Incontro con Giulio Calella pt.2

Incontro con Giulio Calella pt.2
Festival della Letterature Working Class
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Giulio Calella è cofondatore e presidente della cooperativa Edizioni Alegre, è editor di Jacobin Italia e ideatore del festival della Letteratura Working Class che si tiene al presidio ex-GKN di Campi Bisenzio. Abbiamo partecipato ad un suo incontro presso la Scuola del Tascabile di cui qui riportiamo un estratto. Ringraziamo per la disponibilità e la partecipazione Francesco Pacifico, senior editor del Tascabile e tutti gli studenti della Scuola del Tascabile.

Sei cofondatore della casa editrice Alegre Edizioni, un punto di riferimento in italia – e anche per noi di Rivista Stanca – su come è possibile coniugare politica e cultura, teoria critica e attivismo. Puoi dirci qualcosa sulla storia della casa editrice?

Alegre nasce nel 2003 dentro i movimenti. Vivevamo la stagione del post Genova 2001 e la capitale dei movimenti era Porto Alegre, dove nei primi anni del millennio ci fu un esperimento di democrazia partecipativa, uno dei primi governi di amministrazione comunale del Partito dei Lavoratori brasiliano, quello che poi ha portato Lula al governo. Da quell’esperienza nacque l’idea dei Social forum mondiali, che erano i luoghi di discussione dove si è costruita l’ossatura dei movimenti No Global (nati negli Stati Uniti, a Seattle, nel 1999 e in Italia esplosi proprio a Genova nel 2001 nelle manifestazioni contro il G8). Da lì abbiamo preso il nome, in un periodo in cui c’era un’effervescenza dei movimenti sociali e contemporaneamente anche un fiorire di riviste e case editrici di estrema sinistra nate proprio in quegli anni. Avevamo l’esigenza di strumenti per ricostruire le idee politiche anticapitaliste dopo la sbornia da “fine della storia” vissuta negli anni Novanta a seguito del crollo del Muro di Berlino e il presunto trionfo del capitalismo liberista. 

In questi vent’anni la situazione politica è molto cambiata: nel 2003 non avremmo mai pensato di ritrovarci a vivere in un paese senza una sinistra. Lo spartiacque è stata la crisi economica e poi politica vissuta tra il 2006 e il 2011. In quegli anni è cambiato profondamente lo scenario politico e di movimento a livello internazionale, e in Italia in modo particolare. 

Alegre Edizioni quindi ha attraversato in questi vent’anni un periodo di grandi cambiamenti politici, culturali, sociali e tecnologici. Come è riuscita ad adattarsi e sopravvivere? Quanto è cambiato il lavoro della casa editrice?

Quando siamo nati eravamo in un’altra fase storica, basti pensare che Repubblica e il Corriere della sera vendevano un milione di copie al giorno e oggi faticano a venderne 100 mila, e anche un giornale di estrema sinistra come il manifesto vendeva almeno 5 volte di più di quanto vende oggi. Alegre è stata costituita come una cooperativa giornalistica con l’intento di proporre libri di approfondimento sui temi di attualità ai giornali di estrema sinistra: i nostri primi libri sono usciti infatti non solo in libreria ma anche in edicola in abbinata con il manifesto, con Liberazione – che all’epoca era il quotidiano di Rifondazione Comunista,– e con il settimanale Carta, altra rivista molto legata ai movimenti. Sia Liberazione che Carta non esistono più, sono fallite proprio subito dopo quella crisi spartiacque del 2006-2009 che dicevo. Al momento della nostra nascita c’era invece un vero e proprio boom della vendita dei libri in edicola. Poi, piano piano, con la crescita dell’online ma anche con la crisi della partecipazione politica di massa, i giornali hanno cominciato ad avere una crisi di vendita che i libri invece non hanno vissuto, mantenendo una buona costanza di diffusione. Il progetto si è quindi di conseguenza evoluto ed è cresciuta al nostro interno la voglia di creare un catalogo di libri non soltanto legati all’attualità ma in grado di rimanere vivi negli anni. 

