieda “solo un click!” come recitava la famosa pubblicità della Kodak. Dando un’occhiata al loro sito si vede immediatamente che l’estetica la fa da padrone: pagine pulite, fondo nero, con opere manieriste e neoclassiche che creano un forte contrasto; font puliti, sans serif e rotondeggianti, che infondono fiducia e familiarità all’utente; frasi brevi e concise che mettono davanti a tutto i fatti e la mission, quasi completamente disinteressata al profitto (il link ai prezzi si trova nella barra rosso corallo in fondo a ogni pagina, sopra alle politiche di privacy policy, termini e condizioni e qualificazione). E’, anche questa, un’ulteriore isola nell’infinito mare delle possibilità di gestione dell’archivio, circondato, in questo caso, da musei, fondazioni e altri enti che possono appoggiarvisi. 

Queste problematiche, la mancanza di uno statuto nazionale che regoli le possibilità di digitalizzazione degli archivi, la libertà di scegliere qualsiasi ente o associazione che concorra alla facilitazione della loro conservazione, la mancanza di conoscenza dell’archivio come ente culturale di grande importanza per il pubblico medio, portano a riflettere su quanto la situazione italiana relativa a questi spazi sia ancora in una fase embrionale, dove tutto è possibile e non ci sono limiti alla conquista di spazio in questo territorio “arido di risorse catalogatrici”. Vige ancora, in questo contesto, la legge del più forte e del più potente a colpi di gigabyte e partecipazione a bandi europei.

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