Per la nostra evoluzione editoriale sono stati decisivi alcuni incontri che abbiamo avuto nel nostro percorso: primo fra tutti quello con Stefano Tassinari, scrittore militante bolognese, scomparso prematuramente nel 2012, con cui abbiamo fondato la Rivista Letteraria, un semestrale di letteratura sociale. In questo progetto Tassinari ha coinvolto molti dei collaboratori che tuttora rappresentano l’ossatura della nostra casa editrice. Tra questi Wu Ming 1, che oggi dirige la collana di Alegre Quinto Tipo, una serie di libri ibridi che mescolano narrativa e saggistica. Un altro incontro fondamentale fatto dentro la rivista Letteraria è stato quello con Alberto Prunetti, con cui abbiamo poi fondato la collana di narrativa Working Class e ideato, insieme anche al Collettivo di fabbrica della Gkn, il Festival di Letteratura Working Class. Contemporaneamente abbiamo puntato sulla nuova ondata di movimento femminista diventando gli editori italiani della leggendaria attivista afroamericana Angela Davis. Insomma, il nostro lavoro nel tempo si è trasformato in parallelo al cambiamento di fase politica, quando il bisogno è stato quello di ricostruire idee e linguaggi in mare aperto e non prevalentemente all’interno dei movimenti e di un’estrema sinistra che, per quanto minoritaria, era comunque ancora consistente. Da questa nuova esigenza di ricostruzione politica è nata anche l’idea di mettere in piedi l’edizione italiana della rivista Jacobin.

Alegre, Jacobin e il Festival di Letteratura Working Class oggi attirano intorno a sé l’attenzione del mondo della sinistra radicale e dell’attivismo politico. Questa è per voi un’occasione o rischia di diventare anche una responsabilità eccessiva rispetto al vostro lavoro?

Entrambe le cose. Nel vuoto politico di questi anni noi siamo invece cresciuti molto, rispondendo alla domanda di formazione politica a cui prima davano risposta le strutture politiche organizzate e rappresentando comunque un punto di riferimento teorico. A volte però con un’aspettativa a cui per nostra natura possiamo rispondere solo in parte. Ad esempio quando è nata Jacobin Italia è stata subito un piccolo caso editoriale ma alle prime presentazioni ed eventi, sempre molto partecipati, veniva fuori la richiesta di risolvere con la nostra rivista il problema di un paese senza sinistra – cosa che obiettivamente va oltre le possibilità del nostro lavoro. 

Un’aspettativa di questo tipo l’abbiamo in parte ritrovata anche nel Festival di letteratura Working Class: migliaia di persone hanno vissuto anche sentimentalmente quell’esperienza, con un evidente bisogno di un nuovo senso di appartenenza a una comunità sociale e politica. Le persone non se ne volevano andare senza aver portato via qualcosa con sé, che fosse un libro, una shopper o una maglietta del Festival. Il sentimento vissuto nei nostri Festival working class a me ricorda  quello del Social Forum europeo a Firenze del 2002 alla Fortezza da Basso. Il clima era simile, a ogni conferenza c’erano centinaia di persone che prendevano appunti, con un fortissimo senso di appartenenza e la sensazione che quell’evento potesse rappresentare una speranza nuova per la sinistra. Il nostro Festival ha avuto in parte il ruolo che allora avevano i movimenti, creando un ambiente dove  alludere a livello simbolico, di idee e di linguaggio a una nuova sinistra possibile.

Il Festival di Letteratura Working Class oggi è un riferimento culturale e politico forte, un festival lontano dai compromessi e vicino a chi crede che un attivismo culturale dal basso sia ancora possibile. Quando avete avuto l’idea di creare questo festival?

L’ispirazione ci è stata data dal Festival di Letteratura Working Class fatto a Bristol nel 2021, il primo festival di questo tipo in Europa. Si è trattato di un festival molto più piccolo di quelli che abbiamo fatto noi, non per qualità ma per numero di partecipanti: era un festival internazionale con 60-70 persone alle varie iniziative, nel nostro caso c’erano invece tra le 500 e le duemila persone a ogni panel – praticamente ogni libro presentato è stato un evento di massa. Bristol ci ha dato l’ispirazione, però non volevamo fare un festival di letteratura simile ai tanti festival che ci sono già. Non volevamo semplicemente un festival incentrato su un genere letterario, e men che meno volevamo che la letteratura working class diventasse soltanto una categoria merceologica. Volevamo che il festival fosse direttamente uno strumento per la working class, per ricostruire un immaginario capace di rendere più forti nel rivendicare i propri diritti. Fare il festival a Campi Bisenzio insieme al Collettivo di fabbrica, come strumento diretto della loro lotta, ci ha dato la possibilità di fare un festival davvero unico.

La working class è stata eliminata dall’immaginario collettivo per questo la letteratura può diventare uno strumento di lotta decisivo. Noi avevamo già intrapreso questo percorso con la collana Working Class insieme ad Alberto Prunetti. L’idea della collana è nata dopo la pubblicazione del primo libro di Prunetti, Amianto, che ha dato vita a una riflessione sulla letteratura working class che fino al 2013 non veniva nemmeno nominata come genere letterario. Spesso questo tipo di letteratura viene infatti pubblicata ma non viene valorizzata come parte di un genere specifico. Per esempio la scrittrice premio Nobel Annie Ernaux presenta sé stessa proprio come scrittrice working class, ma i sui romanzi raramente vengono considerati come tali. Un caso limite è la pubblicazione in italiano della raccolta di racconti postuma di Lucia Berlin, il cui titolo originale è A Manual for Cleaning Women  che in italiano è stato pubblicato con il titolo La donna che scrive racconti. C’è proprio una tendenza a cancellare il tema della classe o a tenerlo in secondo piano. Noi siamo gli unici ad avere una collana con questo tipo di poetica, con storie che non semplicemente parlano di lavoro ma che sono scritte da autori e autrici di classe lavoratrice o cresciuti in famiglie di classe lavoratrice.  

Il presidio della Gkn, per usare un pessimo eufemismo, è «un miracolo italiano». Gli operai continuano a presidiare la fabbrica di Campi Bisenzio ormai da tre anni ed è diventata un punto di riferimento internazionale e la più lunga lotta di fabbrica della storia recente, avvenuta per di più in uno dei momenti più bui della sinistra globale. Decidere di organizzare proprio lì il Festival di Letteratura Working Class è un atto politico forte, che oggi può sembrare una scelta scontata ma che qualche anno fa nessuno avrebbe saputo immaginare. Puoi raccontarci come le due storie – il festival e la lotta della Gkn – si sono incrociate?

Quella della Gkn è una lotta ormai epica, la più lunga lotta operaia del nostro Paese. Sono tre anni che reggono questa situazione incredibile, con una grande capacità di lotta politica e sindacale, certo, ma anche di fare le barricate con le parole. In questo ha avuto un ruolo cruciale il percorso sindacale collettivo fatto da quegli operai negli anni precedenti al licenziamento avvenuto nel 2021, e la capacità di saper comunicare la lotta da parte soprattutto di Dario Salvetti, che è il delegato di fabbrica. Con Dario in realtà ci conoscevamo già da ragazzi, dai tempi del movimento No Global appunto, e dopo tanti anni ci siamo reincontrati davanti ai cancelli della Gkn. Dalla loro pratica di convergenza, con altri movimenti ma anche con le esperienze culturali con loro solidali, è nata l’idea di fare un libro sulla loro lotta, Insorgiamo, un libro che di fatto è un diario: abbiamo preso i loro comunicati sui social network e i loro i comizi e li abbiamo montati insieme narrativamente grazie al lavoro di Prunetti, fino a ottenere un vero e proprio diario di lotta. 

Dopo il libro è nata l’idea di proporgli anche di fare insieme il festival. Sembrava una cosa da pazzi fare un festival in una zona industriale e così difficile da raggiungere, invece alla fine è stato anche quello il segreto del successo trasformandolo anche in un vero strumento di lotta. Questa cosa infatti ha fatto impazzire l’attuale proprietà della fabbrica, che ha l’unico obiettivo di disfarsi degli operai per mettere a reddito in altro modo quel sito industriale, ma hanno trovato sulla loro strada una comunità resistente oltre che un tribunale che ha ripetutamente annullato i licenziamenti per condotta antisindacale. Con la propria idea distorta di legalità la proprietà ha minacciato di denuncia tutti i partecipanti al festival, innervositi dall’attenzione anche mediatica che abbiamo avuto, ma ha finito per alimentare la partecipazione oltre le nostre stesse aspettative. 

Il festival è riuscito così a dare concretezza al tipo di letteratura che facciamo, costituendo il punto più alto e forte dell’idea che persegue la nostra casa editrice da quando siamo nati: fare politica e conflitto sociale con i libri.  

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